Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19434 del 20/07/2018


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Civile Ord. Sez. L Num. 19434 Anno 2018
Presidente: BRONZINI GIUSEPPE
Relatore: NEGRI DELLA TORRE PAOLO

ORDINANZA
sul ricorso 26291-2013 proposto da:
DE CUNTO CARLO C.F. DCNCRL62C11E998W, IANNINI FULVIO
C.F. NNNFLV54E25F839Q, elettivamente domiciliati in
ROMA, VIA CIPRO 77, presso lo studio dell’avvocato
GERARDO RUSSILLO, che li rappresenta e difende giusta
procura speciale per Notaio;
– ricorrenti contro

2018
739

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
dama1at
studio

rt ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

dell’avvocato

LUIGI

PIOR1LLO,

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

che

-Lo
la

Data pubblicazione: 20/07/2018

- controricorrente –

avverso

la

sentenza

n.

6145/2012

D’APPELLO di ROMA, depositata il

della

CORTE

15/11/2012 R.G.N

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//

5050/2007.

R.G. 26291/2013

Premesso
che con sentenza n. 6145/2012, depositata il 15 novembre 2012, la Corte di appello di
Roma, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto la domanda di
risarcimento danni da demansionamento e dequalificazione professionale proposta da
Carlo De Cunto e Fulvio Iannini, già assunti da Poste Italiane (rispettivamente nel 1986 e

data 14/1/1999, a mansioni di carattere gestionale, osservando come i ricorrenti non
avessero fornito idonea allegazione e prova del pregiudizio che assumevano di avere
subito in conseguenza della decisione aziendale;
– che nei confronti di detta sentenza hanno proposto ricorso i lavoratori con tre motivi,
cui la società ha resistito con controricorso;
– che i ricorrenti hanno inoltre depositato memoria a mezzo di nuovo difensore;

rilevato
che con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e/o falsa applicazione dell’art.
414 cod. proc. civ. in relazione agli artt. 1218, 1223, 1226, 2103 e 2697 cod. civ. per
non avere il giudice di appello riconosciuto il diritto dei lavoratori al risarcimento del
danno, quale conseguenza dell’inadempimento in cui era incorsa Poste Italiane S.p.A.,
nonostante l’avvenuta dimostrazione in giudizio di elementi (come le qualifiche tecniche e
le specializzazioni acquisite; il lungo periodo in cui le relative mansioni erano state svolte;
l’altrettanto lungo periodo di permanenza della condizione di demansionamento e di
dequalificazione), che avrebbero dovuto condurre a conclusioni di segno contrario, in una
corretta valutazione degli oneri incombenti sugli attori nella materia del risarcimento del
danno professionale e alla vita di relazione;
– che con il secondo e con il terzo motivo i ricorrenti deducono la violazione e/o falsa
applicazione degli artt. 112, 113, 115 e 437 cod. proc. civ., per violazione del principio di
corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ribadita anche in sede di udienza di discussione
avanti alla Corte territoriale;

osservato
che il primo motivo è infondato;
– che, infatti, la Corte di appello – richiamate le sintetiche affermazioni dei lavoratori
relativamente ai pregiudizi sofferti – ha escluso la sussistenza di elementi che potessero
far ritenere che l’illecita condotta di Poste Italiane avesse effettivamente arrecato danni
suscettibili di risarcimento (cfr. sentenza impugnata, p. 6);

1

nel 1982) per lo svolgimento di mansioni tecniche e poi assegnati, con provvedimento in

- che, in particolare, la Corte ha rilevato che, nel caso di specie, non solo i lavoratori “non
precisano quali siano le ripercussioni dello stato di frustrazione e di scoramento in cui
affermano di essere caduti, né in cosa consistano il danno alla professionalità ed i danni
morali, biologici e materiali asseritamente subiti per effetto dell’illecita condotta della
società, ma neppure forniscono elementi utili ad un accertamento in via presuntiva del
danno da risarcire”: osservazione che il giudice di appello fonda sulla riscontrata assenza,
nel ricorso, di allegazioni tanto “in ordine alla gravità della dequalificazione subita”, come
in ordine “alle aspettative di progressione professionale frustrate, alla modifica delle

ancora sentenza, p. 7);
– che in tale valutazione delle allegazioni dei ricorrenti, adeguatamente e congruamente
motivata sulla scorta di una analitica disamina degli elementi dai medesimi indicati, la
Corte di merito si è attenuta al consolidato orientamento di cui a Sez. U n. 6572/2006 e
alle numerose sentenze successive, le quali hanno ribadito che “in tema di risarcimento
del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il
riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico
o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e
non può prescindere da una specifica allegazione – nel ricorso introduttivo del giudizio dell’esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma
oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue
abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto
all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio
non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante
nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità
lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il
demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 cod. civ. del danno non
patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale” (cfr., fra altre
conformi, Cass. n. 19785/2010);
– che il secondo e il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente, risultano inammissibili,
in quanto non dedotti come error in procedendo (art. 360 n. 4), e comunque anch’essi
infondati, posto che il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all’art.
112 cod. proc. civ., implica il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene non
richiesto, o comunque di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella
domanda, e deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere
dispositivo delle parti, alteri alcuno degli elementi identificativi dell’azione

(petitum e

causa petendi), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da
quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella
domanda, ovvero, pur mantenendosi nei limiti della domanda, rilevi d’ufficio una
eccezione in senso stretto che può essere fatta valere solo dall’interessato, o ancora
2

proprie abitudini di vita, alle reazioni dell’ambiente lavorativo ed extralavorativo” (cfr.

qualora ponga a fondamento della decisione fatti o situazioni estranei alla materia del
contendere, introducendo nel giudizio un titolo nuovo e diverso da quello enunciato dalla
parte a sostegno della domanda; mentre non viola il principio di corrispondenza tra
chiesto e pronunciato il giudice che sorregga la decisione con argomentazioni diverse da
quelle addotte dalla parte, rendendo la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione e
ad una valutazione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti (cfr., fra le
molte conformi, Cass. n. 6891/2005);

conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;
– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo

p.q.m.

La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente
giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per
compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 1 5 % e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei
presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1
stesso articolo 13.

Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 20 febbraio 2018.

bis dello

ritenuto

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