Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19529 del 19/07/2019

Cassazione civile sez. III, 19/07/2019, (ud. 05/06/2019, dep. 19/07/2019), n.19529

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 22242/2016 R.G. proposto da:

B.M.P., rappresentata e difesa dall’Avv. Paolo Bonaiuti, con

domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via R. Grazioli

Lante, n. 16;

– ricorrente –

contro

Ente Autonomo Acquedotto Punta del Lago;

– intimato –

avverso la sentenza del Tribunale di Viterbo, n. 238/2600, pubblicata

il 22 febbraio 2016;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 5 giugno 2019

dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. Con sentenza depositata in data 9/7/2013 il Giudice di pace di Viterbo, Sezione distaccata di Ronciglione, pronunciando in giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, revocato quest’ultimo, condannò l’opponente B.M.P. al pagamento, in favore dell’ingiungente Ente Autonomo Acquedotto Punta del Lago, della somma di Euro 1.726,10, da questo pretesa per i servizi idrici forniti a vantaggio di immobile di proprietà degli eredi di C.E..

2. L’appello interposto dalla soccombente è stato rigettato dal Tribunale di Viterbo, con la sentenza in epigrafe, sul rilievo che nè la parte appellata, nè l’appellante (che, secondo il giudice a quo, ne aveva interesse e onere), avevano prodotto i documenti posti a base della pretesa.

Ha in proposito richiamato il principio affermato da Cass. Sez. U. 08/02/2013, n. 3033, secondo il quale “nel vigente ordinamento processuale, il giudizio d’appello non può più dirsi, come un tempo, un riesame pieno nel merito della decisione impugnata (novum judicium), ma ha assunto le caratteristiche di una impugnazione a critica vincolata (re visto prioris instantiae). Ne consegue che l’appellante assume sempre la veste di attore rispetto al giudizio d’appello, e su di lui ricade l’onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame, quale che sia stata la posizione processuale, di attore o convenuto, assunta nel giudizio di primo grado. Pertanto, ove l’appellante si dolga dell’erronea valutazione, da parte del primo giudice, di documenti prodotti dalla controparte e da questi non depositati in appello, ha l’onere di estrarne copia ai sensi dell’art. 76 disp. att. c.p.c. e di produrli in sede di gravame”.

Ha quindi rilevato che “nel caso in esame alcun giudizio può svolgersi sulle questioni dedotte, segnatamente sull’esistenza del credito che veniva azionato in via monitoria, sulla contestata congruità delle somme richieste, sulla stessa sussistenza della comunione ereditaria – non potendosi arguire s(i debiti fossero in tutto o in parte del de cuius o della comunione ereditaria. Mancano altresì la Delib. Assembleare 29 agosto 2010, menzionata dall’appellante, e le fatture allegate al fascicolo monitorio dall’appellata”.

3. Avverso tale decisione B.M.P. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

L’ente intimato non svolge difese nella presente sede.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c..

Lamenta, in sintesi, l’erronea applicazione del richiamato principio giurisprudenziale nella fattispecie de qua, atteso che in essa si verteva non sull’erronea valutazione di documenti prodotti dalla controparte bensì sulla erroneità dell’assunto, posto a base della decisione di primo grado, secondo cui i fatti costitutivi dell’avversa pretesa (esistenza del contratto di somministrazione ed effettività dei consumi addebitati) non erano contestati, laddove su entrambi i predetti punti vi era invece espressa contestazione.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia poi, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 2697 c.c..

Osserva che il richiamato principio giurisprudenziale attribuisce all’appellante l’onere di mettere a disposizione del giudice di appello il documento della cui erronea valutazione si dolga, ancorchè si tratti di documento prodotto nel precedente grado da controparte, a condizione che il preciso contenuto testuale del documento in questione non risulti dalla sentenza impugnata ovvero, pacificamente, dagli atti di parte.

Ciò premesso rileva che, nella specie, il contenuto dei documenti non acquisiti risultava dagli atti processuali atteso che nel ricorso per decreto ingiuntivo, e poi anche nella sentenza del Giudice di pace, esso era specificamente descritto (nel primo in particolare evidenziandosi che con Delib. 28 novembre 2010, il consiglio di amministrazione dell’ente, in ossequio al criterio di riparto della spesa indicato nell’assemblea del 29/8/2010 ed ai criteri statutari, aveva determinato per ciascuna unità abitativa collegata all’acquedotto e che usufruisce dei servizi idrici una rata straordinaria pari ad Euro 1.150; in entrambi gli atti poi essendo anche specificamente indicato l’importo portato da ciascuna delle fatture poste a base della pretesa, indicate nei loro estremi).

