Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19498 del 23/09/2011

Cassazione civile sez. II, 23/09/2011, (ud. 14/07/2011, dep. 23/09/2011), n.19498

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –

Dott. MATERA Lina – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.S. (detta S.) (C.F.:

(OMISSIS)), rappresentata e difesa, in forza di procura speciale

per

notar Rosa Barra del 31 luglio 2002 (rep. 21341), dall’Avv. Clemente

Giovanni ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. M.

Elena Marongiu, in Roma, via Dessiè, n. 7;

– ricorrente –

contro

C.A. (C.F.: (OMISSIS)), rappresentata e

difesa dall’Avv. Della Ventura Francesco, in virtù di procura

speciale in calce al controricorso e domiciliata “ex lege” presso la

Cancelleria della Corte di cassazione;

– controricorrente –

e

C.M. (C.F.: (OMISSIS)), rappresentata e

difesa dall’Avv. Giovine Enrico in virtù di procura speciale a

margine del controricorso (contenente ricorso incidentale) e

domiciliata “ex lege” presso la Cancelleria della Corte di

cassazione;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

nonchè

S.A. (C.F.: (OMISSIS)); C.D.

fu A. (C.F.: (OMISSIS)); C.C. fu

A. (C.F.: (OMISSIS)); C.C. fu

A. (C.F.: (OMISSIS) C.S. fu

A. (C.F.: (OMISSIS)); E.R.S.A.C., in persona del

legale rappresentante pro tempore; P.G. c/o Corte di appello di

Salerno;

– intimati –

e sul ricorso (iscritto al N.R.G. 22691/07) proposto da:

C.M. (C.F.: (OMISSIS)), rappresentata e

difesa dall’Avv. Giovine Enrico in virtù di procura speciale a

margine del controricorso (contenente ricorso incidentale) e

domiciliata “ex lege” presso la Cancelleria della Corte di

cassazione;

– ricorrente incidentale –

contro

C.S. (detta S.) (C.F.:

(OMISSIS)), rappresentata e difesa, in forza di procura speciale

per

notar Rosa Barra del 31 luglio 2002 (rep. 21341), dall’Avv. Giovanni

Clemente ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. M.

Elena Marongiu, in Roma, via Dessiè, n. 7;

– ricorrente principale –

e

C.A. (C.F.: (OMISSIS)), rappresentata e

difesa dall’Avv. Francesco Della Ventura, in virtù di procura

speciale in calce al controricorso e domiciliata “ex lege” presso la

Cancelleria della Corte di cassazione;

– controricorrente al ricorso incidentale –

nonchè

S.A. (C.F.: (OMISSIS)); C.D.

fu A. (C.F.: (OMISSIS)); C.C. fu

A. (C.F.: (OMISSIS)); C.C. fu

A. (C.F.: (OMISSIS)); C.S. fu

A. (C.F.: (OMISSIS)); E.R.S.A.C., in persona del

legale rappresentante pro tempore; P.G. c/o Corte di appello di

Salerno;

– intimati –

Avverso il decreto della Corte di appello di Salerno del 20 marzo

2007 reso nel proc. R.C.C. N. 439/06, depositato l’8 maggio 2007;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 14

luglio 2011 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

sentito l’Avv. Giovanni Clemente per la ricorrente principale;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. SCARDACCIONE Eduardo Vittorio, che ha concluso per il

rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 24 giugno 2002 presso il Tribunale di Salerno la signora C.A. proponeva domanda per la declaratoria del suo subingresso, ai sensi della L. n. 379 del 1967, art. 7 nell’assegnazione del podere con casa colonica contrassegnato con il n. (OMISSIS), sito nel territorio de Comune di (OMISSIS), già oggetto dell’assegnazione in favore del padre C.D. da parte della Sezione speciale per la riforma fondiaria in Campania in forza di atto per notar Zecca del 5 aprile 1956 (rep. 18252). Instauratosi il contraddittorio nei confronti dei privati legittimati, dell’ERSAC e del P.M. e nella costituzione, tra gli altri, anche di C.S. (detta S.), che contestava l’applicabilità della disciplina invocata dalla ricorrente, il Tribunale adito, a seguito della svolta istruttoria con prove costituende ed acquisizione di idonea documentazione, con decreto del 14.06.-5.07.2005 designava la ricorrente C.A. quale soggetto idoneo a subentrare nell’assegnazione dei suddetto podere, disponendo per il prosieguo del giudizio al fine della determinazione de credito spettante ai coeredi esclusi.

