Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19539 del 18/09/2020

Cassazione civile sez. I, 18/09/2020, (ud. 17/07/2020, dep. 18/09/2020), n.19539

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27931/2018 proposto da:

Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

I.M., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Neri Livio, giusta procura speciale allegata al

ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1639/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 30/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/07/2020 dal Consigliere VELLA Paola.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Milano ha respinto la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero della protezione sussidiaria o in subordine di quella umanitaria, proposta dal cittadino pakistano I.M., nato nel villaggio di (OMISSIS), il quale aveva dichiarato: di essere di etnia sunnita e di religione mussulmana; di aver frequentato la scuola sino alla terza media e di aver lavorato come contadino sul terreno di proprietà familiare; di essere orfano di madre con quattro sorelle; di essere fuggito dal Pakistan poichè la maggioranza sciita del suo villaggio lo aveva aggredito e ferito (con una sbarra di ferro ed esplodendo alcuni colpi di pistola) durante un rito religioso sunnita organizzato a casa sua il 21 maggio 2013; che suo padre aveva denunciato gli aggressori che erano stati arrestati, ma subito rilasciati e assolti corrompendo la polizia; che perciò egli, temendo di essere ucciso, dopo una degenza ospedaliera di quindici giorni si era trasferito dapprima a Karachi e poi era emigrato all’estero, come altri due sunniti parimenti malmenati.

La Corte di appello di Milano ha accolto parzialmente l’appello del ricorrente, riconoscendo il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari. Avverso tale decisione il Ministero dell’interno ha proposto un motivo di ricorso per cassazione, cui l’intimato ha resistito con controricorso, corredato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2. Il Ministero ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, – anche in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 e D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11, comma 1, lett. c-ter, – in quanto a suo dire il richiedente non rischierebbe “in alcun modo, tornando nel proprio paese di origine, di subire un vulnus tale da giustificare la protezione umanitaria, dal momento che le ragioni meramente familiari (…) non sono sufficienti” a fondarne il riconoscimento, in quanto “il richiedente non risulta affetto da stati patologici di rilievo, è di età adulta e non appare possedete profili di vulnerabilità tali da far concludere che un rientro nel paese di origine lo esporrebbe a situazioni umanitarie di particolare complessità e gravità”; infine la corte d’appello avrebbe impropriamente valorizzato il percorso di integrazione lavorativa in Italia e la rottura delle relazioni qui stabilite che il rimpatrio comporterebbe a suo danno.

3. La censura non merita accoglimento, sebbene la motivazione della sentenza impugnata vada corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

4. Preliminarmente il Collegio ritiene di non poter avallare l’inciso contenuto a pag. 1 del ricorso – per cui il ricorso viene dichiaratamente proposto “in considerazione del particolare momento storico che implica la responsabilità di promuovere interpretazioni giurisprudenziali il più possibile restrittive in materia di immigrazione e di protezione internazionale, nel miglior interesse dello Stato” – in quanto l’interpretazione della legge è un’operazione ermeneutica che deve essere guidata dal principio di legalità, senza essere condizionata da eventuali pregiudizi legati al contingente “momento storico”, in vista di un supposto “miglior interesse dello Stato”.

5. Va altresì precisato, con riguardo alla normativa invocata, che la disciplina del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie applicabile ratione temporis risiede nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, – cui il D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11, comma 1, lett. c-ter, si limita a dare attuazione – mentre il divieto di espulsione o respingimento di cui al successivo art. 19 dello stesso T.U.I. viene in rilievo solo in sede di opposizione all’espulsione, come una sorta di “misura umanitaria a carattere negativo”, che conferisce allo straniero “il diritto a non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale”, ove alleghi il “concreto pericolo di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti in caso di rimpatrio nel Paese d’origine” (Cass. 3875/2020), purchè sulla base di “ragioni umanitarie nuove o diverse da quelle già oggetto del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale, dovendosi valutare la “novità” non solo in senso oggettivo, ma anche – ove i fatti o i fattori di rischio siano state appresi “medio tempore” – in senso soggettivo, con la conseguenza che integrano il suddetto requisito non soltanto i fatti cronologicamente sopravvenuti alla decisione di rigetto non impugnata, ma anche quelli ignorati in sede di valutazione della commissione territoriale perchè non allegati dal richiedente e non accertati officiosamente dal giudice di pace il quale è tenuto, al pari del giudice della protezione internazionale, all’obbligo di cooperazione istruttoria” (Cass. 33166/2019; conf. Cass. 4230/2013, 15296/2012, 7572/2009).

