Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19507 del 18/09/2020

Cassazione civile sez. III, 18/09/2020, (ud. 04/03/2020, dep. 18/09/2020), n.19507

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27908-2019 proposto da:

E.T., elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE DELLE MILIZIE,

38 presso lo studio dell’avvocato STEFANIA PARAVANI, rappresentato e

difeso dall’avvocato VALENTINA MANULA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende;

– resistente –

Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza n. 758/2019 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 15/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

04/03/2020 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

E.T. propone ricorso per cassazione, articolato in due motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno – Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Brescia, avverso la sentenza n. 758/2019 della Corte d’Appello di Brescia, pubblicata in data 15.5.2019, non notificata, con la quale si è confermato il diniego di tutte le forme di protezione internazionale richieste.

Il Ministero intimato ha depositato dichiarazione di disponibilità a partecipare alla discussione in pubblica udienza.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

Il ricorrente, proveniente dalla Nigeria, riporta nel ricorso tutta la sua vicenda personale, peraltro esposta dettagliatamente nella sentenza impugnata: nato nell’Edo State, non aveva terminato le elementari, non aveva famiglia, era celibe e di religione cristiana. Dichiara che il padre apparteneva alla setta segreta degli Ogboni, che alla morte di questi si erano presentate due persone per affiliarlo alla setta, che aveva rifiutato e quindi nel 2015 era fuggito, per sottrarsi alla vendetta, attraverso il Niger e poi la Libia. Il suo racconto è stato ritenuto totalmente inattendibile, prima dalla commissione territoriale e poi dai giudici di primo e secondo grado.

Con il primo motivo, deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, per aver la corte d’appello violato il dovere di cooperazione istruttoria: sostiene che la stessa si sarebbe limitata a recepire e fare proprie le valutazioni precedenti, sfavorevoli al ricorrente, senza compiere una valutazione autonoma e violando il proprio dovere di cooperazione istruttoria.

Il motivo è infondato, ai limiti dell’inammissibilità in quanto contestando il metodo di valutazione in realtà è volto a contestare l’esito del giudizio in fatto.

La sentenza impugnata è esente dalle violazioni di legge lamentate in tema di protezione sussidiaria, avendo compiuto un giudizio che tiene conto di tutti i parametri indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3.

In particolare:

formula motivatamente un giudizio di inattendibilità complessiva e contraddittorietà delle dichiarazioni del ricorrente, sulla base delle acquisizioni istruttorie effettuate nei gradi precedenti, ma compiendo di esse un autonomo apprezzamento (non ogni apprezzamento dei fatti che sia coincidente negli esiti con quello compiuto dal giudice del grado precedente può dirsi, per ciò solo, meramente riproduttivo delle altrui argomentazioni);

– fonda la sua valutazione su COI aggiornate e dotate della necessaria attendibilità (il rapporto EASO 2017), sulla base delle quali ricostruisce la situazione del paese, escludendo che, nel caso di specie, la Nigeria, nella parte sud dalla quale dice di provenire il ricorrente, sia un paese a rischio diffuso, interessato da una situazione di conflitto generalizzato. Ricostruisce la situazione geopolitica nel senso che solo nel nord del paese opera l’organizzazione terroristica Boko Aram, e che l’eventuale criminalità è rivolta per lo più verso facoltosi stranieri o compagnie petrolifere, non certo verso gli strati più umili della popolazione nazionale;

ritiene complessivamente non credibile la versione dei fatti del richiedente, atta ad evidenziare il rischio, al quale sarebbe sottoposto se rientrasse nel paese di provenienza, di persecuzione da parte della setta segreta degli Ogboni, ritenendo anche che, ove tale setta fosse operante, la condizione di sicurezza del paese consentirebbe al ricorrente una sufficiente tutela a mezzo degli organi di polizia locale.

Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 5, comma 6 e art. 19 TUI.

Deduce che, in riferimento alla protezione umanitaria, la sentenza impugnata, non abbia considerato la situazione interna del paese di origine del richiedente, e non abbia considerato che il ricorrente ha un lavoro in Italia e che si è integrato.

Il motivo è in primo luogo del tutto generico, non richiama neppure i passi della sentenza che intende censurare, non precisa quale sia il grado di integrazione che il ricorrente, giunto in Italia senza neppure il titolo di studio di base del suo paese, sia riuscito ad ottenere che la corte d’appello abbia trascurato di apprezzare.

E’ comunque infondato.

In tema di concessione del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio, non potendosi tipizzare le categorie soggettive meritevoli di tale tutela che è invece atipica e residuale, nel senso che copre tutte quelle situazioni in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento dello “status” di rifugiato o della protezione sussidiaria, tuttavia non possa disporsi l’espulsione (tra le molte, Cass. n. 13079 del 2019). Nel caso di specie, la corte territoriale ha effettuato la valutazione comparativa, ed ha escluso che il richiedente, sia per le condizioni della zona del paese di provenienza nella quale rientrerebbe, sia perchè nello stesso godeva già di un inserimento lavorativo, nonostante il suo scarso grado di istruzione, non integrato in Italia, versi nella condizione di vulnerabilità che è alla base della concessione della protezione umanitaria.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Nulla sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 4 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 18 settembre 2020

 

 

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