Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19483 del 04/08/2017


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Cassazione civile, sez. III, 04/08/2017, (ud. 16/12/2016, dep.04/08/2017),  n. 19483

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13081-2014 proposto da:

P.R., P.M. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 114, presso lo studio

dell’avvocato LUIGI PARENTI, che li rappresenta e difende giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

APSS, in persona del Direttore Generale Dott. F.L.,

considerata domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA

CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato LARENTIS

FRANCO giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 11/2014 della CORTE D’APPELLO di TRENTO,

depositata il 21/01/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/12/2016 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito l’Avvocato SALMERI ANTONIO per delega;

udito l’Avvocato FRANCO LARENTIS;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI ANNA MARIA che ha concluso per il rigetto.

Fatto

I FATTI

C.R. convenne dinanzi al Tribunale di Trento la APSS (Azienda provinciale per i Servizi Sanitari), esponendo:

– Che nel periodo ricompreso tra l’1 e l’8 marzo 2007, lamentando una tumefazione del cavo ascellare, era stata sottoposta ad interventi di asportazione di alcune linfoghiandole, in presenza di un quadro diagnostico di sospetta localizzazione di una malattia linfo – proliferativa border line;

– Che nella lettera di dimissioni a firma del Dott. G. si indicava al sanitario curante la necessità di successive medicazioni chirurgiche;

– Che il 12 marzo, all’esito di una medicazione ambulatoriale, il chirurgo che aveva eseguito l’intervento l’aveva rassicurata sull’evoluzione benigna della patologia;

– Che, a distanza di oltre un anno, a seguito del peggioramento delle sue condizioni fisiche (aumento del numero e delle dimensioni delle linfoghiandole, sensazione generale di malessere), si era rivolta all’ospedale di Bolzano, dove l’esame istologico di una biopsia osteomidollare avrebbe evidenziato la presenza di un linfoma R periferico follicolare sec. WHO, da trattare con cure chemioterapiche;

– Che il ritardo diagnostico imputabile ai sanitari dell’APSS, alle cui cure si era affidata nel 2007, aveva reso molto difficile la cura del linfoma, giunto ormai al quarto stadio;

– Che una tempestiva e corretta diagnosi le avrebbe consentito un’alta probabilità di guarigione, ovvero di più lunga sopravvivenza.

Deceduta l’attrice in corso di causa, e costituitisi in giudizio gli eredi, il giudice di primo grado respinse la domanda.

La corte di appello di Trento, investita dell’impugnazione proposta dagli odierni ricorrenti, la rigettò.

Avverso la sentenza della Corte trentina M. e P.R. hanno proposto ricorso sulla base di 2 motivi di censura.

L’Azienda provinciale per i Servizi sanitari della provincia di Trento resiste con controricorso.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Sussistenza della colpa professionale per quanto attiene all’obbligo di informazione; violazione dei doveri di informazione; violazione o falsa applicazione degli artt. 1176 e 2729 c.c.. Conseguente erroneità e vizio di motivazione.

Con il secondo motivo, si denuncia violazione o errata applicazione di norme giuridiche e di diritto; errata valutazione delle prove; errata applicazione dei principi generali sanciti dagli artt. 2697 e ss. c.c.; l’importanza della cartella medica quale fonte di prova a discarico della APSS; Illogicità e incoerenza della motivazione.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, attesane la intrinseca connessione, non possono essere accolti.

La Corte territoriale, con motivazione scevra da qualsiasi vizio logico-giuridico, giunge alla conclusione della assenza di qualsivoglia profilo di colpa, sotto il profilo della negligenza e della carenza informativa, nella condotta dei sanitari della struttura ospedaliera.

Attraverso una puntuale, compiuta, esaustiva e convincente disamina delle risultanze probatorie, il giudice altoatesino perviene a tale conclusione richiamando altresì, a conforto della propria decisione, l’esito del giudizio penale instaurato a carico del sanitario (nel quale l’odierno ricorrente, P.M., era costituito parte civile), conclusosi con la sentenza di questa Corte che, nel confermare le due pronunce di merito di assoluzione dell’imputato per insussistenza del fatto conseguente al difetto della stessa condotta colposa, aveva definitivamente accertato come il comportamento del terapeuta non apparisse sotto alcun profilo censurabile, e che l’assenza di comportamenti rimproverabili esonerasse dall’indagine sull’esistenza del nesso di causalità fra la condotta e l’evento, volta che la stessa paziente, con il suo comportamento, aveva impedito ogni ulteriore intervento terapeutico, pur essendo stata informata, nel corso di una lunga telefonata, della necessità di approfondimenti diagnostico-terapeutici a seguito dell’esame istologico.

Le ulteriori precisazioni svolte dalla Corte di merito in ordine al contenuto ed all’interpretazione della CTU (ff. 11-13 della sentenza impugnata) si sottraggono, a loro volta, a qualsiasi censura, essendo fondate su di un corretto e condivisibile percorso logico-giuridico, al pari delle considerazioni svolte in tema di chance perduta (considerazioni svolte, peraltro, ad abundantiam, essendo tutt’affatto diverso il petitum attoreo introdotto in prime cure).

La Corte territoriale, in attuazione del generale principio di diritto processuale che impone, nella motivazione, il rispetto di criteri logici di giustificazione razionale del raggiunto convincimento e dell’adottata decisione, offre chiara e puntuale valutazione, condivisibilmente argomentata, della valenza e dell’efficacia probatoria attribuita agli elementi acquisiti al processo, ritenendo la ricostruzione del fatto, così come operata in sede di motivazione, dotata di un più elevato grado di conferma logica e di credibilità razionale rispetto ad altre, possibili e pur prospettate ipotesi fattuali alternative.

I motivi di censura sono, pertanto, irrimediabilmente destinati ad infrangersi sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello dianzi descritto, dacchè essi, nel loro complesso, pur formalmente abbigliati in veste di denuncia di una (peraltro del tutto generica) violazione di legge e di un (asseritamente) decisivo difetto di motivazione, si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito.

Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c. mediante una specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie astratta applicabile alla vicenda processuale, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto irricevibili, volta che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere in alcun modo tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale, ovvero vincolato a confutare qualsiasi deduzione difensiva.

E’ poi principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360, n. 5 del codice di rito non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico – formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile).

Non senza rammentare come, all’esito delle modificazioni apportate all’art. 360 codice di rito, n. 5, dalla L. n. 134 del 2012, il vizio motivazionale denunciabile non sia più quello (illegittimamente lamentato dal ricorrente) di tipo contenutistico (salvo rispetto del cd. “minimo costituzionale”, giusta l’insegnamento delle sezioni unite di questa Corte) bensì quello di omesso esame circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti – onde l’inammissibilità, in parte qua, delle censure mosse alla sentenza impugnata.

Nella sostanza, il ricorrente, pur denunciando, formalmente, un insanabile deficit motivazionale della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai definitivamente cristallizzate sul piano processuale) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai consolidatosi, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione probatoria, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata – quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

Il ricorso è pertanto rigettato.

Le spese del giudizio possono essere nuovamente compensate in questa sede, per le medesime ragioni addotte dal giudice di appello e non espressamente censurate dinanzi a questa Corte.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e dichiara compensate le spese del giudizio di Cassazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari alla somma già dovuta, a norma del predetto art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 4 agosto 2017

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