Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19501 del 23/08/2013


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 19501 Anno 2013
Presidente: FINOCCHIARO MARIO
Relatore: AMBROSIO ANNAMARIA

SENTENZA

sul ricorso 26993-2007 proposto da:
GAGLIANO MADDALENA, elettivamente domiciliata ex lege
in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI
CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato

MANCUSO ANTONINO giusta delega in atti;
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2013
1360

ricorrente

contro

CIRINO ANNA, LA MOTTA DONATA, LA MOTTA MARIA
CONCETTA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA
GROTTAROSSA 1274, presso lo studio dell’avvocato DI
CATRANO MANFREDI FEDELE, rappresentati e difesi

Data pubblicazione: 23/08/2013

dall’avvocato NASELLI DOMENICO giusta delega in atti;
– controricorrenti

avverso la sentenza n. 345/2006 della CORTE D’APPELLO
di CALTANISSETTA, SEZIONE SPECIALIZZATA AGRARIA,
depositata il 20/10/2006 R.G.N. 344/2005;

udienza del 14/06/2013 dal Consigliere Dott.
ANNAMARIA AMBROSIO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. PIERFELICE PRATIS che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

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udita la relazione della causa svolta nella pubblica

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al Tribunale di Nicosia, sez. specializzata
agraria, Gaetano La Motta, Anna Cirino e Maria La Motta, quali
comproprietari di un fondo in contrada Monterosso, in comune
di Nicosia, già concesso in mezzadria a Felice Gagliano –

avevano sancito la nullità del contratto di mezzadria, il
rapporto era proseguito di fatto senza che il contratto fosse
convertito in affitto – chiedevano accertarsi che il fondo era
detenuto sine titulo,

con conseguente condanna al rilascio da

parte del Gagliano. Questi, dal canto suo, opponendosi alla
domanda, deduceva che, alla scadenza del contratto di
mezzadria, era stato stipulato

per facta concludentia

un

contratto di affitto a coltivatore diretto o, in subordine, a
non coltivatore diretto per la durata ulteriore di quindici
anni; in via riconvenzionale chiedeva, inoltre, la condanna
dei ricorrenti al pagamento della somma di 1.092.374.654 o
di quella maggiore o minore da accertarsi in corso di causa, a
titolo di eccedenze corrisposte rispetto al canone dovuto, di
contributi agricoli e di indennità per migliorie.
Il processo, interrotto, prima, per la morte di Gaetano La
Motta, e, poi, per la morte di Felice Gagliano, era riassunto
dalle rispettive eredi, Donata La Motta e Maddalena Gagliano;
quest’ultima deduceva di essere in possesso dei requisiti per
subentrare nel rapporto di affitto.
Con sentenza in data 08.11/23.11.2005 l’adito Tribunale
dichiarava cessato alla data del 10.11.1989 il contratto di
mezzadria; condannava Maddalena Gagliano al rilascio immediato

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premesso che, dopo l’introduzione dei nuovi patti agrari che

del fondo; rigettava le domande riconvenzionali; compensava le
spese processuali.
La decisione, gravata da impugnazione in via principale da
parte di Maddalena Gagliano e in via incidentale da parte di
Donata La Motta, Anna Cirino e Maria La Motta, era

Caltanissetta, sez. specializzata agraria, la quale con
sentenza in data 28.09/20.10.2006, in parziale accoglimento
dell’appello incidentale, dichiarava improponibile la domanda
riconvenzionale avanzata in primo grado concernente il
pagamento di miglioramenti, contributi ed eccedenze.
Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione
Maddalena Gagliano, svolgendo due motivi.
Hanno resistito Donata La Motta, Anna Cirino e Maria La
Motta, depositando controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La Corte di appello – confermando la statuizione del
primo giudice in punto di accoglimento della domanda
principale – ha ritenuto che nella specie ricorresse un
rapporto di mezzadria non convertito e quindi nullo per legge,
non costituendo la prosecuzione di fatto della detenzione del
fondo, con sufficiente certezza, sintomo dell’avvenuta
instaurazione di un nuovo e distinto rapporto tra le parti;
per altro verso – riformando la statuizione di prime cure in
punto di procedibilità delle domande riconvenzionali – ha
osservato che la procedura conciliativa, promossa innanzi
all’I.P.A. dagli originari ricorrenti non era stata utilmente
esperita con riguardo alla domanda riconvenzionale, per

