Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1954 del 28/01/2021

Cassazione civile sez. VI, 28/01/2021, (ud. 05/11/2020, dep. 28/01/2021), n.1954

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18848-2019 proposto da:

H.J., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR

presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato PAOLO ALESSANDRINI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto n. R.G. 8072/2018 del TRIBUNALE di L’AQUILA,

depositato il 07/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 05/11/2020 dal Consigliere Relatore Dott. SCOTTI

UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA e RAGIONI DELLA DECISIONE

La Corte, rilevato che:

con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008 ex art. 35 bis, depositato il 23/3/2018 H.J., cittadino del Bangladesh, ha adito il Tribunale di L’Aquila impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria;

il ricorrente, cittadino del Bangladesh, aveva riferito di aver lasciato il proprio Paese, dopo che alcuni parenti avevano iniziato a rivendicare diritti sui terreni da lui coltivati insieme alla propria famiglia; di aver subito numerosi atti intimidatori; che in una occasione uno dei parenti ostili aveva aggredito e ferito ad un piede il suo fratello minore; di aver denunciato l’accaduto alla polizia e di aver successivamente concordato che con il ritiro della denuncia sarebbe venuta meno la pretesa sui terreni; di aver lasciato il villaggio per le ostinate rivendicazioni dei parenti, temendo a quel punto per la propria vita;

il Tribunale ha respinto il ricorso, ritenendo che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento di ogni forma di protezione internazionale e umanitaria;

avverso il predetto decreto del 7/5/2019, comunicato in pari data, con atto notificato il 6/6/2019 ha proposto ricorso per cassazione M.S., svolgendo tre motivi;

l’intimata Amministrazione dell’Interno non si è costituita;

è stata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. la trattazione in camera di consiglio non partecipata;

ritenuto che:

con il primo motivo di ricorso (rubricato A), proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 4 della Direttiva 2011/95/UE, al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, all’art. 10 della Direttiva 2013/32/UE, al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, lamentando sia carenza e apparenza della motivazione adottata, sia violazione dello speciale regime probatorio e del dovere di cooperazione istruttoria incombente sul Giudice avendo omesso il Tribunale la dimore, della situazione di pericolo e di emergenza dovuta alla violenza indiscriminata e ai conflitti in atto in Bangladesh;

il motivo, lamentando motivazione apparente, mancata cooperazione istruttoria e violazione dello speciale regime probatorio con riferimento alla protezione internazionale, si limita a formulare deduzioni del tutto generiche, non collegate al caso concreto;

tali deduzioni, inoltre, non sono pertinenti rispetto alla ratio decidendi del provvedimento impugnato che, a pagina 9, ha escluso che la vicenda riferita (pressioni e scontri in ambito familiare imperniate sulla rivendica di un terreno) fosse riconducibile a una vicenda persecutoria suscettibile di giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato o che potesse configurarsi una ipotesi di rischio di danno grave individualizzato D.Lgs. n. 251 del 2007 ex art. 14, lett. a) e b), in assenza di dirette minacce di torture e condanna a morte;

il ricorrente poi esterna il proprio dissenso di merito dalla motivata valutazione del Tribunale, basata su informazioni tratte da fonti accreditate, compendiate e citate (pag.7-9);

con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, per l’apodittica esclusione di fenomeni di violenza indiscriminata in Bangladesh, viceversa attestati da altre fonti, senza procedere ai doverosi accertamenti e affermando la non coincidenza fra criminalità pervasiva e violenza indiscriminata;

anche questo motivo, proposto con specifico riferimento alla protezione sussidiaria, appare inammissibile, perchè rivolto a proporre una censura di merito attraverso deduzioni generiche, non rapportate al contenuto specifico del provvedimento impugnato, che ha valutato alle pagine da 7 a 9 la situazione socio-politica generale del Paese di origine del richiedente asilo; quanto alla nozione di conflitto armato interno, il Tribunale si è conformato alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Sez. 2, n. 15317 del 17/07/2020, Rv. 658284 – 01; Sez. 6 – 1, n. 18306 del 08/07/2019, Rv. 654719 – 01; Sez. 6 – 1, n. 9090 del 02/04/2019, Rv. 653697 – 01; Sez. 1, n. 14006 del 31/05/2018, Rv. 649169 – 01);

con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 4 della Direttiva 2011/05/UE, al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 4, al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, all’art. 2 Cost., al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, in ragione del difetto di motivazione in relazione alla ritenuta insussistenza di un danno grave e dunque di vulnerabilità in capo al richiedente, determinata sia dalle minacce subite dai familiari, sia dalla grave emergenza umanitaria in Bangladesh, nonchè della contraddittorietà della motivazione circa la possibile rilevanza della situazione di violenza diffusa non assurgente alla nozione di conflitto armato interno ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria;

anche questa censura si risolve in una generica critica di merito rispetto alla motivata valutazione del Tribunale, condotta secondo i parametri del giudizio comparativo fra le condizioni di vita del Paese di provenienza nel caso di rimpatrio (al cui proposito la Corte di appello ha rilevato la mancata specifica deduzione di una condizione di vulnerabilità) e quelle attuali sul territorio italiano fissati dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. Unite n. 24960 del 13/11/2019), come palesano le espressioni rivelatrici usate (“esame comparativo del tutto errato”, “discutibile ricostruzione delle condizioni attuali del Bangladesh”, “valutazione che ha del tutto sminuito il percorso individuale del ricorrente”); il motivo inoltre introduce inammissibilmente riferimenti, oltretutto assolutamente generici e indeterminati, a documenti asseritamente prodotti e non valutati dal Tribunale (che dimostrerebbero l’apprendimento di una lingua e la sussistenza di un valido rapporto lavorativo: ricorso pag.14), senza neppure dar conto del momento e del modo di produzione e della loro collocazione specifica negli atti processuali.

ritenuto pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, senza condanna alle spese in difetto di costituzione della parte intimata.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2021

 

 

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