Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19439 del 22/08/2013
Civile Ord. Sez. 2 Num. 19439 Anno 2013
Presidente: FELICETTI FRANCESCO
Relatore: PROTO CESARE ANTONIO
ORDINANZA
sul ricorso 20972-2012 proposto da:
NAPOLI
PIETRO
NPLPTR53P23G7130,
elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA G. FERRARI 35, presso lo
studio dell’avvocato MARZI MASSIMO FILIPPO,
rappresentato e difeso dall’avvocato LIOTTA MAURIZIO;
– ricorrente contro
MONTE FRANCESCA PAOLA;
A
–
2013
k,cgoes12.‹., u, dang._
awe-r-s-e—1-a-Vsentenza n.
intimata
–
,
1545
P
16305/2011 della CORTE SUPREMA
DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 26/07/2011;
udita la relazione della causa svolta nella camera di
consiglio del 29/05/2013 dal Consigliere Dott. CESARE
Data pubblicazione: 22/08/2013
ANTONIO PROTO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale DOTT. GIANFRANCO SERVELLO che ha concluso
per l’inammissibilità del ricorso.
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Questa Corte,
facendo proprie le considerazioni in
fatto e diritto svolte dal relatore,
Osserva in fatto
Con sentenza n. 16305/2011 la Corte di cassazione
la sentenza della Corte di Appello di Palermo n. 409
del 16/4/2004 ritenendo infondato l’unico motivo del
ricorso che così era sintetizzato nella sentenza
oggetto del presente ricorso:
Con l’unico, articolato motivo del ricorso principale,
si deduce erronea interpretazione e applicazione delle
disposizioni di cui agli artt. 177, 179, 769 e 809 cod.
civ., per avere la Corte di merito erroneamente
qualificato la fattispecie sottoposta al suo esame,
disconoscendo conseguentemente che l’immobile fosse
stato donato al ricorrente dalla propria madre, e che,
pertanto, esso fosse ricompreso nella ipotesi di cui
all’art. 179 cod. civ., lett. B). La Corte, inoltre,
non avrebbe fornito alcuna esauriente motivazione in
ordine alla statuizione adottata, non avendo attribuito
alcuna rilevanza alla circostanza che la liberalità in
favore del ricorrente era stata attuata dalla madre con
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rigettava il ricorso proposto da Napoli Pietro avverso
la cessione della propria posizione di socia della
cooperativa e del credito relativo alle somme dalla
stessa versate per l’assegnazione dell’appartamento e
del box, e che, pertanto, l’atto di assegnazione in
proprietà costituiva solo un negozio diretto a
fattispecie della liberalità, voluta e disposta prima
ancora del matrimonio. La Corte avrebbe poi del tutto
trascurato la circostanza che le somme quietanzate
nell’atto di trasferimento erano quelle già versate
alla cooperativa dalla madre dell’attuale ricorrente,
ed allo stesso poi accreditate dalla stessa
cooperativa, e che quelle successivamente occorse per
il pagamento delle rate dei mutui erano state da lui
versate.
La Corte di cassazione, decidendo sul motivo di
ricorso, aveva ritenuto che:
11 momento determinativo dell’acquisto della titolarità
dell’immobile da parte del singolo socio, onde
stabilire se il bene ricada, o meno, nella comunione
legale tra coniugi, è quello della stipula del
contratto di trasferimento del diritto dominicale
(contestuale alla convenzione di mutuo individuale),
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completare sotto un profilo meramente formale la
poiché solo con la conclusione di tale negozio il socio
acquista, irrevocabilmente, la proprietà dell’alloggio
(assumendo, nel contempo, la veste di mutuatario
dell’ente erogatore), mentre la semplice qualità di
socio, e la correlata “prenotazione”, in tale veste,
soltanto a diritti di credito nei confronti della
cooperativa, inidonei, come tali, a formare oggetto
della comuni(‘ incidens familiare_ Nella specie, detta
stipulazione avvenne in epoca successiva al matrimonio
tra l’attuale ricorrente e la intimata. Sicché
correttamente la Corte di merito ha ritenuto, sulla
base dell’orientamento della giurisprudenza di
legittimità, che il bene de quo facesse parte della
comunione, poiché non si trattava di bene personale,
intendendosi per tale quello di uso strettamente
personale o destinato all’esercizio della professione,
ovvero acquistato con danaro del coniuge purché
proveniente dalla vendita di beni personali (v. Cass.,
sent. n. 2954 del 2003): inferendone la conclusione
che, quand’anche l’appartamento fosse stato pagato con
danaro proveniente da attività propria del Napoli
circostanza che il giudice di secondo grado non ha
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dell’alloggio, si pongono come vicende riconducibili
ritenuto suffragata da elementi probatori
ciò non ne
avrebbe escluso la contitolarità in capo al coniugi.
Del pari corretta appare la ricostruzione operata
dalla Corte territoriale della natura giuridica della
fattispecie complessa che portò dal recesso della madre
stesso Napoli nel possesso dell’alloggio ed al
pagamento del prezzo all’atto della stipulazione
dell’atto pubblico di trasferimento: fattispecie il cui
inquadramento in una donazione indiretta come
auspicato dall’attuale ricorrente il giudice di secondo
grado ha escluso in base alla considerazione che prima
della stipula non era stato pagato il prezzo del bene,
versato in parte minima in contanti e, per la parte
restante, con accollo del mutuo, al cui pagamento
entrambi i coniugi contribuirono nel corso della loro
vita matrimoniale.
