Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19490 del 23/07/2018


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Civile Ord. Sez. 2 Num. 19490 Anno 2018
Presidente: MATERA LINA
Relatore: BELLINI UBALDO

CC. 23/02/2018
ORDINANZA

sul ricorso 25730-2014 proposto da:
FRAIRE LODOVICO, rappresentato e difeso dall’Avvocato PAOLO
BOTASSO ed elettivamente domiciliato presso lo studio del Dott.
Alfredo Placidi, in ROMA, VIA COSSERIA 2;
– ricorrente contro

RESIDENZA CESARE BUZZI (già OPERA PIA “OSPIZIO BUZZI”),
in persona del presidente

pro-tempore

Mirella Bindi,

rappresentata e difesa dall’Avvocato GIANCARLO MAERO ed
elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avvocato Giuliano
Scarselli, in ROMA, VIA CASSIODORO 1/A;
– controricorrente nonché contro

ADU SIO ANTONELLA e FRAIRE GIOVANNA
– intimate –

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Data pubblicazione: 23/07/2018

avverso la sentenza n. 613/2014 della CORTE D’APPELLO di
TORINO, depositata il 26/03/2014;
letta la requisitoria scritta del P.M., in persona del Sostituto
Procuratore Generale Dott. LUCIO CAPASSO, che ha concluso per
il rigetto del ricorso;

23/02/2018 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione in data 1.9.2009, il sig. LODOVICO
FRAIRE conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Saluzzo la
sig.ra ANTONELLA AUDISIO e l’OPERA PIA “OSPIZIO BUZZI”, in
persona del legale rappresentante, impugnando il testamento
olografo, che istituiva questi ultimi quali unici eredi, redatto in
data 25.11.2006 dal defunto Gioachino Fraire, per chiederne
l’annullamento ex art. 591, comma 2, n. 3 c.c. per incapacità di
intendere e di volere del de cuius nel momento in cui fece
testamento, o in alternativa,

ex art. 624 c.c. per essere la

disposizione testamentaria de qua effetto di dolo e chiedendo,
altresì, ai sensi degli artt. 533 e segg. c.c., che fosse riconosciuto
il suo titolo d’erede nonché, per l’effetto, la restituzione in natura
o per equivalente in danaro di tutti i beni lasciati dal de cuius o
della parte di essi che fosse risultata di sua spettanza.
Si costituivano in giudizio le convenute, che chiedevano il
rigetto delle domande attoree in quanto infondate, osservando
che non era mai stato diagnosticato al de cuius Gioachino Fraire
il morbo di Alzheimer e che, anzi, lo stesso, al momento della
redazione del testamento, non era incapace di intendere e di
volere, tanto che il Giudice Tutelare del Tribunale di Saluzzo,
proprio in prossimità della redazione del testamento, dopo averlo

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udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

esaminato, aveva ritenuto non necessaria una perizia psichiatrica
e sufficiente la nomina di un amministratore di sostegno.
Il Tribunale ordinava all’Opera Pia Buzzi la produzione in
giudizio della documentazione medica, clinica o di altra natura in
suo possesso, relativa al defunto Gioachino Fraire; richiedeva al

per l’amministrazione di sostegno. Acquisita la documentazione,
rigettate le istanze di prova orale, il Tribunale disponeva CTU, al
fine di verificare la capacità di intendere e di volere del de cuius
all’epoca della redazione del testamento. Nel corso del giudizio le
parti venivano sentite a chiarimenti, anche per verificare se vi
fossero possibili soluzioni transattive, eventualmente coinvolgenti
anche GIOVANNA FRAIRE, nel frattempo intervenuta in giudizio.
Fallita la conciliazione il Tribunale di Saluzzo, con sentenza
n. 286/2011, annullava il testamento olografo redatto in data
25.11.2006 dal defunto Gioachino Fraire ai sensi dell’art. 591,
comma 2, n. 3 c.c., in quanto redatto da persona affetta da
incapacità naturale e condannava le convenute in solido tra loro
a rifondere le spese legali all’attore e alla sig.ra Giovanna Fraire.
L’Opera Pia Buzzi proponeva appello avverso la citata
sentenza con diversi motivi, tutti sintetizzabili nella censura della
ritenuta ma non adeguatamente motivata sussistenza
dell’incapacità naturale del de cuius al momento della redazione
del testamento.
Si costituivano Lodovico Fraire e Giovanna Fraire,
chiedendo il rigetto dell’appello.
Con sentenza n. 613/2014, depositata il 26 marzo 2014, la
Corte distrettuale di Torino accoglieva l’appello, condannando gli