Avverso il richiamato decreto del Tribunale di Salerno interponeva reclamo, con ricorso del 26 luglio 2005, la menzionata C. S. e, nella soia resistenza di C.A. e C.M. (che formulava, a sua volta, anche reclamo in via incidentale), la Corte di appello di Salerno con decreto del 20 marzo 2007, depositato l’8 maggio 2007, rigettava sia il reclamo principale che quello incidentale, compensando integralmente fra le parti costituite le spese processuali del grado.

A sostegno dell’adottato provvedimento, la Corte territoriale rilevava l’infondatezza di tutte le doglianze formulate con i proposti reclami, ritenendo, con particolare riferimento a quello principale, che la comunicazione a P.M. era stata ritualmente eseguita, che l’azione intentata dalla C.A. era effettivamente riconducibile a quella inerente la designazione giudiziale al subingresso nel rapporto di assegnazione e che, sulla scorta delle complessive risultanze istruttorie acquisite, era effettivamente emerso che la stessa C.A. era munita dei requisiti necessari per essere indicata quale avente titolo al chiesto subingresso. Nei confronti dell’indicato decreto della Corte salernitana ha proposto ricorso per cassazione la C. S., articolato in tre complessi motivi, nei riguardi del quale si sono costituiti con controricorso C.A. e C.M., quest’ultima formulando contestualmente anche ricorso incidentale, basato su due motivi. La C.A. ha formulato, inoltre, autonomo controricorso avverso il ricorso incidentale avanzato nell’interesse della C.M..

Nessuno degli altri intimati risulta essersi costituito in questa fase.

I difensori della ricorrente principale e di quella incidentale hanno rispettivamente depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. In primo luogo deve essere disposta ia riunione del ricorso principale e di quello incidentale in quanto proposti avverso lo stesso provvedimento giurisdizionale (art. 335c.p.c.).

2. Con il primo motivo la ricorrente principale C. S. ha dedotto la violazione e falsa applicazione della L. n. 379 del 1967, art. 7 e della L. n. 1078 del 1940, art. 7 oltre che dell’art. 70 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4), congiuntamente al vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

A corredo della prospettata violazione di legge la menzionata ricorrente ha formulato, in virtù dell’art. 366 bis c.p.c. (“ratione temporis” applicabile nella specie, trattandosi di ricorso proposto avverso provvedimento pubblicato l’8 maggio 2007), il seguente quesito di diritto: “dica il Collegio adito se, nella ipotesi di morte dell’assegnatario di terre di riforma fondiaria prima del riscatto, nella controversia sorta tra gli eredi per la designazione del nuovo assegnatario, a mente della L. n. 1078 del 1940, art. 7 così come richiamato dalla L. n. 379 del 1967, art. 7 è obbligatoria l’acquisizione delle conclusioni o parere del P.M., secondo la disposizione di cui all’art. 70 c.p.c., punto 5, ovvero se le predette disposizioni pongono, come condizione per la procedibilità della domanda o per l’assunzione della decisione sulla domanda di designazione, l’acquisizione del parere “sentito” del P.M., pena la nullità del procedimento o della decisione”.

