Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1954 del 27/01/2011

Cassazione civile sez. lav., 27/01/2011, (ud. 21/12/2010, dep. 27/01/2011), n.1954

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6906/2007 proposto da:

C.I., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE G. MAZZINI

6, presso lo studio dell’avvocato VITALE Elio, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CA.RO., in qualità di socio accomandatario della EFRA

S.a.s. di CAPRARO ROSA E C. elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

B. BUOZZI 77, presso lo studio dell’avvocato PAMPHILI Luigi, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4016/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/11/2006 R.G.N. 4739/04;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

21/12/2010 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI per delega VITALE ELIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del Tribunale di Roma del 12.5.2003, era stata rigettata la domanda proposta da C.I., intesa ad ottenere l’accertamento della natura subordinata del rapporto intercorso con la resistente e la condanna al pagamento delle differenze retributive.

Su appello della lavoratrice, la Corte di Appello di Roma, con sentenza resa il 6.11.2006, confermava la pronunzia di primo grado, rigettando il gravame, sul rilievo che non era contestato che la C. avesse lavorato nel negozio della Ca. da sola e quindi senza essere in concreto soggetta a forme di controllo ed a direttive da parte della presunta datrice di lavoro e rilevava, altresì, che la stessa non avesse provato di ricevere una retribuzione fissa mensile, a fronte della deduzione di parte avversa che il compenso avveniva con la corresponsione di percentuale sugli incassi; che la stessa, poi, potesse concedere sconti o dilazione era stata circostanza non chiarita nell’istruttoria, avendo due testi escussi fornito versioni difformi al riguardo.

Non vi era, poi, certezza sugli orari di lavoro e le prove non avevano affatto chiarito il connotato essenziale della subordinazione, e cioè la soggezione al potere direttivo, di controllo e disciplinare del presunto datore.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione la C., affidato a cinque motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso ritualmente notificato, la Ca., in qualità di socio accomandatario della sas EFRA di Capraro Rosa & C. Nessuna delle parti ha depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di impugnazione la C. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2099, 2102, 2549, 2552, 2553 e 2554 c.c., nonchè degli artt. 35 e 36 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 1 e 3.

La Corte territoriale, a dire della ricorrente, avrebbe dovuto riconoscere la duplice qualità, in capo ad essa, di associato e di lavoratore subordinato, oppure stabilire la prevalenza dell’una sull’altra sulla base della valutazione degli elementi utili a tale indagine, quali la esistenza della garanzia del guadagno, ovvero la sussistenza dell’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa (non immutabile dall’associante e non limitato alla perdita della retribuzione, con salvezza del diritto alla retribuzione minima proporzionata alla quantità e qualità del lavoro). Non era stata la ricorrente retribuita sulla base degli utili di impresa, nè era emerso che la stessa avesse avuto alcun conguaglio sulla retribuzione mensile, ovvero che fosse stata soggetta ad alcun rischio di impresa o avesse ricevuto alcun rendiconto sulla gestione.

Le indicazioni fornite dai testi erano state scarsamente significative. Si richiamano sentenze della S.C. sulla necessità che l’associato lavoratore partecipi agli utili, ma anche alle perdite e che abbia cognizione della contabilità aziendale.

Con il secondo motivo, la ricorrente deduce l’omessa motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5.

Si assume che la Corte nulla abbia argomentato in merito all’unico elemento essenziale e distintivo del contratto di associazione in partecipazione e fatto oggetto di appello, consistente nella partecipazione dell’associato al rischio di impresa e nella partecipazione anche alle perdite ex art. 2554 c.c..

Con il terzo motivo, denunzia l’omessa motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360, n. 5, in particolare, sull’obbligo di rendiconto di cui all’art. 2552 c.c., comma 3, connesso al rischio di impresa. Anche in relazione a ciò assume che la decisione sarebbe in contrasto con l’accertamento negativo dello stesso.

Ancora si lamenta, con il quarto motivo, l’omessa motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, assumendosi che la Corte territoriale abbia omesso di valutare elementi decisivi per il riconoscimento del diritto azionato, come la circostanza che l’appellante apriva e chiudeva il negozio rispettando le fasce orarie stabilite dall’autorità amministrativa e non aveva mai omesso di adempiere a tale obbligo, indicativo della continuità di prestazione e della soggezione al potere direttivo e di controllo e disciplinare della persona che assumeva le scelte di fondo nell’organizzazione dell’azienda, tipiche di rapporto di lavoro subordinato .

Infine, con l’ultimo motivo di impugnazione, viene denunziata l’omessa motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

L’appellata poteva accedere in negozio in qualunque momento e non è vero che non avesse le chiavi; la circostanza che l’appellante avesse anche l’incarico e l’obbligo di annotare sul libro dei corrispettivi le entrate giornaliere era un’operazione prettamente esecutiva e su dette entrate calcolava la percentuale spettantele da tali elementi doveva dedursi che la ricorrente non esercitasse alcun controllo sulla gestione e sul rendiconto dell’impresa.