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Giudice Tutelare di fornire informazioni scritte circa la procedura

appellati al pagamento delle spese di lite, oltre alla condanna ex
art. 91 c.p.c. .
Per la cassazione di tale sentenza Lodovico Fraire ha
proposto ricorso sulla base di due motivi, illustrati anche con
memoria, cui la “Residenza Cesare Buzzi” (già Opera Pia “Ospizio

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. — Con il primo motivo, il ricorrente deduce la «violazione
e/o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, comma 1, n.
3 c.p.c., in relazione all’art. 115, comma 1, c.p.c.)».
Secondo il ricorrente, l’accertamento compiuto dalla Corte
d’Appello, in ordine ai rapporti intercorrenti tra il de cuius ed il
ricorrente, sarebbe viziato da un’erronea applicazione del c.d.
principio di non contestazione ex art. 115, comma 1 c.p.c. Nella
comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado, del
23.12.2009, l’Opera Pia Buzzi e Antonella Audisio, non avevano
effettuato alcuna allegazione specifica in merito a detti rapporti;
inoltre, la genericità dell’allegazione (riferita solo alle cure
ricevute dal testatore da parte della Casa di Cura Buzzi e della
nipote) implica la non applicabilità del principio di non
contestazione, in quanto tale principio, per poter operare,
presuppone che la controparte abbia assolto all’onere di
allegazione specifica. Nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 2,
c.p.c., i convenuti deducevano i capi di prova per testi, riferiti
alle circostanze che sia l’Opera Pia Buzzi che Antonella Audisio si
erano sempre presi cura del defunto Gioachino Fraire; solo un
capo era riferito alla circostanza che in più occasioni il defunto
Gioachino Fraire aveva avuto modo di dichiarare che non
riceveva le visite del fratello Lodovico avendo subito torti da lui.

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Buzzi”) ha resistito con controricorso.

Osserva il ricorrente, che si tratta di fatti che si sarebbero
verificati al di fuori della sua sfera di conoscenza, in quanto tali
dichiarazioni sarebbero state rese dal de cuius a terzi presso la
casa di riposo presso la quale era ricoverato. Di fronte a tali
allegazioni, quindi, non sussisteva alcun onere di contestazione

circostanze allegate dalla controparte fossero nella sfera di
conoscenza e disponibilità del potenziale contestatore.
1.1. – Il motivo non è fondato.
1.2. – Come rilevato dallo stesso ricorrente, la Corte
d’appello, nel riformare la sentenza del Tribunale di Saluzzo, ha
ritenuto che il

de cuius,

al momento della redazione del

testamento, avesse la capacità sufficiente per testare.
Il principio di diritto da cui muove l’impugnata sentenza è
quello secondo il quale «l’annullamento di un testamento per
incapacità naturale del testatore postula l’esistenza non già di
una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed
intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una
infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa
perturbatrice, il soggetto sia privo in modo assoluto, al momento
della redazione dell’atto di ultima volontà, della coscienza dei
propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi, con il
conseguente onere, a carico di chi quello stato di incapacità
assume, di provare che il testamento fu redatto in un momento
di incapacità di intendere e di volere» (Cass. n. 27351 del 2014;
Cass. n. 9081 del 2010; conf. Cass. n. 8079 del 2005).
Inoltre, la Corte d’appello ha, altrettanto correttamente,
fatto applicazione dell’ulteriore connesso principio, secondo il
quale, «ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza o no della

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da parte dell’odierno ricorrente, sussistendo tale onere solo se le

capacità di intendere e di volere del de cuius al momento della
redazione del testamento, il giudice di merito “non può ignorare
il contenuto dell’atto di ultima volontà e gli elementi di
valutazione da esso desumibili, in relazione alla serietà,
normalità e coerenza dalle disposizioni nonché ai sentimenti ed ai

(Cass. n. 230 del 2011).
Proprio in virtù della applicazione di siffatti principi (per i
quali l’infermità del testatore, per giungere ad annullare le sue
ultime volontà, deve comunque essere di gravità tale da
escludere ogni sua residua capacità di autodeterminarsi, di
intendere il valore economico dell’atto e di volere quella
destinazione future degli interessi patrimoniali), la Corte
d’appello ritiene correttamente che, al fine di una tale diagnosi, il
dato clinico, comunque necessario, costituisce uno degli elementi
su cui il giudice deve basare la propria decisione, non potendosi
mai prescindere dalla valutazione della specifica condotta
dell’individuo e della logicità della motivazione dell’atto
testamentario (sentenza impugnata, pag. 8).
1.3. – A prescindere dall’esaminare le accurate e complete
analisi, svolte dalla Corte d’appello, del quadro clinico e del
contenuto del testamento (che non costituiscono oggetto di
censure da parte del ricorrente), il motivo di ricorso si appunta
esclusivamente sulla affermazione (attinente alla operata
valutazione dell’effettivo volere e della conseguente condotta del
testatore, in coerenza con le ragioni ad essa sottese) del fatto «da considerarsi provato, giacché, sebbene specificatamente
descritto e capitolato sia dall’odierno appellante che da Audisio
Antonella nelle rispettive comparse di costituzione avanti al

