Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19491 del 04/08/2017


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Cassazione civile, sez. III, 04/08/2017, (ud. 29/03/2017, dep.04/08/2017),  n. 19491

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. PELLEGRINO Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1853-2016 proposto da:

CALI’ SRL IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore Sig.

M.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SIRACUSA 12, presso lo

studio dell’avvocato ERALDO LIBERATI, che la rappresenta e difende

giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS), in persona dell’amministratore p.t. Dott. F.S.,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SALUZZO, 65, presso lo studio

dell’avvocato ELISABETTA ZOINA, che lo rappresenta e difende giusta

procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3251/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/06/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/03/2017 dal Consigliere Dott. PELLECCHIA ANTONELLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CARDINO ALBERTO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ERALDO LIBERATI;

udito l’Avvocato ELISABETTA ZOINA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con atto notificato il 28 marzo 2012, il Condominio sito in Roma, via Appia Nuova nn. 251/261, proprietario di un immobile locato alla Vali S.r.l., intimò a quest’ultima sfratto per morosità relativa ai mesi di dicembre 2011, gennaio, febbraio e marzo 2012, convenendola dinanzi al Tribunale di Roma per la relativa convalida.

Sull’opposizione dell’intimata, la quale aveva sanato la morosità e rilasciato l’immobile prima della ricezione dell’intimazione, fu denegato il provvedimento di rilascio e mutato il rito ex art. 447 bis c.p.c..

Il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 11386/2014, accolse la domanda di risoluzione del contratto per inadempimento della conduttrice e respinse la domanda riconvenzionale avanzata da quest’ultima per la declaratoria di risoluzione della locazione per colpa del Condominio, a causa di accertate violazioni edilizie, e per la condanna del medesimo locatore al risarcimento dei danni e al pagamento dell’indennità di avviamento.

2. La decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 3251 del 12 giugno 2015.

La Corte territoriale ha ritenuto che il Tribunale abbia correttamente ricostruito i fatti, negando la convalida dello sfratto per morosità in considerazione dell’avvenuto pagamento dei canoni, ma ritenendo, nella successiva fase di merito, di addebitare la risoluzione del contratto alla condotta illegittima della conduttrice la quale non avrebbe potuto sospendere il versamento di 4 mesi di canone sulla base di argomentazioni da accertare e comunque insufficienti a giustificare il suo comportamento.

Inoltre, non rileverebbe, al fine di escludere la morosità, una lettera, inviata dall’amministratore del Condominio nel 2006 al precedente conduttore, con il quale il rappresentante dell’ente s’impegnava a non agire in risoluzione per morosità contenuta entro due mesi. Nel caso di specie, infatti, la morosità arrivava a quattro mesi.

La Corte di Appello, quindi, ha ritenuto infondata l’eccezione di inadempimento sollevata dalla Galì e la domanda di risoluzione del contratto per fatto del locatore osservando che “il conduttore non può sospendere (o autoridursi) il pagamento del canone in relazione a pretesi vizi del bene locato ancora da accertarsi in giudizio, dovendo, in detto caso, in primis restituire l’immobile indicato come inagibile e poi agire risoluzione per colpa del locatore” e che ciò non sarebbe avvenuto nella specie, avendo la Galì “continuato ad utilizzare pienamente il bene fino al rilascio senza che fosse inoltrata alcuna diffida o inibizione all’uso dello stesso bene dalla pubblica autorità o dal condominio locatore”.

Nè, d’altra parte sarebbe stata dimostrata la necessità di interventi strutturali sull’immobile, non avendo la società chiesto una CTU o prodotto alcun verbale dei vigili urbani in relazione ai fatti lamentati. Dalla relazione redatta dal tecnico della stessa Galì risulterebbero necessari soltanto interventi demolizione del solaio, di realizzazione di un bagno e di un nuovo accatastamento dell’immobile (delle cui condizioni la Galì era pienamente a conoscenza sin dall’inizio della locazione).

Di conseguenza, essendo la conduttrice inadempiente, non spetterebbe nemmeno l’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale.

3. Avverso tale sentenza, propone ricorso in Cassazione la Galì S.r.l., sulla base di cinque motivi.

3.1. Resiste con controricorso il Condominio di via (OMISSIS).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.1. Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la “insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla mancata convalida dello sfratto”.