3. Con il terzo motivo – intitolato in rubrica “violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5” – la ricorrente lamenta l’omessa motivazione circa la ritenuta indispensabilità dell’esame dei documenti mancanti.

Rileva che quella offerta nella sentenza impugnata è una motivazione apparente poichè incoerente rispetto ai motivi di critica e comunque viziata dalla mancata considerazione degli elementi desumibili direttamente dagli atti di causa.

4. E’ fondato il primo motivo di ricorso, con assorbimento dei rimanenti.

Con l’impugnazione della sentenza del giudice di primo grado l’appellante è tenuto a “individuare, in modo chiaro ed inequivoco, il quantum appellatum, formulando, rispetto alle argomentazioni adottate dal primo giudice, pertinenti ragioni di dissenso che consistono, in caso di censure riguardanti la ricostruzione dei fatti, nell’indicazione delle prove che si assumono trascurate o malamente valutate ovvero, per le doglianze afferenti a questioni di diritto, nella specificazione della norma applicabile o dell’interpretazione preferibile, nonchè, in relazione a denunciati errores in procedendo, nella precisazione del fatto processuale e della diversa scelta che si sarebbe dovuta compiere” (Cass. 05/05/2017, n. 10916).

L’appello, dunque, non determina alcuna inversione dell’onere della prova, posto che esso non impone affatto al convenuto soccombente in primo grado la dimostrazione dell’insussistenza dei fatti costitutivi della domanda attorea (nella fattispecie, i fatti posti a fondamento della pretesa creditoria), ma soltanto una precisa e argomentata critica della decisione (Cass. 21/08/2018, n. 20836).

Ben diversa è la fattispecie esaminata da Cass. Sez. U. 08/02/2013, n. 3033 (pronuncia ampiamente richiamata nella decisione impugnata), la quale – nell’affermare che “l’appellante assume sempre la veste di attore rispetto al giudizio d’appello, e su di lui ricade l’onere di dimostrare la fondatezza dei propri motivi di gravame, quale che sia stata la posizione processuale di attore o convenuto assunta nel giudizio di primo grado” – non professava affatto un’inversione dell’onere della prova nel processo di impugnazione, ma si limitava ad esigere dall’appellante la produzione in appello dei documenti, asseritamente valutati in modo erroneo, prodotti dalla controparte e da questa non ridepositati, configurando così un onere processuale di trarre copia (ai sensi dell’art. 76 disp. att. c.p.c.) della documentazione da produrre in sede di gravame.

Tale onere, dunque, viene in rilievo soltanto qualora l’appello sia proposto in ragione della asserita erronea valutazione dei documenti prodotti da controparte e richieda dunque un riesame, da parte del giudice del gravame, dei documenti medesimi.

Questa situazione però non ricorre nel caso in esame nel quale – come evidenziato in ricorso, con pieno assolvimento dell’onere di specifica indicazione degli atti su cui lo stesso è fondato, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6 -: a) la sentenza di primo grado, gravata con l’appello, non era fondata sulla valutazione dei documenti prodotti dall’ente intimante, bensì sull’assunto che i fatti posti a base della pretesa non erano stati contestati dall’opponente; b) con il proposto appello si era censurata tale ratio decidendi, assumendosi al contrario che tali fatti erano stati specificamente contestati, e dunque in sostanza deducendosi un’erronea applicazione da parte del primo giudice del principio di non contestazione.

In tale contesto risultava dunque pienamente assolto l’onere dell’appellante di “individuare, in modo chiaro ed inequivoco, il quantum appellatum”, avendo essa formulato “rispetto alle argomentazioni adottate dal primo giudice, pertinenti ragioni di dissenso”.

Per converso la sentenza impugnata, incentrandosi sul mancato assolvimento di un onere (quello di depositare documenti in ipotesi presenti nel fascicolo di primo grado) che in realtà non assumeva alcun rilievo rispetto al tema devoluto, si appalesa viziata dalla mancata focalizzazione di quest’ultimo e, dunque, in ultima analisi, dalla dedotta violazione del principio di necessaria corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.).

5. In accoglimento del ricorso la sentenza impugnata va pertanto cassata, con rinvio al giudice a quo, al quale va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il primo motivo di ricorso; dichiara assorbiti i rimanenti; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia al Tribunale di Viterbo in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 5 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2019

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