Con il ricorso oggi in esame il Napoli chiede la
revocazione della sentenza per errore di fatto
risultante dagli atti di causa (art. 395 n. 4 c.p.c.)
e ai sensi dell’art. 395 n. 2 c.p.c. ; l’errore di
fatto consisterebbe nel non avere preso atto che le
somme di denaro quietanzate nell’atto di trasferimento
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del Napoli dalla cooperativa alla immissione dello
erano quelle già prima versate dalla propria madre e
come tali idonee a configurare, in relazione
all’acquisto, una donazione indiretta e nel non avere
preso atto che le somme successivamente versate erano
state erogate dallo stesso ricorrente e neppure in
Motivi della decisione
Il motivo è manifestamente infondato in quanto la Corte
di Cassazione non ha trascurato il contributo in denaro
erogato dalla madre per l’acquisto, ma ne ha escluso la
rilevanza con una duplice argomentazione in diritto:
a) l’acquisto si era perfezionato solo in costanza
di matrimonio; mentre la semplice qualità di
socio, e la correlata “prenotazione”, in tale
veste, dell’alloggio, si pongono come vicende
riconducibili soltanto a diritti di credito nei
confronti della cooperativa,
b) non poteva ravvisarsi una donazione indiretta
dell’immobile da parte della madre perché, prima
della stipula del contratto, non era stato pagato
il prezzo del bene, versato solo in parte minima
in contanti e, per la parte restante, con accollo
del mutuo.
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minima parte dalla propria moglie.
I documenti richiamati in ricorso, riferiti alle
ricevute dei pagamenti delle utenze e degli oneri
condominiali sono, all’evidenza irrilevanti al fine di
provare la natura esclusivamente personale del bene in
contrasto con il regime della comunione familiare e con
costanza di matrimonio costituiscono oggetto della
comunione familiare.
Con riferimento all’ulteriore argomento secondo il
quale sarebbe stato provato documentalmente, senza che
la Corte se ne avvedesse, che tutte le rate del mutuo
erano state pagate dal Napoli e non dalla moglie di
questi, la Corte di Cassazione non ha affatto
trascurato tale circostanza, ma ha rilevato che era
inidonea a qualificare il bene, acquistato in costanza
di matrimonio, come un bene personale e non come un
bene appartenente alla comunione familiare perché per
bene personale si deve intendere
“quello di uso
strettamente personale o destinato all’esercizio della
professione, ovvero acquistato con danaro del coniuge
purché proveniente dalla vendita di beni personali …
quand’anche l’appartamento fosse stato pagato con
danaro proveniente da attività propria del Napoli
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la regola per la quale gli acquisti effettuati in
circostanza che il giudice di secondo grado non ha
ritenuto suffragata da elementi probatori -, ciò non ne
avrebbe escluso la con titolarità in capo al coniugi.”
Il fatto dedotto come errore revocatorio, dunque,
addirittura riguarda un punto controverso che aveva
dell’apprezzamento delle risultanze processuali, il che
esclude in radice la stessa configurabilità dell’errore
revocatorio (cfr. Cass n. 3289 del 1999; n. 14840 del
2000; n.15466 del 2003).
3. Con la memoria del 20/5/2013 il ricorrente si limita
a insistere nell’indimostrata tesi che anche le somme
successive all’acquisto sarebbero state versate dopo
l’acquisto del bene sarebbero frutto di donazione della
madre, richiamando e riproducendo documenti del tutto
irrilevanti in quanto non provano la donazione del
denaro, ma soltanto il versamento di assegni da parte
dello stesso ricorrente che, all’epoca si trovava già
in regime di comunione dei beni con la moglie e
pertanto l’ulteriore considerazione della Corte di
cassazione, secondo la quale il bene era ormai entrato
nel patrimonio comune costituiva un semplice argomento
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formato oggetto di discussione e di pronuncia a seguito
aggiuntivo, come tale irrilevante ai fini della
decisione.
Ulteriore motivo di inammissibilità è costituito dal
rilievo che il dedotto errore revocatorio non
attinente ad atti interni del giudizio di Cassazione,
relativi, in ipotesi, ad un errore di fatto dei giudici
del merito e, quindi, ad un errore di fatto di questi
ultimi; l’errore di fatto che può legittimare la
domanda di revocazione della sentenza di cassazione
deve riguardare gli atti “interni” al giudizio di
legittimità (ossia quelli che la Corte deve, e può,
esaminare direttamente con la propria indagine di fatto
all’interno dei motivi di ricorso) e deve incidere
unicamente sulla sentenza di cassazione, restando
escluso, per converso, che possano essere comunque
considerati “atti interni” al giudizio gli atti del
fascicolo di merito, ed in specie del giudizio di
appello, che non debbano essere esaminati direttamente
dalla Corte di Cassazione in quanto non investiti
direttamente dalla denuncia di un “error in procedendo”
che, nella specie, non era dedotto (cfr., ex multis,
Cass. 14/4/2010 n. 8907).
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ma ad atti prodotti nelle fasi del merito e pertanto
Non assume invece rilievo ai fini della revocazione per
errore di fatto delle sentenze della Corte di
Cassazione, l’errore riguardante un atto che, pur
facendo parte del fascicolo d’ufficio, sia stato già
esaminato dal giudice di merito, e riconsiderato solo
dell’esame delle censure prospettate con i motivi di
ricorso (Cass. 22/11/2006 n. 24856).
4. In conclusione il ricorso deve essere dichiarato
inammissibile; non v’è luogo a provvedere sulle spese
perché la parte intimata non ha svolto difese.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma, il 29/5/2013.
in via mediata dal giudice di legittimità in funzione