Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19533 del 18/09/2020

Cassazione civile sez. I, 18/09/2020, (ud. 17/07/2020, dep. 18/09/2020), n.19533

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16535/2018 proposto da:

Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

M.D.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 4989/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 29/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/07/2020 dal Consigliere VELLA Paola.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Milano ha respinto la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero della protezione sussidiaria o in subordine di quella umanitaria, proposta dal sig. M.D., nato a (OMISSIS), il quale aveva dichiarato di essere rimasto orfano di entrambi i genitori, di essere stato cresciuto da amici del padre e di essere stato ingiustamente accusato di omosessuale, sicchè, per sfuggire alla polizia che lo ricercava per arrestarlo, si era recato dapprima in Libia e di lì in Italia, ove era arrivato il 27 febbraio 2015, ancora minorenne.

La Corte di appello di Milano ha accolto parzialmente l’appello del ricorrente, riconoscendo il solo diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari. Avverso tale decisione il Ministero dell’interno ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. L’intimato non ha svolto difese.

Con ordinanza interlocutoria n. 14129 del 23 maggio 2019, la Prima sezione civile di questa Corte ha rinviato la causa a nuovo ruolo, in vista del pronunciamento delle Sezioni Unite sulle “questioni di massima di particolare importanza riguardanti, tra l’altro, l’applicabilità della nuova normativa introdotta con il D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, conv., con modif., nella L. 1 dicembre 2018, n. 132 (nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 e disposizioni connesse) nei giudizi in corso sulle domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore della citata nuova normativa”.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2. Con il primo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 1, nonchè del D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11, comma 1, lett. C-ter, per non avere la Corte d’appello individuato nè i “seri motivi in particolare di carattere umanitario”, nè le ragioni di persecuzione individuale, nè infine le “oggettive e gravi situazioni personali” richiesti dalle norme citate, le quali consentirebbero di includere tra le “ragioni umanitarie” solo “vulnera particolarmente gravi, come motivi di salute, conflitti armati, forme di persecuzione ecc., ma non anche mere difficoltà economiche”, apparendo persino “irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., contemperare una disposizione che sanziona penalmente l’ingresso illegale nel territorio dello Stato” (i.e. il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10-bis, che configura il reato di ingresso illegale nel territorio italiano) “con l’integrazione economica e sociale del migrante stesso”.

2.1. Il secondo mezzo lamenta la “insufficiente e contraddittoria motivazione nel riconoscimento della protezione umanitaria ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” in quanto la motivazione della corte d’appello sarebbe apparente e arbitraria nell’assumere “che lo svolgimento di attività lavorativa e la frequentazione di una scuola secondaria siano di per sè sufficienti a riconoscere la protezione umanitaria”.

3. Entrambi i motivi sono inammissibili.

4. Sotto il profilo motivazionale occorre ricordare che, dopo la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – ad opera del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile nella specie ratione temporis – il sindacato di legittimità sulla motivazione si è ridotto, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, al “minimo costituzionale”, nel senso che “l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce – con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza” – nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”” (Cass. Sez. U, 8053/2014, 21216/2015; cfr. Cass. Sez. U, 33017/2018; v. Cass. 12928/2014, 13641/2016, 20207/2016).

4.1. Tali evenienze nel caso di specie non si verificano, poichè la motivazione della sentenza impugnata, lungi dall’essere apparente, supera ampiamente il suddetto livello minimo e, per quanto sintetica, è chiara, sicchè nella sostanza ad essere censurati sono in realtà le valutazioni e gli apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, come tali non sindacabili in questa sede se non nel rispetto (qui mancato) dei canoni del novellato art. 360 c.p.c., n. 5), i quali postulano l’indicazione di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo per l’esito della controversia, di tal che il ricorrente ha l’onere di indicare – nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. Sez. U, 8053/2014, 8054/2014, 1241/2015; Cass. 19987/2017, 7472/2017, 27415/2018, 6383/2020, 6485/2020, 6735/2020).