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fini che risultano averle ispirate” (Cass., n. 5620 del 1995)»

Tribunale, non specificamente contestato, neppure in questa
sede dove l’Opera Pia “Ospizio Buzzi” lo ha riproposto anche
come tema istruttorio in quanto non ammesso dal giudice di
prime cure dagli odierni appellanti, allora attori» – «che Fraire
Gioacchino non era in buoni rapporti con i fratelli, cui serbava

familiari, mentre intratteneva contatti affettuosi con la nipote
Audisio Antonella, unica parente a curarsi di lui e ad assisterlo
durante la degenza». Sicché, «la scelta di nominare la nipote
come erede appare logica e conseguenziale alla natura dei
rapporti endofamiliari, così come quella di lasciare all’Opera Pia
“Ospizio Buzzi” il non certo cospicuo patrimonio in denaro stante
il buon servizio resogli» (sentenza impugnata, pagg. 10-11).
1.4. – Il principio di non costestazione di cui al riformato
art. 115 c.p.c. (applicabile ratione temporis al presente giudizio,
instaurato con citazione del 1 settembre 2009), così come l’onere
di specifica contestazione tempestiva (desumibile dagli artt. 167
e 416 c.p.c.) è principio coerente a tutto il sistema processuale
(costruito sul carattere dispositivo del processo, che comporta
una struttura dialettica a catena; sul sistema di preclusioni, che
comporta per entrambe le parti l’onere di collaborare, fin dalle
prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa;
sui principi di lealtà e probità posti a carico delle parti e,
soprattutto, sul generale principio di economia che deve
informare il processo, avuto riguardo al novellato art. 111 Cost.).
Conseguentemente, ogni volta che sia posto a carico di una delle
parti (attore o convenuto, Cass. n. 8647 del 2016) un onere di
allegazione (e/o prova), l’altra ha l’onere di contestare il fatto
allegato nella prima difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi

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reciproco rancore per risalenti ma ancora presenti questioni

tale fatto pacifico e non più gravata la controparte del relativo
onere probatorio, senza che rilevi la natura di tale fatto (Cass. n.
5191 del 2008; cfr. anche Cass. n. 1540 del 2007; Cass. n.
12636 del 2005; Cass. n. 3245 del 2003). Tale principio (che
riguarda solo i fatti cd. primari, costitutivi, modificativi od

Cass. n. 17966 del 2016), sussiste soltanto per i fatti noti alla
parte, e non anche per quelli ad essa ignoti (Cass. n. 14652 del
2016).
1.5. – Orbene, rilevato che la questione della asserita
violazione del principio di non contestazione non figura tra i temi
dedotti dall’appellato nel pregresso grado di giudizio (non
facendosi peraltro alcun riferimento a specifiche tempestive
contestazioni dei fatti dedotti dai convenuti), va altresì
sottolineato che per la Corte d’appello la sussistenza di non buoni
rappprti tra il de cuius ed i prossimi congiunti (e, nella specie,
l’attore), in contrapposizione all’affetto della nipote ed alle cure
ed assistenza da parte dell’ospizio, scaturisce (come detto) dalla
analisi della comparse di costituzione di primo grado dei
convenuti e dalla reiterata loro richiesta di prova testimoniale in
tal senso. Sicché tale quadro di relazioni familiari e assistenziali,
non specificamente contestato dall’attore (innanzitutto con
riferimento alla enunciazione dei suoi rapporti con il de cuius,
che non possono ritenersi fatti a lui sconosciuti) vale a far luce
sulla scelta di escludere i germani, quali eredi, nella redazione
del testamento, che a sua volta costituisce elemento, fra gli altri,
idoneo a supportare l’affermazione della sussistenza della
capacità di intendere e di volere del de cuius al momento della
redazione del testamento.