Sul punto, inoltre, la suddetta ricorrente ha denunciato che la Corte territoriale avrebbe fornito una motivazione inadeguata della sua decisione in quanto non sarebbe stato spiegato, in modo logico e giuridico, come potesse essere equiparabile la instaurata controversia a quella in cui si discute di diritto di famiglia, omettendosi di valutare che, nella fattispecie, il P.M. aveva solo l’obbligo di rendere il “parere” e non di assumere alcuna iniziativa processuale. Al riguardo la difesa della ricorrente principale ricorda che la L. n. 379 del 1967, art. 7 stabilisce che, in caso di disaccordo tra i coeredi, decide l’autorità giudiziaria su istanza degli interessati o dell’Ente, mentre la L. n. 1078 del 1940, art. 7 stabilisce che il Tribunale provvede con decreto su ricorso di alcuno degli interessati, sentite e parti, il P.M. e l’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura competente per territorio.

2.1. Il motivo, così come complessivamente infondato, è infondato e deve, pertanto, essere respinto.

Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (cfr. Cass. 21 agosto 1993, n. 8862; Cass. 28 novembre 1994, n. 10149; Cass. 4 agosto 2004, n. 14900; Cass. 11 maggio 2005, n. 9849), la controversia instaurata dinanzi al Tribunale competente ai sensi della L. 29 maggio 1967, n. 379, art. 7 (che richiama implicitamente l’art. 7 della legge 3 giugno 1940, n. 1078), diretta ala designazione dell’erede subentrante nel rapporto di assegnazione ed alla tacitazione degli eredi esclusi, è soggetta al rito camerale, anche se il provvedimento che lo conclude (pur avendo la forma di decreto) ha carattere decisorio in quanto statuisce, nei contraddittorio degli interessati, su posizioni di diritto soggettivo inerenti alla successione nella posizione dell’assegnatario defunto.

In modo ancor più specifico è stato precisato che il suddetto procedimento si caratterizza come un giudizio di cognizione speciale, connotato da alcune peculiarità attinenti ai rito mutuate dalle norme di cui all’art. 737 c.p.c., e segg., ma avente ad oggetto l’accertamento, con cognizione piena ed esauriente, di rapporti giuridici e di diritti soggettivi nei sensi precedentemente evidenziati, con ia conseguenza che trattasi non di un procedimento di volontaria giurisdizione in senso proprio ma di un procedimento di giurisdizione contenziosa ancorchè costruito secondo il modello camerale.

Ciò posto, secondo la previsione del richiamato L. n. 1078 del 1940, art. 7 (al quale deve essere correlata, quanto al rito, la disposizione contemplata dalla L. n. 379 del 1967, art. 7), il Tribunale è tenuto a provvedere con decreto, su ricorso degli interessati, sentite le parti, il P.M. e l’Ispettore provinciale dell’agricoltura competente per territorio; da tale norma deriva, quindi, sulla scorta delle riferite connotazioni del procedimento in questione, che, ai fini della legittimità della sua instaurazione e del suo conseguente svolgimento, è sufficiente che il P.M. sia informato dell’introduzione del procedimento stesso e posto nelle condizioni di parteciparvi, senza che, però, siano necessarie la sua obbligatoria presenza alle udienze e la formulazione delle sue conclusioni, essendo demandata tale scelta alle determinazioni discrezionali del suo ufficio, la cui omissione, in quanto da esse dipendenti, non possono incidere sulla ritualità del procedimento medesimo (v., ad es., per riferimenti generali, Cass. 21 agosto 1993, n. 8862; Cass. 3 ottobre 2000, n. 13062; Cass. 23 dicembre 2003, n. 19727, e Cass. 28 settembre 2006, n. 21065).