La Corte di Appello avrebbe erroneamente attribuito il diniego di convalida di sfratto all’avvenuto pagamento dei canoni da parte della Galì, dovendo il medesimo diniego essere attribuito solo all’avvenuto rilascio dell’immobile. L’azione sommaria di sfratto, infatti, avrebbe quale unica finalità l’emissione di un ordine di rilascio dell’immobile. Pertanto, il condominio, iscrivendo a ruolo il procedimento dopo il rilascio dell’immobile (30 marzo 2012) che era avvenuto prima della notifica dell’intimazione (4 aprile 2012), avrebbe agito con temerarietà e strumentalmente al fine di sottrarsi al pagamento dell’indennità di avviamento. A nulla, sempre secondo la società ricorrente, rileva la circostanza che l’intimazione fosse passata “alle casse degli ufficiali giudiziari in data 28 marzo 2012 (due giorni prima del rilascio) atteso che il condominio sin dal 26 marzo era consapevole che il rilascio dell’immobile era imminente.

Il motivo è infondato.

Correttamente i giudici del merito hanno risolto il contratto di locazione per grave inadempimento. Infatti nell’intimazione ex art. 658 c.p.c. è contenuta una domanda di risoluzione per inadempimento e su questa si sono pronunciati i giudici ai sensi dell’art. 1453 c.c.. Il ricorrente ha tra l’altro censurato in modo inadeguato la ratio decidendi perchè trattasi di vizio in iure e non di motivazione.

4.2. Con il secondo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione dell’art. 2558 c.c., in relazione al patto aggiunto al contratto di locazione (in ordine alla tolleranza trimestrale nel pagamento del canone e alle condizioni di contestazione della relativa risoluzione per inadempimento)”.

Erroneamente la Corte di Appello avrebbe ritenuto di non poter tener conto, al fine di escludere la morosità della Galì, della lettera inviata dall’amministratore del condominio al precedente conduttore, con la quale il locatore autorizzava il pagamento trimestrale del canone di locazione e subordinava la contestazione della risoluzione per inadempimento alla decorrenza dei termini legali di messa in mora tramite raccomandata.

La Galì sarebbe subentrata nella conduzione dell’immobile quale cessionario di un ramo d’azienda e, pertanto, sarebbe subentrata, ai sensi dell’art. 2558 anche nel patto aggiunto recato dalla suddetta lettera.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata, infatti, ha correttamente escluso di poter tener conto della lettera sopra indicata, sui rilievo che i canoni di locazione scaduti e rimasti impagati erano superiori al limite di “tolleranza” ivi previsto (due mensilità), riferendosi a quattro mensilità (dicembre 2011, gennaio, febbraio e marzo 2012).

4.3. Con il terzo motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1460 e 1341 cod, civ. in relazione all’eccezione di inadempimento formulata dal conduttore ed all’inefficacia della clausola solve et repete”.

Ti ritardato pagamento dei canoni, peraltro avvenuto entro i normali termini di tolleranza, non sarebbe ascrivibile ad un comportamento negligente del conduttore, ma ad un legittimo utilizzo della facoltà ex art. 1460 c.c..

Infatti, da un sopralluogo dei vigili urbani risalente al dicembre 2011 e dalla successiva relazione redatta da un tecnico di fiducia del condominio sarebbe emersa una non confolinità dei locali ai titoli edilizi abitativi rilasciati e al regolamento edilizio del Comune di Roma a causa della mancanza dei servizi igienici al pianterreno e dell’edificazione del piano superiore del negozio, che sarebbe stato interamente da demolire, con conseguente riduzione di oltre la metà della superficie locata. Ciò avrebbe costretto la conduttrice a chiudere, dal febbraio 2012 l’esercizio commerciale, per la sopravvenuta inidoneità del locale.

Inoltre, la clausola solve et repete contenuta nell’art. 4 contratto di locazione non sarebbe stata specificamente approvata dal conduttore e quindi sarebbe inefficace.

Il motivo è inammissibile perchè non censura la ratio decidendi “avendo la Gali continuato ad utilizzare pienamente il bene fino al rilascio senza che fosse inoltrata alcuna diffida o inibizione all’uso dello stesso bene dalla pubblica autorità o dal condominio locatore”. E’ principio consolidato che il ricorso per cassazione non introduce un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti. Ne consegue che, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. S. U. n. 7931/2013).