6. Venendo al vizio contestato, la corte territoriale ha in effetti incentrato la motivazione sul fatto che “è trascorso un considerevole arco di tempo dall’allontanamento dal Paese di origine da parte del ricorrente, il quale risulta ormai sradicato dal Pakistan, dove non aveva costituito una famiglia propria” e che, per contro, egli ha compiuto un “positivo percorso di integrazione in Italia”, svolgendovi un’attività lavorativa stabile, sicchè “il rimpatrio comporterebbe la rottura delle relazioni e delle attività (…) esponendolo a un nuovo sradicamento per riportarlo nel villaggio dal quale si è definitivamente allontanato, interrompendo anche i legami con la famiglia di origine, e quindi a una situazione di sostanziale isolamento sociale”.

6.1. Ad avviso del Collegio, ancor più pregnanti presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari emergono, in realtà, dagli ulteriori aspetti del racconto del richiedente, relativi alla contrapposizione religiosa tra musulmani sunniti e sciiti del proprio villaggio di origine, cui la stessa corte d’appello ha attribuito piena credibilità (anche alla luce dei referti medici ospedalieri e del verbale di denuncia prodotti dall’appellante). Se infatti è condivisile l’esclusione delle due forme maggiori di protezione internazionale invocate – “poichè dal racconto emerge un singolo episodio di scontro fisico in una situazione di contrapposizione religiosa in generale e da lungo tempo sufficientemente tollerante, sia pure nella totale separatezza, tanto da consentire manifestazioni pubbliche e la celebrazione di feste in occasione di eventi rilevanti per le rispettive comunità” – tuttavia quell’episodio di contrapposizione religiosa è idoneo a delineare un particolare profilo di vulnerabilità individuale, che non fa del richiedente un semplice “migrante economico”.

6.2. In altre occasioni questa Corte ha già avuto modo di osservare che, quand’anche l’interessato non invochi espressamente una protezione da condotte persecutorie, l’accertata verità dell’appartenenza ad un gruppo religioso discriminato o perseguitato nel Paese di provenienza comporta che il giudice debba analizzarne gli effetti sulla vicenda scrutinata, in ragione del ruolo attivo che in questo tipo di procedimenti svolgono tanto l’autorità amministrativa quanto il giudice di merito, al di là delle preclusioni e degli impedimenti processuali ordinariamente connessi al principio dispositivo proprio del giudizio civile ordinario, anche alla luce del potere-dovere di assumere informazioni ed acquisire la documentazione necessaria (Cass. Sez. U, 27310/2008; Cass. 10202/2011, 2875/2018, 3016/2019).

6.3. Anche sotto il profilo connesso della “mancata tutela da parte della pubblica autorità”, il giudice a quo si è limitato a valorizzare il fatto che un arresto c’è pur stato, a testimonianza del tempestivo intervento dell’autorità medesima; ma ciò ha fatto solo per escludere i presupposti della protezione sussidiaria, senza valutarne le inferenze ai diversi fini della protezione umanitaria, avendo il sig. I. riferito proprio della pressione avvertita quando i soggetti arrestati sono stati “subito rilasciati e assolti”, avendo egli a quel punto temuto per la propria incolumità ed è fuggito dal proprio Paese.