Pertanto, avendo la Corte territoriale accertato in fatto che, nel procedimento di primo grado, il P.M. aveva ritualmente ricevuto la notificazione del ricorso e del pedissequo decreto, ha – conformemente ai principi di diritto appena ricordati – ritenuto che, pur non avendo lo stesso P.M. (ufficialmente informato dell’esistenza del procedimento) concretamente partecipato alla trattazione e provveduto a rassegnare le sue conclusioni (come era nella sua facoltà), tale comportamento non poteva costituire motivo di nullità, dovendosi, invece, rilevare che il procedimento era stato ritualmente introdotto e si era altrettanto correttamente svolto nella sua fase di trattazione e di istruzione prima di pervenire a quella decisoria. Correttamente, dunque, il giudice di appello, pur ritenendo sussistente la necessità che il P.M. venisse messo nelle condizioni di intervenire (come gli era stato consentito mediante la notificazione al suo ufficio del ricorso introduttivo e del correlato decreto giudiziale, al pari delle altre parti private), ha concluso che la sua inerzia successiva non poteva integrare alcuna lesione del principio del contraddittorio e, quindi, incidere sulla legittimità della sua prosecuzione e della sua definizione. Dei resto, tale interpretazione si pone in sintonia con il costante indirizzo giurisprudenziale di questa Corte sulla individuazione delle conseguenze processuali derivanti dalla mancata partecipazione del P.M. ai procedimenti contenziosi nei quali sia previsto il suo intervento obbligatorio, alla stregua del quale l’omesso intervento di tale organo non determina la nullità della decisione a condizione che egli sia stato ufficialmente informato dell’esistenza dei procedimento, così da essere posto in grado di parteciparvi e presentare le sue conclusioni, atteso che non può costituire motivo di nullità i modo di intervento del P.M. o l’uso dallo stesso fatto del potere di intervento attribuitogli.

3. Con il secondo motivo la ricorrente C.S. ha censurato il decreto impugnato per assunta violazione della L. n. 379 del 1867, art. 7 e dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, oltre che per errata, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

A sostegno di questa doglianza la predetta ricorrente allega che la Corte territoriale aveva ingiustificatamente – e con motivazione inadeguata – attribuito alla domanda avanzata da C.A. un contenuto diverso, avendo trascurato che la stessa aveva inteso perseguire l’assegnazione del bene e non la designazione a poter ottenere successivamente l’assegnazione in sede amministrativa, così da non potersi discorrere di una domanda di maggiore ampiezza, ritualmente proposta (che non esulasse dalla “causa petendi”), ma, piuttosto, di una domanda soggetta a discipline e competenze diverse.

A fondamento della supposta violazione di legge la stessa ricorrente ha indicato il seguente quesito di diritto ai sensi del citato art. 366 bis c.p.c.: “dica il Collegio adito che – qualora l’assegnatario di un terreno di Riforma Fondiaria muoia prima del riscatto, lasciando una pluralità di eredi – la domanda di ognuno di essi, mirante ad ottenere la designazione a subentrare nel rapporto di assegnazione, ai sensi del combinato disposto della L. 29 maggio 1967, n. 379, art. 7 è da qualificarsi domanda giudiziale, mentre la domanda di assegnazione del podere è di natura amministrativa in quanto mirante ad ottenere la concessione – contratto avente ad oggetto bene patrimoniale indisponibile, interrottasi con la morte del dante causa, originario assegnatario”.

3.1. Anche questo secondo motivo è destituito di fondamento e deve, perciò, essere rigettato.

Con motivazione assolutamente logica e sufficiente la Corte territoriale ha evidenziato che, in effetti, la C.A., pur avendo riferito la sua domanda all’assegnazione in suo favore del podere di riforma fondiaria già assegnato al genitore (e ancora non riscattato), aveva, in effetti, inteso proporre l’istanza propriamente riconducibile a quella sottesa all’azione prevista dalla L. n. 379 del 1967, art. 7 rivolta all’ottenimento, tra i discendenti dell’assegnatario, della sua designazione giudiziale al subingresso nel rapporto di assegnazione.

