Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19515 del 18/09/2020

Cassazione civile sez. II, 18/09/2020, (ud. 18/02/2020, dep. 18/09/2020), n.19515

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARRATO Aldo – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7714-2016 proposto da:

F.N. e D.S.G., elettivamente domiciliati in ROMA,

VIALE GLORIOSO n. 16, presso lo studio dell’avvocato ANNA MARIA

LUCIANI ASTA, rappresentati e difesi dall’avvocato PAOLA MARIA

IANNICOLA;

– ricorrenti –

contro

B.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MUZIO

CLEMENTI n. 51, presso lo studio dell’avvocato VALERIO SANTAGATA,

rappresentata e difesa dall’avvocato MASSIMILIANO CESARE FORNARI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5632/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/02/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

RENZIS LUISA, la quale ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli avvocati PAOLA MARIA IANNICOLA per parte ricorrente, che ha

concluso per l’accoglimento del ricorso, e l’avvocato MARIA ASSUNTA

LAVIENTI, in sostituzione dell’avvocato MASSIMILIANO CESARE FORNARI,

per parte controricorrente, il quale ha concluso per il rigetto del

ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato il 18.4.1997 B.S. evocava in giudizio dinanzi alla Pretura di Terracina D.S.G. e F.N., esponendo di essere proprietaria esclusiva di un box e comproprietaria, insieme ad altre persone, di un adiacente cortile avente accesso dalla via (OMISSIS); che i convenuti esercitavano, senza averne titolo, il transito e il parcheggio sul cortile; che i medesimi, nel rifacimento del muro di cinta della loro proprietà posto a confine con il predetto cortile, ne avevano modificato illecitamente la copertura creando una pendenza verso il cortile stesso, prima inesistente. Invocava, quindi, la condanna dei predetti D.S. e F. a non usare più il cortile e a ripristinare la pendenza originaria della copertura del muro di confine.

Si costituivano i convenuti resistendo alla domanda e spiegando riconvenzionale per l’accertamento del loro diritto di servitù di passaggio sul cortile, per usucapione e comunque per destinazione del padre di famiglia.

Con sentenza n. 73/2000 il Tribunale di Latina, sezione distaccata di Terracina, rigettava la domanda della B., ritenendo costituita per contratto la servitù sul cortile a favore del fondo di proprietà dei convenuti e non provato il fatto che la copertura del muro di cinta avesse, prima dei lavori eseguiti dai medesimi convenuti, una diversa pendenza.

Interponeva appello la B. e si costituivano in seconde cure gli originari convenuti resistendo al gravame.

Con sentenza n. 1274/2002 la Corte di Appello di Roma rigettava il gravame.

A seguito di ricorso proposto dalla B. questa Corte, con sentenza n. 24128/2006, cassava la decisione della Corte capitolina, disponendo che il giudice del rinvio procedesse all’individuazione dell’atto costitutivo del diritto di servitù vantato dagli originari convenuti, alla verifica della sua opponibilità alla B. e del suo contenuto, nonchè all’accertamento dell’effettiva destinazione a strada dei terreni che i frontisti, in base al rogito del 12.12.1956, si erano obbligati a conferire.

Il giudizio veniva riassunto e la Corte di appello di Roma, con la sentenza oggi impugnata, n. 5632/2015, accoglieva l’impugnazione proposta dalla B. avverso la decisione di prime cure, dichiarando l’insussistenza del diritto di servitù preteso dal D.S. e dalla F. e condannando i medesimi al ripristino della pendenza originaria della copertura del muro di cinta della loro proprietà.

Propongono ricorso per la cassazione di detta sentenza D.S.G. e F.N. affidandosi a sei motivi.

Resiste con controricorso B.S..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 116 e 348 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 perchè la Corte di appello avrebbe deciso, in sede di rinvio, superando i limiti derivanti dalla sentenza n. 24128/2006 di questa Corte. A loro avviso, infatti, la Corte territoriale avrebbe dovuto presupporre l’esistenza del diritto di servitù, la cui esistenza, affermata dalla Corte di appello con la prima sentenza n. 1274/2002, non sarebbe stata revocata in dubbio dalla Corte di cassazione.

Rileva il collegio che la censura è infondata. La sentenza n. 24128/2006 di questa Corte, invero, afferma espressamente (cfr. pag.10) che “… la controversia va conseguentemente riesaminata, individuando l’atto costitutivo della servitù, la sua opponibilità alla ricorrente, il suo contenuto ed in relazione ad esso l’accertamento dell’effettiva destinazione a strada dei terreni da conferire”. Era, pertanto, stata chiaramente devoluta al giudice del rinvio l’indagine circa l’esistenza, l’origine e l’opponibilità alla B. del diritto reale rivendicato dagli odierni ricorrenti. Nessuna violazione del principio di diritto, quindi, è configurabile nel caso specifico.

Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 132 c.p.c. e la nullità della sentenza impugnata per omessa motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, perchè la Corte di appello non ka. chiarito l’iter logico-argomentativo in base al quale è pervenuta all’accoglimento della domanda svolta ab origine dalla B..

Ad avviso del collegio anche questa censura è infondata. La Corte di appello (cfr. pagg. 4 e ss. della sentenza impugnata) parte dalla disamina del contenuto della sentenza rescindente di questa Corte, individua correttamente l’oggetto del giudizio di rinvio devolutole, esamina i documenti prodotti dalle parti e gli altri elementi istruttori acquisiti al fascicolo di merito e ritiene che con il rogito del 12.12.1956 le parti stipulanti – diverse da quelle del presente giudizio, le quali ultime, tra l’altro, neppure avevano adeguatamente chiarito la rispettiva catena dei passaggi di proprietà – avevano convenuto di destinare ciascuna una striscia di 2,5 metri per costruire una strada di 5 metri complessivi da porre a servizio del cortile e a servizio dei fondi di loro proprietà. Trattandosi di clausola che, ad avviso della Corte capitolina, aveva contenuto obbligatorio, i convenuti, che rivendicavano l’esistenza del diritto di servitù oggetto di causa, avrebbero dovuto dimostrare l’intervenuto adempimento, da parte loro o dei loro danti causa, di detta obbligazione, e quindi l’effettiva realizzazione della strada in termini coerenti con quanto previsto dalla convenzione del 1956. In difetto di tale prova, che secondo la Corte romana gli odierni ricorrenti non avevano raggiunto, il diritto reale non poteva essere accertato e, quindi, la domanda della B. doveva essere accolta.

La decisione della Corte del rinvio è,quindi, ampiamente motivata e non v’è spazio per configurare il vizio di omessa motivazione dedotto da parte ricorrente.

Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano il mancato rispetto, da parte del giudice del rinvio, del principio fissato da questa Corte, con riferimento al governo delle spese dell’intero giudizio. Ad avviso dei ricorrenti la B. avrebbe illecitamente esteso, in sede di rinvio, le conclusioni rassegnate a suo tempo nel giudizio conclusosi con la sentenza cassata, poichè aveva chiesto la condanna degli odierni ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di cassazione e di tutti i gradi precedenti, con rimborso di quanto eventualmente corrisposto in corso di causa.

La censura è infondata. Va ribadito che “Il giudice del rinvio, al quale la causa sia rimessa dalla Corte di cassazione anche perchè decida sulle spese del giudizio di legittimità, è tenuto a provvedere sulle spese delle fasi di impugnazione, se rigetta l’appello, e su quelle dell’intero giudizio, se riforma la sentenza di primo grado, secondo il principio della soccombenza applicato all’esito globale del giudizio, piuttosto che ai diversi gradi dello stesso ed al loro risultato” (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 15506 del 13/06/2018, Rv.649258; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7243 del 29/03/2006, Rv.588131 e Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 28698 del 07/11/2019, Rv.655549).

La Corte di appello quindi, nell’accogliere l’appello proposto dalla B. e quindi la domanda da quest’ultima ab origine formulata, ha del tutto correttamente condannato gli odierni resistenti, soccombenti all’esito del giudizio complessivamente inteso, alla rifusione delle spese di tutti i gradi del medesimo, nonchè alla restituzione di quanto dai predetti percepito in corso di lite per effetto di sentenze ormai prive di effetto, e quindi in ultima analisi sine titulo.

Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 102 e 354 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 perchè la Corte capitolina avrebbe accolto la domanda proposta dalla B. senza aver disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti i litisconsorti necessari. Ad avviso dei ricorrenti, poichè la domanda aveva ad oggetto la modifica dello stato dei luoghi, la relativa statuizione avrebbe dovuto avvenire nella presenza di tutti i comproprietari del fondo servente, o asserito tale.

La doglianza è inammissibile per due diverse, ma concorrenti, ragioni.

Da un lato si deve evidenziare che la questione non risulta essere mai stata posta nei precedenti gradi del giudizio, nè i ricorrenti specificano nulla al riguardo. Va pertanto ribadito il principio per cui “Nel giudizio di rinvio dalla Corte di cassazione, non può essere eccepita o rilevata di ufficio la non integrità del contraddittorio a causa di un’esigenza originaria di litisconsorzio (art. 102 c.p.c.) quando tale questione non sia stata dedotta con il ricorso per cassazione e rilevata dal giudice di legittimità, dovendosi presumere che il contraddittorio sia stato ritenuto integro in quella sede, con la conseguenza che nel giudizio di rinvio e nel successivo giudizio di legittimità possono e devono partecipare, in veste di litisconsorti necessari, soltanto coloro che furono parti nel primo giudizio davanti alla Corte di cassazione” (Cass. Sez. 6-3, Ordinanza n. 21096 del 11/09/2017, Rv.645482; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5061 del 05/03/2007, Rv.595492).