7. Al riguardo le Sezioni Unite, con la recente sentenza n. 29459 del 13 novembre 2019, hanno tra l’altro tracciato l’actio finium regundorum – operata dallo stesso diritto unionale (v. art. 2, lett. g), “direttiva qualifiche” n. 2011/95/UE; cfr. Corte giust., grande sezione, 9 novembre 2010, cause C-57/09 e C-101/09) – tra le protezioni maggiori e quella umanitaria prevista dal diritto nazionale (la quale trova peraltro piena legittimazione nella “direttiva rimpatri” n. 2008/115/CE, il cui art. 6, par. 4 contempla infatti la possibilità di un permesso di soggiorno autonomo “per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura”), osservando in particolare che “non vi potrà essere spazio per la protezione umanitaria qualora i “seri motivi” allegati evochino la situazione socio politica o normativa del Paese di provenienza correlata alla specifica posizione del richiedente e più specificamente al suo fondato timore di una persecuzione personale e diretta, per l’appartenenza a un’etnia, associazione, credo politico o religioso, oppure in ragione delle proprie tendenze e stili di vita, e quindi alla sua personale esposizione al rischio di specifiche misure sanzionatorie a carico della sua integrità psico-fisica”, dovendosi in tal caso riconoscere lo status di rifugiato (cfr. Cass. 30105/2018); e che analoga esclusione scatta al ricorrere dei presupposti per la protezione sussidiaria nei casi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a), b) e c).

7.1. Ma, proprio per questo, gli elementi fattuali emersi dal racconto del richiedente, laddove ritenuto credibile, ben possono rilevare ai fini della protezione umanitaria, alimentata dai diritti fondamentali esattamente come le altre due forme di protezione, sebbene rispetto ad esse in forma residuale e temporanea (conf. Cass. Sez. U, nn. 32177, 32044 e 32045 del 2018), essendosi al cospetto di misure (tutte) “espressione del diritto di asilo costituzionale” ex art. 10 Cost., comma 3, che sono destinate ad attuare (Corte Cost. 194/2019).

7.2. Per queste ragioni il diritto di asilo è “costruito come diritto della personalità, posto a presidio di interessi essenziali della persona, e non può recedere al cospetto dello straniero bisognoso di aiuto che, allegando motivi umanitari, invochi il diritto di solidarietà sociale”, dal momento che “i diritti fondamentali dell’uomo spettano ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani, sicchè la condizione giuridica dello straniero non può essere considerata ragione di trattamenti diversificati e peggiorativi” (v. Corte Cost. 105/2001 e 249/2010). Di conseguenza, le “condizioni stabilite dalla legge” che lo stesso art. 10 Cost., evoca non possono che essere (solo) “quelle chiamate a regolare il soggiorno dell’esule, la definizione dei criteri di accertamento dei requisiti richiesti per l’asilo e le modalità del relativo procedimento di accertamento”.

7.3. Le stesse sezioni Unite hanno altresì evidenziato che “la situazione giuridica soggettiva dello straniero nei confronti del quale sussistano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria ha natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantiti dall’art. 2 Cost. e art. 3 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo”, aggiungendo che “gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali” (tanto da non soffrire tipizzazioni: cfr. Cass. 13079 e 13096 del 2019) e che “l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuover l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione”.

8. Alla luce delle esposte considerazioni può ben dirsi che la decisione impugnata – così come qui integrata nella motivazione risulta in linea con la giurisprudenza di questa Corte, compendiata nel riferito approdo nomofilattico (Cass. Sez. U, 29459/2019) che ha stabilito i seguenti principi di diritto: 1) “In tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base delle norme in vigore al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno “per casi speciali” previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge”; 2) “In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”.

8.1. Può ben dirsi, infatti, che in conformità all’orientamento inaugurato da Cass. 4455/2018, il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari non sia stato riconosciuto nel caso di specie al richiedente “considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia”, nè solo “in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza” (v. Cass. 17072/2018), conformemente al parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, che richiede – come è stato fatto nel caso di specie – “una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio” (v. Cass. 9304/2019).

8.2. In effetti, il “rilievo centrale” assegnato alla predetta valutazione comparativa ha proprio lo scopo “di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale” (Cass. Sez. U, nn. 29459, 29460, 29461 del 2019; Cass. 630/2020); verifica, questa, che il giudice può effettuare come avvenuto nel caso di specie – anche esercitando i propri poteri istruttori officiosi, purchè il ricorrente abbia assolto l’onere di allegare i fatti costitutivi del diritto azionato (Cass. 27336/2018, 8908/2019, 17169/2019).

9. Al rigetto del ricorso segue la condanna alle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

10. Sussistono in astratto i presupposti processuali per il cd. raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (cfr. Cass. Sez. U, 23535/2019 e 4315/2020).

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.500,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15 per cento, esborsi liquidati in Euro 100,00 ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2020

 

 

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