Osserva la Corte, quanto al primo motivo di impugnazione, che la ricorrente formula solo in calce all’esposizione di tutti gli altri motivi i quesiti riferiti ad un ognuno degli stessi; peraltro, gli stessi sono plurimi e generici e non correlati al caso concreto, avendo riguardo unicamente ai caratteri distintivi tra associazione in partecipazione e lavoro subordinato, donde l’inammissibilità del motivo in esame. Inoltre, sebbene si indichino alcuni elementi ritenuti indicativi dell’impossibilità di sussumere la fattispecie nello schema dell’associazione in partecipazione (retribuzione sulla base degli utili di impresa, previsione di conguagli sulla retribuzione mensile, soggezione al rischio di impresa e rendiconto sulla gestione), deve osservarsi che tali elementi o sono stati ritenuti sforniti di adeguata prova o non sono stati reputati rilevanti ai fini voluti. Ed invero, non vale ad escludere la causa del contratto di associazione in partecipazione la mancanza di una effettiva possibilità di controllo dell’associato sulla gestione dell’impresa, atteso che l’art. 2552 c.c., comma 3, prevede il diritto dell’associato al controllo ed al rendiconto annuale della gestione, ma non ne determina le modalità, lasciando alle parti il potere di stabilire le modalità del controllo e lasciando poi libera la parte associata di esercitare o non tali poteri. Anche le modalità concrete del controllo e del rendiconto non rientrano, dunque, nella struttura essenziale della causa del contratto de quo e non ne determinano l’invalidità (cfr., in tali termini, Cass., sez. lav., 24871/2008).

Ad escludere la causa del contratto di associazione in partecipazione non vale neppure la circostanza che la partecipazione dell’associato lavoratore è prevista come commisurata al ricavo dell’impresa, anzichè agli utili netti. Poichè l’art. 2553 c.c., consente alle parti di determinare la quantità di partecipazione dell’associato agli utili, non contrasterebbe con lo schema contrattuale neanche una partecipazione rapportata non già agli utili netti, bensì al ricavo dell’impresa; in tal modo si attribuirebbe all’associato una partecipazione maggiore di quella che gli spetterebbe dalla mera partecipazione agli utili. Ugualmente non snatura la causa del contratto che la ricorrente non partecipi anche alle perdite, atteso che l’art. 2554 c.c., comma 1, espressamente prevede una forma particolare di cointeressenza nella quale vi è la possibilità che le parti escludano l’associato dalla partecipazione alle perdite.

Allo stesso modo l’art. 2553 c.c., consente alle parti di convenire in misura diversa la partecipazione dell’associato agli utili dalla partecipazione alle perdite, senza peraltro affermare la necessità di una partecipazione alle perdite, la quale, dunque, non è elemento qualificante della causa del contratto in esame, che è ravvisabile, in definitiva, nello scambio tra un determinato apporto dell’associato all’impresa dell’assodante ed il vantaggio economico che l’associante si impegna a corrispondere al primo. Non possono ritenersi, pertanto, violate le norme invocate, le quali risultano, al contrario, correttamente interpretate dalla corte territoriale nelle argomentazioni poste a fondamento della sia pur scarna motivazione, che, comunque, ha rilevato l’insussistenza di elementi idonei a qualificare in termini di subordinazione il rapporto intercorso tra le parti.

Secondo la costanze giurisprudenza di questa Corte, peraltro, la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro effettuata dal giudice di merito è censurabile in sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi di individuazione della natura subordinata o autonoma del rapporto, mentre l’accertamento degli elementi che rivelino l’effettiva presenza del parametro stesso nel caso concreto e che siano idonei a ricondurre la prestazione al suo modello costituisce un apprezzamento di fatto delle risultanze processuali, che è sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione (cfr., tra le altre, Cass, n. 4171/2006; n. 15275/2004; n. 8006/2004).

Quanto at secondo motivo di impugnazione, deve rilevarsi che con lo stesso non si individua il vizio logico se non attraverso la generica deduzione che, pur avendo la Corte territoriale enunciato gli elementi che caratterizzano il contratto di associazione in partecipazione, aveva disatteso nella motivazione detti enunciati nonostante l’accertamento negativo della presenza di detti elementi.

Tale deduzione, che risulta da disattendere alla stregua da quanto osservato in relazione alla individuazione degli elementi che connotano la causa del contratto di associazione in partecipazione, risulta in contrasto, poi, con quanto prescritto da art. 366 bis c.p.c., in base al quale l’illustrazione del motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Analogamente deve dirsi quanto al terzo motivo di ricorso, sia in relazione alla idoneità della deduzione del vizio, che in relazione alla non significatività dell’elemento invocato idoneo ad escludere la configurabilità di rapporto di lavoro diverso da quello subordinato.

In ordine al quarto motivo, deve rilevarsi che lo stesso contiene una prospettazione di una diversa valutazione di merito, non giustificata dalla deduzione di precisi e puntuali vizi motivazionali, laddove il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5), è configurarle soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti da giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione, (cfr. Cass. 2272/2007, nonchè alla stesa conformi, Cass. 14084/2007 e 15264/2007). In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (cfr. Cass 2272/2007 cit.).

Con l’ultimo motivo, si tende, poi, a confutare quanto accertato in merito a circostanze che non avrebbero rivestito valore decisivo ai fini della esclusione della subordinazione, quali l’annotazione delle entrate sul libro dei corrispettivi, definita operazione meramente materiale ed esecutiva, inidonea a connotare una mancanza di subordinazione, che, al contrario, avrebbe dovuto ritenersi alla stregua di altri elementi emersi, quali il possesso delle chiavi del negozio da parte della resistente e, soprattutto, la possibilità di accesso in qualunque momento nell’esercizio, che denotavano caratteristiche diverse da quelle attinenti ai controllo del rendiconto e della gestione dell’impresa da parte della lavoratrice.

Anche questo motivo attiene a valutazioni di merito estranee al giudizio di legittimità, atteso che l’art. 360, n. 5, contrariamente a quanto suppone l’attuale ricorrente, non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti. Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente e illogico, non già quando il giudice abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore e un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte.

in definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto deve essere respinto, laddove le spese del presente giudizio, in applicazione della regola della soccombenza, cedono a carico della C..

P.Q.M.

La Corte così provvede:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 23,00 per esborsi, Euro 2.500,00 per onorario, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2011

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