Dall’altro lato, i ricorrenti neppure indicano quali sarebbero i litisconsorti che sarebbero stati pretermessi, con conseguente assoluta carenza di specificità della doglianza in esame.

Con il quinto motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1061 e 1062 c.c. e art. 356 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 perchè la Corte di appello avrebbe dovuto accertare l’esistenza del diritto di servitù oggetto di causa, in ragione delle opere apparenti esistenti a servizio del diritto reale.

Secondo il collegio la censura è inammissibile perchè essa si risolve in una richiesta di riesame della valutazione di merito condotta dalla Corte di rinvio. In ogni caso, essa neppure coglie la ratio della decisione impugnata, poichè la Corte capitolina non ha accolto la negatoria servitutis proposta dalla B. sulla scorta della disamina dello stato dei luoghi, bensì ravvisando l’origine convenzionale del diritto e la mancata dimostrazione da parte degli odierni ricorrenti – che vi erano onerati avendo essi spiegato domanda riconvenzionale per l’accertamento del diritto di servitù oggetto di causa dell’intervenuto adempimento, da parte loro o dei loro aventi causa, dell’obbligazione di conferimento delle strisce di terreno di cui al rogito del 12.12.1956, nonchè dell’effettiva creazione della strada in termini coerenti con quelli indicati dalla convenzione medesima. L’esistenza di opere apparenti a servizio del diritto rivendicato dagli odierni ricorrenti, pertanto, non è dirimente, poichè nella ricostruzione del giudice di rinvio la mera esistenza della strada non prova l’esistenza del diritto, stante la sua origine convenzionale.

Con il sesto ed ultimo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione delle norme in tema di mediazione obbligatoria, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè la Corte di appello avrebbe omesso di invitare le parti all’avvio della procedura di mediazione, obbligatoria per le cause aventi ad oggetto diritti reali.

La censura è infondata per diverse ma concorrenti ragioni.

In primo luogo va evidenziato che la disposizione di cui al D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 1-bis (con il quale è stata prevista la mediazione obbligatoria per le cause in materia di diritti reali) è stata inserita dal D.L. 21 giugno 2013, n. 68, art. 84, comma 1, lett. b),conv., con modif., dalla L. 9 agosto 2013, n. 98. Poichè il giudizio di merito si è esaurito con la sentenza della Corte di Appello di Roma n. 1274/2002, la predetta normativa è ad esso evidentemente inapplicabile ratione temporis.

In ogni caso, ad abundantiam, vale la pena di evidenziare che del D.Lgs. n. 28 del 2010, citato art. 5, comma 1-bis stabilisce che l’obbligo di avviare la procedura di mediazione è previsto, a pena di improcedibilità della domanda, per “chi intende esercitare in giudizio un’azione…” e quindi con evidente riferimento al giudizio di primo grado. Per il giudizio di appello, invece, del già citato art. 5, il comma 2 prevede che “… il giudice, anche in sede di giudizio di appello, valutata la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti, può disporre l’esperimento del procedimento di mediazione; in tal caso, l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello”. Trattandosi di una facoltà, e non di un obbligo, nessuna violazione di legge può conseguire al suo mancato esercizio.

Peraltro, ove pure fosse stato temporalmente applicabile, dell’art. 5, il menzionato comma 1-bis prevede espressamente che “L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza”. A tutto voler concedere, quindi, i ricorrenti avrebbero dovuto dedurre, nella censura in esame, di aver tempestivamente sollevato l’eccezione di improcedibilità della domanda alla prima udienza, o quantomeno alla prima udienza utile, il che non è avvenuto.

Inoltre, appare evidente che, stante la natura chiusa del giudizio di rinvio, non avrebbe alcun senso ipotizzare l’obbligo di avviare la procedura di mediazione nel corso di esso, soprattutto tenendo conto dell’inesistenza di analogo obbligo per il giudizio di appello.

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Stante il tenore della pronuncia, va dato atto – ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti con vincolo solidale, di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento in favore della controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.700, di cui Euro 200 per esborsi, oltre rimborso delle spese generali in misura del 15%, iva, cassa avvocati ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti e in via tra loro solidale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile, il 18 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2020

 

 

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