Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19509 del 19/07/2019

Cassazione civile sez. III, 19/07/2019, (ud. 14/03/2019, dep. 19/07/2019), n.19509

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28673/2017 proposto da:

Q.G., R.N., Q.A.,

QU.AN., Q.I. domiciliati ex lege in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi

dall’avvocato GIOVANNA LO COCO;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA UNIVERSITARIA POLICLINICO (OMISSIS), nella

persona del Direttore Generale e legale rappresentante pro tempore

Dott. D.N.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI N. 6, presso lo studio dell’avvocato VITO PATANELLA, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

UNIVERSITA’ STUDI PALERMO;

– intimata –

avverso la sentenza n. 947/2017 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 22/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/03/2019 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Nel 2007, R.N., anche nella qualità di esercente la potestà genitoriale sul figlio minore Q.A., nonchè Qu.An., G. ed I. convennero in giudizio, dinanzi al Tribunale di Palermo, l’Università degli Studi di Palermo, al fine di sentirli condannare al risarcimento dei danni patiti iure proprio in conseguenza della morte del proprio congiunto Q.A..

Esposero che il loro dante causa era stato assunto nel 1993, per chiamata diretta dal Commissario straordinario dell’ex USL di Palermo, quale operatore socio-sanitario; che, in occasione della visita medica pre-assuntiva, gli era stata riscontrata “ipertrofia sovraccarico ventricolare sinistra; miocardiopatia ipertrofica in buon compenso emodinamico”; che nonostante ciò era stato ritenuto idoneo a svolgere l’attività di operatore socio-sanitario, purchè non venisse sottoposto a sforzo fisico; che il Q. era stato adibito all’Area di Emergenza e Pronto Soccorso, ove aveva prestato le proprie mansioni fino al 21.7.1997, data in cui era stato trasferito presso il servizio di Radiologia della medesima struttura ospedaliera, su richiesta del primario della cattedra di Medicina d’Urgenza e Pronto Soccorso, in considerazione delle sue condizioni fisiche, non compatibili con il lavoro da svolgere presso il Pronto Soccorso; che quattro mesi dopo il trasferimento, il Q. era deceduto mentre si trovava sul luogo di lavoro a causa di arresto cardio-respiratorio; che la R. aveva ottenuto il riconoscimento del trattamento pensionistico di reversibilità, a seguito di espletamento di C.M.L., la quale attestava che l’attività svolta dal Q. aveva agevolato, con rapporto causale incidente, l’aggravamento, accelerando il decorso della patologia cardiaca.

Si costituì in giudizio l’Università degli studi di Palermo, eccependo in via preliminare la prescrizione del diritto e, nel merito, l’infondatezza della domanda. L’Università chiese di chiamare in causa l’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico.

Autorizzata la chiamata in causa, si costituì anche l’Azienda Ospedaliera, eccependo preliminarmente la prescrizione del diritto, nonchè il proprio difetto di legittimazione passiva, in quanto costituita successivamente al decesso del Q.. Nel merito, sostenne l’infondatezza della domanda attorea, stante l’assenza di responsabilità in ordine all’affidamento di compiti non compatibili con lo stato di salute del Q..

Il Tribunale di Palermo, con la sentenza n. 741/2012, respinse la domanda.

Il giudice di primo grado evidenziò che gli attori avevano omesso di indicare la regola cautelare specificamente violata dal datore di lavoro. Ritenne inoltre che le prove documentali offerte da parte attrice, rappresentate in massima parte dagli atti relativi ad un giudizio pensionistico cui la convenuta e la terza chiamata erano rimaste estranee, non fossero idonee a dimostrare l’effettiva sussistenza del reato ex art. 589 c.p., in tutti i suoi elementi costitutivi, stante la differenza di quel giudizio con quello risarcitorio.

2. La pronuncia è stata confermata dalla Corte d’Appello di Palermo con la sentenza n. 947/2017 del 22 maggio 2017.

La Corte territoriale ha preliminarmente osservato che, in mancanza di una norma specifica che imponga un comportamento al datore di lavoro, va fatto riferimento al principio generale di cui all’art. 2087 c.c., il quale fa carico all’imprenditore di adottare nell’esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori.