5. Quanto alle lamentate violazioni di legge, va innanzitutto precisato che la disciplina del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie risiede, ratione temporis, nel D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, – cui il D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11, comma 1, lett. c-ter, si limita a dare attuazione – mentre il divieto di espulsione o respingimento di cui al successivo art. 19 dello stesso T.U.I. viene in rilievo solo in sede di opposizione all’espulsione, come una sorta di “misura umanitaria a carattere negativo”, che conferisce allo straniero “il diritto a non vedersi nuovamente immesso in un contesto di elevato rischio personale”, ove alleghi il “concreto pericolo di essere sottoposto a persecuzione o a trattamenti inumani e/o degradanti in caso di rimpatrio nel Paese d’origine” (Cass. 3875/2020), purchè sulla base di “ragioni umanitarie nuove o diverse da quelle già oggetto del procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale, dovendosi valutare la “novità” non solo in senso oggettivo, ma anche – ove i fatti o i fattori di rischio siano state appresi “medio tempore” – in senso soggettivo, con la conseguenza che integrano il suddetto requisito non soltanto i fatti cronologicamente sopravvenuti alla decisione di rigetto non impugnata, ma anche quelli ignorati in sede di valutazione della commissione territoriale perchè non allegati dal richiedente e non accertati officiosamente dal giudice di pace il quale è tenuto, al pari del giudice della protezione internazionale, all’obbligo di cooperazione istruttoria” (Cass. 33166/2019; conf. Cass. 4230/2013, 15296/2012, 7572/2009).

5.1. Occorre altresì chiarire come non sia nemmeno ipotizzabile la lesione del principio di uguaglianza prospettata in ricorso, non potendosi aprioristicamente disquisire di “ingresso illegale” prima dell’esercizio del diritto di asilo, rispetto al quale la eventuale attribuzione della qualifica di “migrante economico” interviene semmai in un momento successivo e, soprattutto, si cristallizza solo con la relativa pronuncia giudiziale.

5.2. In ogni caso il rilievo non coglie nel segno, poichè la considerazione del richiedente come migrante economico è estranea alla ratio decidendi della decisione impugnata, che ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria fa leva su ben altri aspetti di carattere personale, quali non solo l’integrazione sociale del richiedente nel nostro Paese – palesata dalla stabile occupazione lavorativa (con un reddito mensile di circa mille Euro), dalla adeguata sistemazione abitativa (in un appartamento fornito dalla cooperativa di sostegno), dalla conoscenza della lingua italiana, dallo svolgimento di attività di volontariato e di educazione al lavoro – ma anche il suo vissuto personale (orfano di entrambi i genitori, cresciuto da amici senza più alcun riferimento familiare, fuggito giovanissimo dal suo Paese e approdato in Italia ancora minorenne), sulla cui base la corte territoriale ha argomentato che, “pur non essendo emersi elementi sufficienti per ritenere sussistente un pericolo di danno grave ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c),”, il ricorrente “potrebbe subire ripercussioni dannose in caso di rimpatrio”.

5.3. Una simile decisione appare in linea con la giurisprudenza di questa Corte e, in particolare, con il sopravvenuto approdo delle Sezioni Unite, le quali con la sentenza n. 29459 del 13 novembre 2019 hanno affermato i seguenti principi di diritto:

1) “In tema di successione delle leggi nel tempo in materia di protezione umanitaria, il diritto alla protezione, espressione di quello costituzionale di asilo, sorge al momento dell’ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali e la domanda volta a ottenere il relativo permesso attrae il regime normativo applicabile; ne consegue che la normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito con L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina contemplata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dalle altre disposizioni consequenziali, non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base delle norme in vigore al momento della loro presentazione, ma, in tale ipotesi, l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari sulla base delle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno “per casi speciali” previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto decreto legge”.

2) “In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”.

6.1. Le stesse Sezioni Unite hanno altresì chiarito (dando continuità all’orientamento inaugurato da Cass. 4455/2018) che il permesso di soggiorno per motivi umanitari non può essere riconosciuto al cittadino straniero “considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia”, e che il diritto non può essere affermato “in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza” (v. Cass. 17072/2018), poichè altrimenti si avrebbe riguardo “non già alla situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto a quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti”, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, dovendosi invece procedere – come ha fatto il giudice a quo – “ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio” (v. Cass. 9304/2019).

6.2. In effetti, il “rilievo centrale” assegnato alla predetta valutazione comparativa ha proprio lo scopo “di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale” (Cass. Sez. U, nn. 29459, 29460, 29461 del 2019; Cass. 630/2020); verifica, questa, che il giudice può effettuare anche esercitando i propri poteri istruttori officiosi, purchè il ricorrente abbia assolto l’onere di allegare i fatti costitutivi del diritto azionato (Cass. 27336/2018, 8908/2019, 17169/2019).

7. Alla luce delle esposte considerazioni, risulta applicabile al caso concreto il principio nomofilattico per cui è inammissibile il “ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito” (Cass. Sez. U, 34476/2019).

8. L’assenza di difese dell’intimato esonera dalla pronuncia sulle spese, mentre occorre dare atto della sussistenza in astratto dei presupposti processuali per il cd. raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, (cfr. Cass. Sez. U, 23535/2019 e 4315/2020).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2020

 

 

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