A tal proposito, il giudice di appello, nell’ambito del suo potere di interprelazione e qualificazione della domanda e senza incorrere in alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c., ha considerato che il giudice di prima istanza aveva correttamente ricondotto la domanda della C.A. a quella diretta al riconoscimento della sua legittimazione al predetto subingresso. Infatti, al di là della mera confusione formale tra il termine di “assegnazione” e di “designazione” (anche se lo stesso comma 3 della citata L. n. 379 del 1967, art. 7 afferma, in effetti, che “l’assegnazione è fatta all’avente diritto designato…”), era inequivocabilmente evincibile che la C.A. aveva inteso formulare l’indicata richiesta, poichè la stessa l’aveva esplicitamente correlata al disposto dell’indicato L. n. 379 del 1967, art. 7 con la conseguenza che – in difetto della designazione fatta dal testatore e dagli stessi coeredi, tra i quali vi era disaccordo – appariva evidente la manifestazione della sua intenzione di voler essere individuata, da parte dell’autorità giudiziaria, quale effettiva titolare delle condizioni necessarie per la designazione al subentro in sostituzione dell’originario assegnatario del podere.

4. Con il terzo motivo la ricorrente principale C. S. ha denunciato a violazione e falsa applicazione della L. n. 379 del 1967, art. 7, della L. n. 1078 del 1940, art. 7, della L. n. 230 del 1950, art. 16, della L. n. 191 del 1992, art. 1, della L. n. 386 del 1976, artt. 9 e 10, art. 115 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo per il giudizio in relazione al fatto controverso (con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

In particolare, l’indicata ricorrente ha inteso censurare vari passaggi argomentativi del decreto impugnato circa il fatto controverso e decisivo per il giudizio consistente nella operata individuazione in C.A. quale unica erede discendente idonea e, in ogni caso, munita delle condizioni e delle attitudini personali più adeguate a garantire la salvaguardia dell’unità aziendale e la continuità nella prosecuzione della coltivazione del fondo e, come tale, avente titolo al subingresso nel rapporto di assegnazione nel podere già assegnato al “de cuius” C. D..

Quanto alle dedotte violazioni di legge ha formulato il seguente quesito di diritto ai sensi del più volte ricordato art. 366 bis c.p.c.: “dica il Collegio adito che, nel caso di morte anteriore al riscatto dell’assegnatario di un terreno di riforma fondiaria, il quale lasci discendenti in linea retta ma non abbia provveduto alla designazione del subentrante nel rapporto di assegnazione, la mancanza di un accordo tra i coeredi rende applicabile la L. 29 maggio 1967, n. 379, art. 7, comma 3, seconda parte, il quale devolve al giudice il compito di scegliere il discendente ritenuto più idoneo, previo riscontro sulla scorta degli elementi probatori che ciascun erede deve fornire per suo conto – del possesso dei requisiti obiettivi e soggettivi – fissati dalla L. 12 maggio 1959, n. 230, art. 16 e dalla L. n. 379 del 1967, art. 4 – al momento dell’apertura della successione e fino alla data della vigenza del rapporto concessorio, che cessa “ope legis” al pagamento della quindicesima annualità del prezzo di assegnazione – secondo la L. n. 86 del 1976, art. 10 – o alla scadenza del trentennio della durata di detto rapporto – ai sensi della L. n. 191 del 1992, art. 1 – privilegiando – nella scelta l’erede componente o titolare di un famiglia colonica, i cui membri siano impossidenti o proprietari o enfiteuti di una superficie di terreno tale da garantire almeno un terzo delle giornate lavorative, occorrenti a coltivare eventuale fondo già in loro possesso e quello proveniente dalla Riforma Fondiaria e, nel caso di decisione di sanatoria, a posteriori, (come nel caso in esame), l’erede che ha già provveduto, con la sua famiglia, a traghettare la conduzione dell’unità poderale, nel rispetto dei principi informatori della successione dell’originario assegnatario alla cessazione del rapporto concessorio – anno 1976″.