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parzialmente riformata dalla Corte di appello di

difetto di un valido confronto sul punto, atteso che, in
quella sede, le parti non erano comparse personalmente, ma per
il tramite dei difensori; ne derivava che, in difetto di
specifico mandato (di cui in ogni caso non vi era prova), il
difensore dei concedenti non avrebbe potuto validamente

prima volta, dal concessionario.
2. Il ricorso – avuto riguardo alla data della pronuncia
della sentenza impugnata (successiva al 2 marzo 2006 e
antecedente al 4 luglio 2009) – è soggetto, in forza del
combinato disposto di cui al d.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40,
art. 27, comma 2 e della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58,
alla disciplina di cui agli artt. 360 cod. proc. civ. e segg.
come risultanti per effetto del cit. d.Lgs. n. 40 del 2006.
2.1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto
controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 n.5 cod.
proc. civ.) per avere la Corte di appello ritenuto che la
prosecuzione di fatto della mezzadria, al termine della durata
stabilita dall’art. 34 legge n. 203/1982, non determina il
venir meno del diritto del concedente di richiedere la
declaratoria di cessazione della mezzadria e, in particolare,
per avere affermato che per invocare la disciplina di cui
all’art. 27 stessa legge, non è sufficiente che il fondo sia
goduto da terzi in esecuzione del contratto nullo o per mera
tolleranza dei proprietari, essendo richiesta l’esistenza di
un valido contratto avente ad oggetto la concessione in
affitto del terzo. A parere del ricorrente non si è tenuto

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interloquire sulle pretese avanzate in quella sede, per la

conto della lunga durata della detenzione di fatto.
2.1.1. Il motivo è inammissibile, posto che non si conclude
e neppure contiene un momento di sintesi, necessario ai fini
della

«chiara :indicazione»

prevista dalla seconda parte

dell’art. 366 bis cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 n.

motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente
destinata, da cui risulti non solo «il fatto controverso», ma
anche la «decisività» del vizio (cfr. SS.UU., 1 ottobre 2007,
n.20603; Cass. ord. 18 luglio 2007, n.16002; Cass. 7 aprile
2008, n.8897). Tale requisito non può, dunque, ritenersi
rispettato quando solo la completa lettura dell’illustrazione
del motivo

all’esito di un’interpretazione svolta dal

lettore, anziché su indicazione della parte ricorrente
consenta di comprendere il contenuto ed il significato delle
censure (Cass., ord. 18 luglio 2007, n. 16002).
A tacere del fatto che, secondo un canone indiscusso, non
sono passibili di annullamento per vizio di motivazione le
affermazioni in diritto, come quelle qui censurate, essendo le
stesse suscettibili soltanto di integrazione (se conformi alla
legge).
2.2. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia
violazione o falsa applicazione dell’art. 46 L. n.203/82 e
art. 412 bis cod. proc. civ. (art. 360 n.3 cod. proc. civ.).
Il motivo si conclude con i seguenti quesiti:

«dichiari la

Corte che debba intendersi validamente esperito il tentativo
obbligatorio di conciliazione previsto dall’art. 46 L. n.203
del 1982 in tema di domanda riconvenzionale nelle controversie

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5 cod. proc. civ., la quale deve consistere in una parte del

agrarie, allorchè in sede di comparizione davanti all’IPA
competente, sia presente solamente l’avvocato della parte
istante non comparsa personalmente, ancorchè privo di
specifico mandato scritto, ritenendosi che tale rappresentante
sia legittimato a contraddire in ordine alla domanda

poteri conferitigli»; «dichiari, inoltre, la Corte che deve
ritenersi tardiva l’eccezione di improponibilità della domanda
non preceduta da valido tentativo obbligatorio di
conciliazione, secondo il disposto dell’art. 46 L. n.
203/1982, se non proposta tempestivamente nel primo atto
difensivo del convenuto in riconvenzionale».
2.2.1. Il motivo è infondato.
Va, innanzitutto, data risposta negativa al secondo
quesito, che pone una questione logicamente pregiudiziale,
qual è quella della tempestività dell’eccezione di
improponibilità della domanda, con riferimento all’art. 412
bis cod. proc. civ.. Al riguardo la giurisprudenza di questa
Corte regolatrice è assolutamente incontroversa nell’affermare
che in materia agraria la necessità del preventivo esperimento
del tentativo di conciliazione, secondo quanto previsto dalla
L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46, configura una condizione di
proponibilità della domanda, la cui mancanza, rilevabile anche
d’ufficio nel corso del giudizio di merito, comporta la
definizione della causa con sentenza dichiarativa di
improponibilità. In particolare è stato precisato che non
rileva la speciale disciplina di cui all’art. 412

bis cod.