4.4. Con il quarto motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione degli artt. 2735 e 2733 c.c. in relazione alle circostanze di addebito dell’inadempimento al locatore”.

La prova della necessità degli interventi lamentati emergerebbe dalla relazione tecnica elaborata dal tecnico incaricato dal condominio, quindi riconducibile allo stesso, e qualificabile come confessione stragiudiziale ex art. 2735 c.c..

Lo stesso condominio, nella memoria integrativa in primo grado, avrebbe confermato la paternità della relazione e l’esigenza di intervento “risultano soltanto necessari interventi di demolizione del solaio, di realizzazione del bagno e di un nuovo accatastamento dell’immobile”.

Pertanto, la Galì non avrebbe dovuto offrire alcuna altra prova.

Inoltre, sarebbe irrilevante l’indisponibilità della ricorrente a rinegoziare il contratto a seguito dell’esecuzione dei lavori di regolarizzazione dell’immobile da parte della proprietà: infatti tali lavori avrebbero comportato la rimozione di un piano del negozio, dimezzandone la superficie, con conseguente mancanza di interesse del conduttore a mantenere il locale.

Anche tale motivo è inammissibile.

Il ricorrente chiede, in sostanza, nuova valutazione degli elementi probatori in atti ed in particolare una diversa interpretazione della relazione del tecnico incaricato dal condominio.

Tuttavia, in sede di legittimità, non è consentita una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito.

4.5. Con il quinto motivo di ricorso, la ricorrente lamenta il “difetto assoluto di motivazione in ordine all’ultimo capo del dispositivo”.

La Corte d’appello di Roma non avrebbe in alcun modo motivato la condanna della Gali al pagamento del doppio del contributo unificato.

Il motivo è inammissibile.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, non sono suscettibili di essere impugnate con ricorso per cassazione le parti della sentenza di appello in cui si dà atto della sussistenza o insussistenza dei presupposti per la erogazione dal parte del soccombente di un importo pari a quello corrisposto per il contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012.

Ciò in quanto, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato è un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione: atteggiandosi come un’automatica conseguenza sfavorevole dell’azionamento del diritto di impugnare un provvedimento in materie o per procedimenti assoggettati a contributo unificato, tutte le volte che l’impegno di risorse processuali reso necessario dall’esercizio di tale diritto non abbia avuto esito positivo per l’impugnante, essendo il provvedimento impugnato rimasto confermato o non alterato.

Nella previsione legislativa in esame l’obbligo del pagamento del contributo aggiuntivo sorge ipso iure, per il solo fatto del formale rilevamento della sussistenza dei suoi presupposti, al momento stesso del deposito del provvedimento di definizione dell’impugnazione: sicchè da quello stesso momento è attivabile pure il procedimento per la relativa riscossione.

Questa Corte ha già affermato (Cass. n. 5955 del 2014) che tale rilevamento non può quindi costituire un capo del provvedimento di definizione dell’impugnazione dotato di contenuto condannatorio, nè di contenuto declaratorio: a tanto ostando anzitutto la mancanza di un rapporto processuale con il soggetto titolare del relativo potere impositivo tributario, che non è neppure parte in causa, e quindi irrimediabilmente la carenza di domanda di chicchessia o di controversia sul punto e comunque discendendo il rilevamento da un obbligo imposto dalla legge al giudice che definisce il giudizio. Deve allora ritenersi che la lettera della disposizione conferisca al giudice dell’impugnazione il solo potere-dovere di rilevare la sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, cioè che l’impugnazione sia stata rigettata integralmente, ovvero dichiarata inammissibile o improcedibile. Se il punto della sentenza che enuncia la sussistenza dei presupposti per l’obbligo di pagamento del contributo aggiuntivo non ha natura decisoria, esso non può essere suscettibile di ordinaria impugnazione (Cass. civ. Sez. VI – 3, Ord., 09-11-2016, n. 22867). L’eventuale erroneità della indicazione di sussistenza dei presupposti per l’assoggettabilità all’obbligo di versamento di una somma pari a quella del contributo potrà essere casomai segnalata in sede di riscossione.

6. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore della controricorrente, che liquida in complessivi Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 29 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 4 agosto 2017

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