4.1. Anche quest’ultimo complesso motivo è privo di pregio e deve, conseguentemente, essere rigettato.

Posto che, nella fattispecie, non risulta applicabile (v., per tutte, Cass. 11 maggio 2005, n. 9849, e, più recentemente, Cass. 25 maggio 2009, n. 12060) lo “ius superveniens” di cui alla L. 19 febbraio 1992, n. 191 (che ha eliminato il vincolo di indivisibilità delle unità poderali), perchè la successione dell’originario assegnatario del fondo si era aperta nel 1968 (anno del decesso del C. D.), deve evidenziarsi che il decreto della Corte salernitana risulta – nel controllo della verifica, rispetto alla pronuncia di primo grado, delle condizioni necessarie per la individuazione del coerede subentrante ai sensi del citato L. n. 379 del 1967, art. 7 – esaustivamente rispondente ai principi di diritto complessivamente indicati dalla giurisprudenza di questa Corte, corredando le conclusioni raggiunte con una motivazione del tutto logica e pienamente adeguata con riferimento ai riscontri di merito svolti in relazione alle risultanze delle prove esperite, che rimangono sottratte, pertanto, al sindacato di legittimità.

Innanzitutto, la Corte territoriale (confermando l’esattezza dell’impostazione del decreto di prime cure) ha valorizzato il presupposto interpretativo di fondo (dal quale non si può prescindere e che, diversamente da quanto sollecitato dalla ricorrente principale, deve essere, perciò, in questa sede riconfermato) tracciato dalle Sezioni unite, con la sentenza n. 21632 del 2004 (ma, per riferimenti in tal senso, v. già Cass., SU., n. 6064 del 1993), alla stregua della quale, in tema di riforma agraria, i requisiti richiesti dalla legge in capo all’erede che abbia richiesto di subentrare al genitore deceduto nell’assegnazione del fondo, devono esistere al momento dell’apertura della successione e persistere fino a tutto il tempo della decisione, con la specificazione che, sul piano probatorio, dimostrata dall’erede interessato la sussistenza di detti requisiti al momento dell’apertura della successione, è da ritenere presunta la permanenza degli stessi fino alla decisione, salvo prova contraria da parte dell’Ente o dei controinteressati (v., successivamente, tra le altre, Cass. 29 luglio 2005, n. 16097). Inoltre, lo stesso giudice di appello si è altrettanto correttamente conformato alla giurisprudenza di questa Corte nella individuazione dei requisiti essenziali per la legittimazione dell’erede al subentro in questione, avendo sottolineato che, a tal fine, in materia di assegnazione di fondi di riforma fondiaria, in caso di morte dell’assegnatario prima del riscatto del fondo non sono richiesti, ai fini del subingresso dei discendenti diretti nell’assegnazione, particolari requisiti diversi da quelli genericamente determinati dalla L. n. 230 del 1950, art. 6 e cioè la qualifica di lavoratore della terra e la capacità professionale, oltre a non essere proprietario o enfiteuta di fondi rustici che assorbano la capacità lavorativa dell’intera famiglia agricola, con la conseguenza che la scelta da parte del giudice – al quale solo spetta, nell’ambito del procedimento previsto dalla L. n. 29 maggio 1967, n. 379, art. 7 di accertare la sussistenza dei suindicati requisiti, non essendo la sua valutazione al riguardo vincolata dagli atti adottati dagli ispettorati agrari provinciali, la cui attività ha mera funzione informativa (L. n. 379 del 1967, art. 16, comma 2) – deve cadere su quello che tra i discendenti diretti assicura il perseguimento delle finalità previste dalla legge, consistenti nella salvaguardia dell’unità aziendale e della continuità nella coltivazione del fondo (v., in particolare, Cass. 24 aprile 1987, n. 4055; Cass. 15 ottobre 2002, n. 14649, e, da ultimo, Cass. 24 giugno 2010, n. 15308). Orbene, sulla scorta di questi esatti presupposti giuridici, la Corte di appello di Salerno ha proceduto ad un’analisi completa ed esente da vizi logici delle risultanze istruttorie pervenendo alla conferma della statuizione di primo grado in base ad una motivazione esauriente ed assolutamente adeguata sui piano della comparazione degli esiti probatori da valorizzare al fine della individuazione del soggetto munito di tutti i requisiti necessari a conferirgli la predetta legittimazione ai fini del riconoscimento in suo favore del diritto al subingresso nell’assegnazione dell’unità poderale dedotta in contestazione.

