Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19532 del 19/07/2019

Cassazione civile sez. III, 19/07/2019, (ud. 06/06/2019, dep. 19/07/2019), n.19532

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24118/2017 proposto da:

G.M., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato

DOMENICO ZITO;

– ricorrente –

contro

TOYOTA MOTOR ITALIA SPA, in persona del Procuratore Speciale Dott.

M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PASQUALE

STANISLAO MANCINI 2, presso lo studio dell’avvocato PIETRO

CICERCHIA, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 506/2017 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 05/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/06/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

G.M. ricorre, affidandosi a due motivi, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria, n. 506/2017, pubblicata il 5 settembre 2017, notificata l’8 settembre 2017.

Resiste con controricorso Toyota Motor Italia S.p.A..

Entrambi si avvalgono della facoltà di depositare memorie.

La ricorrente, in data (OMISSIS), mentre percorreva il tratto dell'(OMISSIS), tamponava violentemente una vettura che la precedeva; nell’urto il dispositivo airbag della Toyota Yaris che conduceva non si apriva, impedendo tanto l’attutimento del colpo quanto il non verificarsi delle lesioni.

Conveniva, pertanto, in giudizio dinanzi al Tribunale di Reggio Calabria la Toyota Motors Italia S.p.A., con ricorso della L. n. 102 del 2006, ex art. 3, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento dei danni subiti, quantificati in Euro 40.975,75, al netto degli interessi legali e della rivalutazione monetaria.

Il Tribunale adito, disposto il mutamento di rito, ai sensi dell’art. 427 c.p.c., con sentenza depositata il 4 luglio 2010, rigettava la domanda attorea, compensava le spese di lite e poneva a carico dell’odierna ricorrente le spese della CTU.

La Corte d’Appello di Reggio Calabria, su ricorso proposto dall’odierna ricorrente, fondato su due motivi – 1. Violazione del D.P.R. n. 224 del 1988 e del Codice del consumo in tema di responsabilità da prodotto difettoso. Contraddittoria motivazione; 2. Danni riportati dall’attrice – con la sentenza oggetto dell’odierna impugnazione, dichiarava inammissibile l’appello, confermava la sentenza di prime cure e condannava l’impugnante al pagamento delle spese di lite.

In particolare, il Collegio riteneva che l’atto di appello non contenesse l’indicazione o la precisazione dei motivi di gravame, non evidenziasse la parte della motivazione della sentenza censurata, limitandosi a riportare le stesse argomentazioni svolte in primo grado senza illustrare le ragioni dal giudicante sottoposte a critica e i rilievi volti ad incrinarne il ragionamento logico/giuridico.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 342 c.p.c. e del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 2, convertito, con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134.

L’errore attribuito al giudice a quo è quello di aver applicato la nuova formulazione dell’art. 342 c.p.c., ad un atto di appello del marzo 2011, in violazione della L. n. 134 del 2012, art. 54, comma 2, secondo cui “le disposizioni di cui al comma 1, lett. 0a, a, c, c bis, d, e si applicano ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con atto di citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.

La ricorrente sostiene – riproducendo parte del primo motivo di appello con cui deduceva la violazione del D.P.R. n. 224 del 1998, che con l’atto di appello aveva indicato la normativa asseritamente applicabile, lamentato che il giudice di prime cure non avesse tenuto conto che per andare esente da responsabilità la società Toyota avrebbe dovuto dimostrare che l’urto era stato laterale e non violento e che lei conoscesse che il dispositivo si sarebbe attivato solo in circostanze limitate e, infine, contestato la ricostruzione dell’evento – che la formulazione dell’atto di appello risultava rispettosa tanto della vecchia formulazione quanto del nuovo testo dell’art. 342 c.p.c..

2. Con il secondo motivo, in via subordinata, la ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione e di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento all’art. 342 c.p.c. e dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 2, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134.

3. Il ricorso, i cui due motivi sono suscettibili di scrutinio congiunto, risulta infodato.

4. Queste le ragioni.

4.1. La Corte di Cassazione, a sezioni unite, n. 27199 del 16/11/2017, facendosi carico di una ricognizione normativa e giurisprudenziale dell’impugnazione in appello, non solo ha ribadito che con tale mezzo di gravame “si realizza il principio (…) del doppio grado di giurisdizione, caratterizzato dall’effetto devolutivo, non automatico e limitato dai motivi di gravame (tantum devolutum quantum appellatum)”, senza alcuna “predeterminazione del tipo di vizi che possono essere fatti valere”, essendo “un mezzo ordinario di impugnazione avverso la sentenza di primo grado, diretto, nella sua funzione essenziale, a provocare un riesame della causa nel merito, non limitato necessariamente al controllo di vizi specifici”, ma ha individuato nelle riforme che nel tempo hanno riguardato l’art. 342 c.p.c., un rafforzamento di tale funzione tipica. Anche la riforma più recente che ha modificato, ai fini che qui interessano, il testo dell’art. 342 c.p.c., relativamente agli atti di appello proposti successivamente alla data dell’11 settembre 2012, non contiene più il riferimento all’esposizione sommaria dei fatti e dei motivi specifici di impugnazione presente nel testo precedente, ma dispone che “la motivazione dell’appello deve contenere, a pena di inammissibilità: 1) l’indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado; 2) l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”.