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estintivi del diritto azionato, e non si applica alle mere difese:

Avendo la Corte territoriale indicato puntualmente ed
esaustivamente le fonti del proprio convincimento, si è in
presenza di un accertamento di fatto sorretto da congrua e logica
motivazione, come tale immune dalle censure sollevate
dall’appellante, che si risolvono nel prospetta re

considerazione degli elementi probatori acquisiti, trascurando di
rilevare che la valutazione delle prove, come la scelta, tra le
varie risultanze istruttorie, di quelle ritenute più idonee a
sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto
riservati al giudice di merito (Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n.
15927 del 2016). Deve comunque rilevarsi che il convincimento
del giudice di appello appare tanto più corretto (contrariamente a
quanto concluso dal giudice di prime cure), ove si tenga presente
proprio il rigore probatorio richiesto per annullare un testamento
per incapacità naturale del testatore ai sensi dell’art. 591 c.p.c.,
atteso che quest’ultima postula l’esistenza non già di una
semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed
intellettive del de cuius, bensì la prova che, a cagione di una
infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa
perturbatrice, il soggetto sia stato privo in modo assoluto, al
momento della redazione dell’atto di ultima volontà, della
coscienza dei propri atti ovvero della capacità di
autodeterminarsi (Cass. n. 8079 del 2005).
2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la
«violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360,
comma 1, n. 3, c.p.c., in relazione all’art. 115, comma 1, c.p.c.
sotto altro profilo), nullità della sentenza e/o del procedimento
(art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., in relazione agli artt. 356, 244

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inammissibilmente un diversa ed a sé più favorevole

ss. c.p.c. e ai principi del contraddittorio e del giusto processo)».
Osserva il ricorrente che nessuno dei capitoli di prova formulati
in primo grado dalle controparti, e come tali riproposti in appello
sarebbe stato decisivo in rapporto ai fatti che la Corte d’Appello
ha ritenuto comprovati, ossia che l’intenzione del de cuius fosse

sospeso, a vantaggio della nipote e della Casa di riposo. Inoltre,
essendo i capi di prova relativi a giudizi, e non a fatti, sarebbe
stata in ogni caso preclusa l’applicazione del principio di non
contestazione, invocato dalla Corte d’Appello. Sottolinea il
ricorrente che la Corte territoriale ha ritenuto raggiunta la prova
dei cattivi rapporti tra il testatore e i fratelli senza procedere
all’ammissione dei capi di prova. Così facendo la Corte avrebbe
violato le norme processuali, che stabiliscono che il Giudice
ponga a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti
(art. 115, comma 1, prima parte, c.p.c.), nonché la normativa
che regola le modalità di assunzione della prova testimoniale
(art. 244 ss. c.p.c.). Infine, il Giudice d’Appello non ha
minimamente motivato in merito al mancato esercizio del potere
discrezionale di dare corso all’attività istruttoria, così violando il
principio del contraddittorio e del giusto processo.
2.1. – Il motivo non è fondato.
2.2. – Come sottolineato con riguardo al primo motivo di
ricorso, la Corte d’appello ha correttamente escluso l’incapacità
naturale del testatore sulla scorta della non decisività delle
indagini mediche espletate dal C.T.U. in primo grado e della
corenza delle disposizioni testamentarie, valutate, tra l’altro,
anche alla luce delle relazioni familiari e affettive del de cuius
come emergenti fin dal momento della costituzione in giudizio

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quella di escludere i fratelli con cui aveva questioni personali in

dei convenuti (odierni controricorrenti), sulla base di affermazioni
non tempestivamente contestate dal ricorrente. Il mancato
assolvimento dell’onere di contestazione, fa cadere anche
l’assunto secondo cui nessuno dei capitoli di prova formulati in
primo grado dalle controparti, e come tali riproposti in appello,

ha ritenuto comprovati, ossia che l’intenzione del de cuius fosse
quella di escludere i fratelli con cui aveva questioni personali in
sospeso, a vantaggio della nipote e della Casa di riposo.
Laddove, poi, poco comprensibile appare l’ulteriore rilievo
secondo cui, essendo i capi di prova relativi a giudizi, e non a
fatti, sarebbe stata in ogni caso preclusa l’applicazione del
principio di non contestazione, invocato dalla Corte d’Appello;
giacché, tale assunto, muove da una errata commistione (di
presupposti e conseguenze) del diverso ambito operativo della
ammissione e assunzione della prova testimoniale e del principio
di non contestazione.
Quanto, infine, alla censura riguardante il fatto che il
giudice d’appello non abbia minimamente motivato in merito al
mancato esercizio del potere discrezionale di dare corso
all’attività istruttoria, così violando il principio del contraddittorio
e del giusto processo, non è dato comprendere (e non è meglio
spiegato) quale interesse possa avere il ricorrente a dolersi della
mancata ammissione della prova capitolata da controparte a
sostegno della propria tesi difensiva.
3. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la
soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa
altresì la dichiarazione di cui all’art. 13, comma 1-quater, d.P.R.
30 maggio 2002, n. 115.

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sarebbe stato decisivo in rapporto ai fatti che la Corte d’Appello

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al
pagamento, in favore della controricorrente delle spese del
presente grado di giudizio, che liquida in complessivi C 3.200,00
di cui C 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso

legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115 del
2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento,
da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma
del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda
sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 23 febbraio
2018.
Il Presidente
Matera
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