proc. civ. (ora abrogato dall’art. 31 comma 16 L. 4 novembre

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riconvenzionale ivi presentata senza necessità di provare i

2010, n. 183), con la correlativa necessità che l’omesso
tentativo di conciliazione sia denunziato non oltre l’udienza
di discussione della causa, atteso che tale ultima
disposizione, dettata con riguardo alla materia lavoristica,
anche se successiva alla L. n. 203 del 1982, art. 46 (siccome
introdotta dall’art. 39 del decreto legislativo 31 marzo 1998,
n. 80), reca una disciplina peculiare del processo del lavoro,
che non può trovare applicazione nel processo agrario, il
quale mantiene inalterata la propria diversa ed autonoma
regolamentazione positiva dettata dal citato art. 46 (tra le
tantissime, in questo senso, Cass. 31 luglio 2012, n. 13683;
Cass. 22 dicembre 2011, n. 28320; Cass. 29 gennaio 2010, n.
2046; Cass. 15 luglio 2008, n. 19436).
In conclusione,

sul punto,

correttamente

la Corte

territoriale ha esaminato la questione della procedibilità
delle domande riconvenzionali, denunciata con l’appello
incidentale, trattandosi di questione che sarebbe stata
rilevabile anche ex officio in tutto il corso del giudizio di
merito.
2.2.2. Quanto all’altro quesito, che esprime la principale
ragione di censura, si rammenta, in via di principio, che in
tema di controversie agrarie, la necessità del previo
.

tentativo di conciliazione sussiste anche per la domanda
proposta in via riconvenzionale, salvo che la domanda stessa
si ricolleghi direttamente al contrasto tra le parti ed alle
pretese fatte valere dall’attore che abbia già esperito la
procedura conciliativa ovvero che il convenuto abbia già
dedotto le relative richieste in quella procedura sperimentata

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dall’attore. Orbene, nel caso di specie – indiscusso e
indiscutibile che le questioni oggetto della domanda
riconvenzionale ampliavano l’ambito della controversia
rispetto a quello interessato dal tentativo di conciliazione
promosso in relazione alla domanda principale – il problema
validamente introdotte nella

procedura amministrativa sperimentata dagli originari
ricorrenti le richieste, poi oggetto della domanda
riconvenzionale, atteso che nella stessa procedura le parti
non erano presenti di persona, ma per mezzo dei loro
difensori.
Orbene ritiene il Collegio che la Corte di appello abbia
correttamente ritenuto che, in assenza di specifico mandato,
il difensore dei concedenti non potesse validamente
interloquire sulle richieste avanzate, per la prima volta, in
quella sede, dal concessionario, inferendo da una situazione
di tal fatta l’assenza di un valido confronto, necessario al
conseguimento della finalità deflattiva cui è preordinata la
procedura conciliativa.
Né ha qualche pregio, ai fini che ci occupano, il rilievo
di parte ricorrente, secondo cui non era necessario il
conferimento di una procura scritta al difensore, essendo
sufficiente un mandato verbale, trattandosi di procedura
amministrativa e non giudiziale. Sotto questo profilo il
motivo – al pari del quesito che lo correda – non coglie la
ratio decidendi,

la quale prescinde, totalmente, dal postulare

la necessità della procura, ma muove, piuttosto, dal rilievo
che il difensore non avrebbe potuto validamente interloquire

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che si pone è se fossero state

su argomenti ulteriori e diversi da quelli oggetto della
domanda principale, in relazione ai quali doveva
(esclusivamente) ritenersi conferito il mandato per la
procedura amministrativa

(anche perché mancava la prova del

contrario).

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in
dispositivo alla stregua dei parametri di cui al D.M. n. 140
del 2012, seguono la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al
rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in
C 8.200,00 (di cui C 200,00 per esborsi) oltre accessori come
per legge.
Roma 14 giugno 2013
IL PRESIDENTE

L’ESTENSORE

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In conclusione il ricorso va rigettato.

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