La Corte ha però evidenziato che, nel caso di specie, gli eredi del Q. non avevano provato che il danno subito dal loro congiunto fosse dipeso in via esclusiva o prevalente dall’attività lavorativa svolta, nè nocività dell’ambiente o delle condizioni di lavoro. In particolare, non avevano dimostrato se e quanto l’assegnazione del loro congiunto all’area di Emergenza e Pronto Soccorso, piuttosto che ad un altro reparto, lo avesse sottoposto a quello stress fisico che invece la sua patologia raccomandava di evitare. Non vi era agli atti alcuna documentazione che dimostrasse un aggravamento delle condizioni di salute del lavoratore durante i quattro anni di permanenza in servizio nel reparto di pronto soccorso, nè eventuali assenze dal posto di lavoro per ragioni di salute, nè episodi atti a provare una specifica condizione di stress psico-fisico.

Secondo la Corte d’appello, tali circostanze non potevano ritenersi provate in base alla scrittura datata 24.9.1999, con la quale il primario del reparto del pronto soccorso dell’Ospedale aveva dichiarato che il trasferimento del lavoratore era stato determinato dall’incompatibilità delle sue condizioni fisiche con il lavoro da svolgere presso quel reparto. Tale nota, infatti, era stata redatta oltre due anni dopo la morte del Q. e confliggeva con altre due note del novembre-dicembre 1996, con le quali lo stesso dirigente formulava richiesta di trasferimento del lavoratore per ragioni di “incompatibilità ambientale” con la struttura.

La Corte ha altresì ritenuto non rilevanti le consulenze medico-legali prodotte dagli eredi del Q., in quanto formate in un altro giudizio, avente ad oggetto la concessione della pensione di reversibilità, differente per natura e per petitum da quello risarcitorio, che postula la prova del nesso causale tra l’evento e la condotta tenuta o omessa dal soggetto obbligato.

3. Avverso tale sentenza propongono ricorso in Cassazione, sulla base due motivi, i signori R.N., Q.A. (nelle more divenuto maggiorenne), Q.I., Q.G. e Q.A..

3.1. Resiste con controricorso l’Azienda Ospedaliera Policlinico (OMISSIS), la quale eccepisce la mancanza della propria legittimazione passiva. L’intimata Università degli Studi di Palermo non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO

che:

4.1. Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c.”.

La sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare che la responsabilità del datore di lavoro per il decesso del lavoratore, a causa di mansioni incompatibili con le proprie condizioni di salute, discende dall’art. 2087 c.c. e non richiede l’indicazione di una norma di prevenzione che si assume essere lesa.

L’art. 2087 c.c., essendo ispirato ad esigenze di massima tutela a favore del lavoratore, impone all’imprenditore di adottare tutte le misure necessarie per la tutela della salute dei suoi dipendenti, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dagli stessi, con conseguente obbligo della individuazione ed attuazione di simili misure, anche ad integrazione di quelle dettate da specifiche disposizioni.

La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., potrebbe essere esclusa solo in caso di dolo, o qualora sia lo stesso dipendente a concretizzare il rischio, espletando un’attività che non abbia rapporti con lo svolgimento delle mansioni lavorative, o che esorbiti ingiustificatamente dai limiti delle stesse.

Grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno stesso, mentre per il lavoratore sarebbe sufficiente provare il danno ed il nesso causale.

4.2. Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la “violazione e falsa applicazione dell’art. 1218 e degli artt. 2699,2700 c.c.”.

La Corte d’appello avrebbe illegittimamente privato di efficacia probatoria una serie di documenti prodotti dai ricorrenti sulla base del mero assunto che tali documenti si erano formati in altro giudizio.

