Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19542 del 14/09/2010

Cassazione civile sez. I, 14/09/2010, (ud. 11/06/2010, dep. 14/09/2010), n.19542

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

C.A., con domicilio eletto in Roma, via Chigimaio, 42

presso l’avv. Ferrara Alessandro, rappresentata e difesa dall’Avv.

Ferrara Silvio come da procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA ECONOMIA E DELLE FINANZE;

– intimato –

per la cassazione del decreto della Corte d’appello di Napoli

depositato il giorno 8 gennaio 2008;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

giorno 11 giugno 2010 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio

Zanichelli.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

C.A. ricorre per cassazione nei confronti del decreto in epigrafe della Corte d’appello che ha rigettato il suo ricorso con il quale è stata proposta domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per violazione dei termini di ragionevole durata del processo iniziato avanti al TAR Campania il 15 settembre 1994 e non ancora definito alla data di presentazione della domanda (15 marzo 2007).

L’intimata Amministrazione non ha proposto difese.

La causa è stata assegnata alla camera di consiglio in esito al deposito della relazione redatta dai Consigliere Dott. Vittorio Zanichelli con la quale sono stati ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il primo motivo di ricorso con cui si deduce violazione di legge per avere la corte d’appello, al fine di escludere il diritto all’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo, valorizzato il mancato deposito di istanze sollecitatorie in assenza di specifica eccezione o deduzione sul punto da parte dell’Amministrazione resistente è manifestamente infondato. Premesso che la circostanza di fatto valorizzati dalla Corte d’appello era desumibile dagli atti di causa nessuna violazione del disposto dell’art. 112 c.p.c. può ravvisarsi nella fattispecie in quanto la Corte ha già ritenuto che posto, “In generale, il principio secondo cui tutte le ragioni che possono condurre al rigetto della domanda per difetto delle sue condizioni di fondatezza, o per la successiva caducazione dei diritto con essa fatto valere, possono essere rilevate anche d’ufficio, in base alle risultanze “rite et recte” acquisite al processo, nei limiti in cui tale rilievo non sia impedito o precluso in dipendenza di apposite regole processuali, con l’effetto che la verifica attribuita al giudice in ordine alla sussistenza del titolo – che rappresenta la funzione propria della sua giurisdizione – deve essere compiuta, di norma, “ex officio”, in ogni stato e grado del processo, nell’ambito proprio di ognuna delle sue fasi, si deve affermare che detto principio trova il suo principale limite – in relazione al disposto dell’art. 112 cod. proc. civ. – nell’inammissibilità della pronuncia d’ufficio sulle eccezioni, perciò denominate “proprie” e specificamente previste normativamente, che possono essere proposte soltanto dalle parti, ricadendo, in virtù di una scelta proveniente dalla legge sostanziale e giustificatesi in ragione della tutela di particolari interessi di merito, nella sola loro disponibilità (Sez. 50 Sentenza n. 11108 del 15/05/2007). Poichè certamente nessuna norma di legge pone limiti all’accertamento della sussistenza di elementi che escludano in concreto l’ansia conseguente alla durata del processo nè può ritenersi nella disponibilità dell’Amministrazione avvalersi o no degli stessi una volta che comunque emergano dagli atti, non è ravvisabile alcuna esorbitanza da parte del giudice del merito dai limiti della cognizione laddove ha valorizzato dati di fatto tali da escludere il presupposto del diritto vantato e cioè la sussistenza del patema d’animo conseguente alla durata del procedimento.

Il secondo e il terzo motivo di ricorso con cui si deduce violazione di legge per avere il giudice del merito dedotto l’insussistenza del patema d’animo conseguente alla pendenza del giudizio e quindi del diritto all’equo indennizzo dalla sola circostanza che non erano state presentate istanze sollecitatorie, interpretata come consapevolezza dell’infondatezza della pretesa, sono manifestamente fondati in quanto è giurisprudenza ormai costante quella secondo cui “In tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, la lesione del diritto alla definizione dei processo in un termine ragionevole, di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, va riscontrata, anche per le cause davanti al giudice amministrativo, con riferimento al periodo intercorso dall’instaurazione del relativo procedimento, senza che una tale decorrenza del termine ragionevole di durata della causa possa subire ostacoli o slittamenti in relazione alla mancanza dell’istanza di prelievo od alla ritardata presentazione di essa. La previsione di strumenti sollecitatori, infatti, non sospende nè differisce il dovere dello Stato di pronunciare sulla domanda, in caso di omesso esercizio degli stessi, nè implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell’apprezzamento della entità del lamentato pregiudizio” (Sez. 1, Sentenza n. 24438 del 16/11/2006), dovendosi dunque escludere che di per sè sola la negligenza processuale possa essere interpretata come totale disinteresse o addirittura come consapevolezza del sicuro esito negativo dell’iniziativa processuale.

L’accoglimento dei richiamati motivi comporta l’assorbimento del quarto.

Il decreto impugnato deve dunque essere cassato.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto e determinato in anni tre il tempo ragionevolmente necessario per il giudizio di primo grado, in difetto di evidenziati elementi di particolare complessità, e in Euro 750 in ragione d’anno l’equo indennizzo in considerazione dell’evidenziata negligenza che induce a ridurre il parametro indicato come normale nella giurisprudenza della Corte europea, il Ministero dell’Economia e delle Finanze deve essere condannato al pagamento di Euro 5.575, oltre interessi di legge dalla data della domanda, a titolo di indennizzo per la durata irragionevole di anni sette e mesi sei del giudizio presupposto.

Le spese di entrambi i gradi seguono la soccombenza.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione, cassa il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna il Ministro dell’Economia e delle Finanze al pagamento in favore di C. A. della somma di Euro 5.575, oltre interessi di legge dalla data della domanda; condanna altresì l’Amministrazione al pagamento delle spese processuali del giudizio che liquida in complessivi Euro 1.190, di cui Euro 490 per onorari, Euro 600 per diritti e Euro 100 per spese, e Euro 1.000, di cui Euro 900 per onorari, per la fase di legittimità, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 11 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2010

 

 

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