Al riguardo la Corte territoriale ha, in primo luogo, evidenziato che la C.A., pur essendo la più giovane tra le sorelle pretendenti, al pari delle altre due esercitava l’attività di lavoratrice manuale della terra, coadiuvando (per come desumibile da plurime prove orali) il padre Damiano nella coltivazione dei fondo agricolo ancor prima che egli decedesse. Inoltre, sulla base delle acquisizioni documentali intervenute nel corso del procedimento, era emerso che la stessa era iscritta nell’elenco provinciale dei coltivatori diretti ed era dedita, in modo sistematico, all’esercizio dell’attività agricola, realizzando anche opere di miglioramento fondiario nella quota di podere direttamente posseduta. In virtù delle concordanti risultanze istruttorie raggiunte, quindi, era rimasta confermata la perdurante posizione di diretta e manuale coltivatrice della C.A. e si erano potute evincere, in modo sostanzialmente univoco, le sue specifiche, personali attitudini alla conduzione agricola, in modo tale da condurre alla ragionevole e fondata prognosi che ella si identificava con il soggetto certamente più idoneo a perseguire, con buone prospettive di riuscita, la salvaguardia dell’unità poderale ed aziendale e della continuità nella coltivazione del fondo. In particolare, poi, la Corte di secondo grado ha posto in evidenza come l’esito delle complessive risultanze istruttorie si dovessero ritenere ulteriormente confermate dall’accertamento del sopravvenuto collocamento in pensione di C.S. (detta S.) e di C.M. rispetto al momento dell’intervenuta decisione (come prescritto dalle Sezioni unite con la ricordata sentenza n. 21632 del 2004), così venendo meno, nei loro riguardi, la persistenza della condizione di ipotetica idoneità al riconoscimento della legittimazione al subentro.

In definitiva, sulla base della valorizzazione degli elementi specificati e di altri ulteriormente convergenti, la Corte territoriale ha motivato adeguatamente nel ritenere la correttezza dell’impugnato decreto di primo grado, considerando che la C.A. aveva dimostrato di possedere i menzionati requisiti at momento dell’apertura della successione del genitore (originario assegnatario del fondo, ancora non riscattato), senza che fossero emersi elementi idonei a far escludere, con oggettiva certezza, la permanenza dei medesimi requisiti al momento della decisione, laddove le altre due pretendenti ( S. e M.) al subingresso non potevano vantare, con riferimento a quest’ultimo momento, uguali requisiti, essendo, peraltro, risultate pensionate, ragion per cui, considerandosi che la loro nuova condizione implicava che le stesse non avrebbero potuto dedicarsi in modo fattivo e continuo alla coltivazione dell’unità poderale, era da ritenersi del tutto ragionevole e preferibile che la designazione cadesse sulla persona di C.A., risultata, tra le tre sorelle, quella munita delle condizioni e delle attitudini più adeguate e, quindi, più idonea a garantire la salvaguardia della stessa unità poderale e del relativo sfruttamento agricolo ed aziendale.

Pertanto, alla stregua delle complessive argomentazioni operate, non sussiste alcuna delle violazioni di legge dedotte così come non si è venuto a profilare alcun vizio della motivazione, ricordandosi, peraltro, a quest’ultimo proposito, che, secondo l’indirizzo consolidato di questa Corte, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione – denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – si configura solo quando nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, con la conseguenza che tali vizi non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, mentre alla Corte di cassazione non è conferito il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è riservato l’apprezzamento dei fatti (ritenuto, nella specie, condotto secondo criteri del tutto logici e congrui).