Sulla portata della riforma la Corte territoriale ha precisato che essa non ha sconvolto “i tradizionali connotati dell’atto di appello”, avendo recepito e tradotto in legge la giurisprudenza di legittimità, e che perciò, “recuperando enunciazioni di questa Corte relative al testo precedente la riforma del 2012″, nell’atto di appello deve affiancarsi alla parte volitiva una parte argomentativa, che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. La maggiore o minore ampiezza e specificità delle doglianze ivi contenute sarà, pertanto, diretta conseguenza della motivazione assunta dalla decisione di primo grado. Ove le argomentazioni della sentenza impugnata dimostrino che le tesi della parte non sono state in effetti vagliate, l’atto di appello potrà anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado; mentre è logico che la puntualità del giudice di primo grado nel confutare determinate argomentazioni richiederà una più specifica e rigorosa formulazione dell’atto di appello, che dimostri insomma di aver compreso quanto esposto dal giudice di primo grado offrendo spunti per una decisione diversa.

L’individuazione di un percorso logico alternativo a quello del primo giudice” – in nome del criterio della razionalizzazione del processo civile, che è in funzione del rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata – implica “che la parte appellante ponga il giudice superiore in condizione di comprendere con chiarezza qual è il contenuto della censura proposta, dimostrando di aver compreso le ragioni del primo giudice e indicando il perchè queste siano censurabili. Tutto ciò, inoltre, senza che all’appellante sia richiesto il rispetto di particolari forme sacramentali o comunque vincolate”.

Per concludere, il fatto che la sentenza gravata abbia fatto riferimento all’art. 342 c.p.c., nella nuova formulazione non applicabile ratione temporis al caso di specie, non ha comportato dal punto di vista sostanziale la richiesta di una specificazione dei motivi di appello diversa per forma e per contenuto da quella già pretesa dalla giurisprudenza di questa Corte anteriormente alla riforma. Il che, del resto, trova indiretta conferma nella sentenza impugnata che richiama – lo sottolinea finanche la parte ricorrente – giurisprudenza anteriore alla riforma per fornire di base la propria statuizione.

Pur dovendosi correggere la motivazione della sentenza impugnata, ove ha richiamato espressamente il testo riformato dell’art. 342 c.p.c. (a p. 4, al rigo 3, riproducendone il contenuto, al rigo 16, allo scopo di sottolineare che l’attuale formulazione dell’art. 342 c.p.c., non può rappresentare una sorta di regresso rispetto ai risultati che in materia aveva già conseguito la giurisprudenza di legittimità, al rigo 34, per giustificare un’interpretazione particolarmente rigorosa), essa non è pervenuta a conclusioni che ne giustifichino la cassazione.

4.1.2. Quanto all’altro profilo dedotto con il primo motivo – il soddisfacimento della specificità dei motivi di appello – esso non può essere accolto. Le ragioni sono proprio quelle utilizzate dalla ricorrente per illustrare il mezzo impugnatorio: sono stati riportati la prima parte del motivo di appello, a p. 9, un passaggio dell’atto di appello relativo alla contestazione della distribuzione dell’onere della prova, a p. 12, il capo denominato 1.3.5. sul rapporto CTU – sentenza, a p. 12, con cui si censurava il fatto che la sentenza di primo grado non avesse preso in considerazione talune circostanziate critiche, appiattendosi sulla lacunosa CTU; per il resto sono state proposte argomentazioni meramente assertive (a p. 11 si legge: “nel prosieguo dell’atto di appello si evidenziano tutte le incongruenze della sentenza di primo grado (…) Si richiamano tutti i vizi e si espongono nei minimi dettagli tutti i difetti, chiedendo alla Corte d’Appello di procedere all’esame ed alla regolarizzazione delle numerose illegittimità denunciate”.

Come evidenziato proprio dalla ricorrente, anche tramite rinvio a taluni pronunciamenti di questa Corte senz’altro conferenti, ove si deduca un vizio attinente all’applicazione dell’art. 342 c.p.c., in ordine alla specificità dei motivi di appello, il giudice di legittimità, purchè la censura soddisfi le prescrizioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, al fine di verificare l’assolvimento dell’onere di specificazione dei motivi di appello.

Ebbene, nel caso di specie, la ricorrente non ha affatto soddisfatto il principio di autosufficienza del ricorso: non solo gli atti processuali non sono stati trascritti nella loro completezza con riferimento alle parti oggetto di doglianza, ma non è stata neppure specificata la sede in cui rinvenirli (fascicolo d’ufficio o di parte), provvedendo anche alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (ex plurimis cfr. Cass. 23/03/2018, n. 7371).

Ciò stando, è evidente che, non essendo questa Corte legittimata a procedere a una autonoma ricerca degli atti, ma solo ad una verifica del loro contenuto purchè reso disponibile con le modalità precisate, il motivo è inammissibile.

Peraltro, anche l’esame di quello stralcio del motivo di appello riportato integralmente non enuclea affatto, come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata, le parti attinte da censura: la riproduzione della normativa asseritamente applicabile è stata riportata con un solo commento critico alla sentenza – la cui motivazione questa Corte ignora, essendone stato riferito, e per sintesi a p. 5, lett. Q), solo il dispositivo -: l’averne fatto un’applicazione molto parziale e lacunosa, omettendo di affrontare la questione del se l’airbag rispettasse i canoni di sicurezza che da esso era legittimo attendersi; lo stesso tipo di rilievi riguarda la critica alla CTU che è formulata in questi termini: “il Tribunale non ha nemmeno analizzato gli specifici punti di critica”.

5. Ne consegue il rigetto del ricorso.

6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

7. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti per porre a carico del ricorrente l’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 5.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2019

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