Si tratterebbe in particolare del certificato relativo all’esito della visita pre-assuntiva, del certificato attestante le motivazioni del trasferimento, del certificato attestante le cause del decesso, del parere medico-legale della CML, per la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti, Regione Sicilia (nel quale si affermava che il servizio che era stato svolto dal de cuius presso il Pronto Soccorso non rispettava le indicazioni riportate nel certificato di idoneità al servizio rilasciato all’esito della visita pre-assuntiva, in quanto il servizio in situazioni di continua emergenza ed urgenza aveva determinato una condizione di stress prolungata nel tempo, che sicuramente aveva rivestito un’efficacia causale o concausale efficiente o determinante sull’aggravamento della patologia all’origine del decesso), della relazione del direttore dell’Istituto di Radiologia dell’Università di Palermo (dove si attestava che nel periodo di permanenza presso la struttura il dipendente aveva svolto pienamente tutte le mansioni proprie della qualifica rivestita, espletando anche i compiti di maggiore impegno fisico).

I referti medici, in quanto formati da pubblici ufficiali, costituirebbero atti aventi fede privilegiata. In ogni caso, il fatto che un documento sia stato adoperato in un diverso giudizio non priverebbe quel documento dell’astratta idoneità a rappresentare c/o dare conoscenza di un fatto. Ove i documenti fossero stati correttamente valorizzati sarebbe stato possibile accertare il nesso di causalità.

5. I motivi possono essere esaminati congiuntamente e devono essere respinti.

La Corte d’appello, in primo luogo, ha evidenziato che gli eredi Q. non avevano dimostrato perchè il servizio presso il reparto del pronto soccorso sarebbe stato incompatibile con le condizioni di salute del loro dante causa, a differenza di quello presso altri reparti.

Inoltre, ha ritenuto che i ricorrenti non avessero fornito la prova del nesso eziologico tra il lavoro presso il reparto del Pronto Soccorso da parte del Q. ed il decesso dello stesso.

I ricorrenti censurano tali statuizioni, affermando che i giudici dell’appello avrebbero illegittimamente ritenuto di non poter valutare una serie di documenti (in particolare gli atti del giudizio dinanzi alla Corte dei Conti instaurato dalla vedova del Q. per la pensione di reversibilità). Sostengono che il fatto che i documenti siano stati formati ed utilizzati in un differente giudizio non li priverebbe, però solo, dell’astratta idoneità a rappresentare e/o dare conoscenza di un fatto.

Al riguardo si deve preliminarmente ribadire il principio secondo cui il giudice di merito può utilizzare, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, anche le prove raccolte in diverso giudizio tra le stesse o altre parti, delle quali la sentenza che in detto giudizio sia stata pronunciata costituisce documentazione (Cass. civ. sent. nn. 21115/2005; 13889/99; 12422/00).

Gli elementi desumibili dalle prove raccolte in un diverso giudizio – al di fuori dei casi di opponibilità dell’accertamento derivante dal giudicato devono, peraltro, costituire oggetto di autonoma valutazione dei fatti sottoposti alla sua cognizione (Cass. civ. Sez. III, 29/03/2007, n. 7767). Nel caso di specie la Corte d’appello ha ritenuto inutilizzabili gli atti del giudizio pensionistico evidenziando che quest’ultimo, a differenza del giudizio risarcitorio, non postula l’accertamento del nesso di causalità.

I ricorrenti non contestano tale statuizione, nè riportano integralmente il testo della sentenza della Corte dei Conti, al fine di permettere a questo Collegio di comprendere per quale motivo, invece, in quella sede sarebbe stato effettuato un simile accertamento.

Alla luce di ciò, non solo pone nel segno le critiche alla valutazione della Corte appello di irrilevanza dei suddetti documenti e, di conseguenza, alla ulteriore valutazione circa la mancanza di prova del nesso di causalità tra le condizioni lavorative a cui il Q. era stato sottoposto durante il servizio presso il Pronto Soccorso e il decesso del lavoratore.

La sentenza appare quindi essersi attenuta ai principi giurisprudenziali, richiamati anche dai ricorrenti, secondo cui “incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’uno e l’altro. Solo se il lavoratore abbia dato prova di tali circostanze, sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile all’inosservanza di tali obblighi. Tra l’altro, è stato osservato che neanche la riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” implica necessariamente, o può far presumere che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante dell’ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restando così fuori dall’ambito dell’art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici” (Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 23/05/2018, n. 12808).

6. In conclusione, il ricorso deve essere respinto. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2019

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