5. Con il primo motivo del ricorso incidentale C.M., aderendo al primo motivo prospettato dalla ricorrente principale C.S., ha denunciato la violazione della L. n. 1078 del 1940, art. 7 in relazione all’art. 70 c.p.c., n. 5, e all’art. 738 c.p.c., deducendo il seguente quesito di diritto: “l’Ecc.ma Corte vorrà stabilire se i procedimenti previsti per designazione del subentrante ai sensi delle L. n. 841 del 1950, L. n. 230 del 1950, L. n. 379 del 1967, L. n. 386 del 1976, tenuto conto della norma di cui alla L. n. 1078 del 1940, art. 7 la presenza del P.M. è obbligatoria in udienza ai sensi dell’art. 70 c.p.c., n. 5, vorrà ritenere che il provvedimento impugnato consente il ricorso in sede di legittimità in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, anche in considerazione che trattasi di nullità rilevabile d’ufficio.

5.1. Il motivo è infondato per le stesse ragioni riferite con riguardo al rigetto del primo motivo del ricorso principale (v. sub 2.1), che devono intendersi qui per integralmente riportate.

6. Con il secondo motivo del ricorso incidentale C.M. ha dedotto la violazione della L. n. 397 del 1967, art. 7 in relazione alla L. n. 230 del 1950, artt. 16 e 19 applicabile per espresso richiamo contenuto nella L. n. 841 del 1950, nonchè il vizio di contraddittorietà, erronea ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia. A tal riguardo ha chiesto, a questa Corte, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. di stabilire: – se i requisiti per il subingresso voluti dalla legge (L. n. 230 del 1950, art. 16) dovessero sussistere al momento dell’apertura della successione; – se sussisteva mancato esame di punti decisivi della causa sia in rapporto alla qualità soggettiva di C.A. sia in rapporto a C.M.; – se l’assegnazione dovesse essere fatta a lavoratore manuale in grado di provvedere alla coltivazione del fondo.

6.1. Anche questo ulteriore motivo formulato nell’interesse di C.M. si prospetta infondato e deve essere respinto.

Oltre a non aver corredato (ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.) la doglianza relativa al supposto vizio motivazionale dalla necessaria ed autonoma sintesi delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione era inidonea a giustificare la decisione impugnata, il motivo svolto si traduce, in effetti, in una richiesta di rinnovazione dell’attività ermeneutica nella individuazione dei requisiti per la legittimazione al subingresso nell’assegnazione del podere e in una istanza di rivisitazione delle risultanze processuali, rivolte alla posizione della C. M.. Tali sollecitazioni risultano, tuttavia, già completamente soddisfatte dallo sviluppo della risposta data al terzo motivo formulato dalla ricorrente principale (v. sub 4.1.), le cui argomentazioni, perciò, devono, in questa sede, ritenersi per integralmente richiamate e sicuramente attagliabili anche alla condizione della ricorrente incidentale, certamente simile a quella della C.S. ed involgente la rivalutazione della sussistenza o meno dei suddetti requisiti in capo alla C. A., sulla quale si è ritenuta l’assoluta esaustività della motivazione del decreto impugnato, con la quale sono state complessivamente comparate le singole posizioni delle tre sorelle C., pervenendo al conseguente risultato della preferenza per la C.A..

7. In definitiva, per tutte le esposte ragioni, sia il ricorso principale avanzato nell’interesse di C.S. (detta S.) che quello incidentale proposto nell’interesse di C.M. devono essere rigettati, con la loro conseguente e rispettiva condanna al pagamento delle spese del presente giudizio nei confronti dell’unica controricorrente C.A. vittoriosa, nella misura di cui in dispositivo.

In considerazione della loro reciproca soccombenza, sussistono idonei motivi per dichiarare l’integrale compensazione delle spese in ordine al rapporto processuale intercorso tra la ricorrente principale e quella incidentale.

In dipendenza della mancata costituzione delle altre parti intimate non occorre adottare alcun’altra pronuncia sulle spese con riferimento agli rapporti processuali instauratisi.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta entrambi. Compensa le spese della presente fase tra le ricorrenti e condanna ciascuna di esse al pagamento, in favore della controricorrente C.A., delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2A Sezione civile, il 14 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2011

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