Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19434 del 18/07/2019

Cassazione civile sez. VI, 18/07/2019, (ud. 21/03/2019, dep. 18/07/2019), n.19434

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25085/2017 R.G. proposto da

P.P., rappresentato e difeso dall’Avv. Salvatore

Cirvilleri;

– ricorrente –

contro

G.O., rappresentata e difesa dall’Avv. Antonio Borrometi,

con domicilio eletto in Roma, via Alberto Caroncini, n. 51, presso

lo studio dell’Avv. Corrado Scivoletto;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania, n. 1834/2017,

depositata il 12 ottobre 2017;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 marzo 2019

dal Consigliere Dott. Iannello Emilio.

Fatto

RILEVATO

che:

1. In accoglimento della domanda di G.O., che lamentava l’esistenza di immissioni intollerabili di rumore provenienti dall’attività di revisione auto svolta da P.P. in officina frontistante alla propria abitazione, il Tribunale di Ragusa, con sentenza del 27/10/2014, ne inibì a quest’ultimo l’esercizio, condannandolo anche al risarcimento dei danni liquidati in Euro 10.000.

Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Catania ha confermato tale decisione, regolando le spese secondo il criterio della soccombenza.

2. Il P. propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui resiste G.O., depositando controricorso.

3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

La controricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis c.p.c., comma 2.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso P.P. deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 844 c.c., per avere la Corte d’appello rigettato il motivo di gravame con il quale si lamentava la mancata adozione di rimedi tecnici idonei a ricondurre le immissioni entro i limiti della normale tollerabilità (c.d. inibitoria positiva) sull’assunto che era onere dell’appellante – nella specie non assolto – indicare quale in concreto questi avrebbero dovuto essere.

Rileva al riguardo che spetta al giudice di merito non solo accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità ma anche “individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa”.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 c.c. e art. 112 c.p.c. per avere la Corte di merito confermato la liquidazione equitativa del danno sebbene l’attrice non l’avesse mai richiesta, nemmeno in subordine, con ciò violando il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ancora ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., artt. 2043,2697 e 2727 c.c., per avere la Corte d’appello ritenuto la sussistenza di un danno risarcibile in re ipsa, pur in mancanza di una lesione alla salute e in assenza di alcuna prova dello stesso, anche solo presuntiva.

4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia infine violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione alla statuita condanna alle spese.

5. Va preliminarmente disattesa l’eccezione (opposta dalla controricorrente in memoria) di inammissibilità del ricorso in quanto confezionato in formato.pdf e sottoscritto con firma digitale e non con sottoscrizione autografa.

Occorre al riguardo rilevare che, come può ricavarsi dagli atti, il ricorso è originato in formato analogico (cartaceo) come anche la procura; solo quest’ultima è sottoscritta con firma autografa, mentre il primo non reca alcuna sottoscrizione; entrambi gli atti, scansionati e firmati digitalmente, sono stati quindi notificati, unitamente alla relazione di notifica a mezzo posta elettronica certificata (si ricava invero dal messaggio di posta elettronica certificata che ad esso è allegato un file denominato “ricorso per Cassazione.pdf.p7m”, quest’ultima estensione indicando per l’appunto l’avvenuta autenticazione con firma digitale); copia cartacea degli stessi, della relata di notifica, del messaggio di posta elettronica certificata e delle ricevute di accettazione e consegna risulta quindi depositata in cancelleria, corredata dalla attestazione di conformità sottoscritta con firma autografa prescritta dalla L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 9, commi 1-bis e 1-ter.

Tutto ciò conferisce al ricorso depositato in cancelleria prova della sua autenticità e provenienza, restando del tutto irrilevante che l’originale cartaceo del ricorso non recasse sottoscrizione autografa, la sua provenienza dal difensore munito di procura risultando comunque attestata sia dalla procura che ad esso accede (v. Cass. 23/03/2017, n. 7443;01/08/2013, n. 18491;03/10/2006, n. 21326; 12/04/2005, n. 7551;14/05/2003, n. 7485)sia dalla firma digitale apposta al documento notificato per via telematica.

Quanto poi al formato della firma digitale questa Corte ha già chiarito che in tema di processo telematico, a norma del D.Lgs. 16 aprile 2014, art. 12, di cui al D.M. n. 44 del 2011, art. 34 – Ministero della Giustizia -, in conformità agli standard previsti dal Regolamento UE n. 910 del 2014 ed alla relativa decisione di esecuzione n. 1506 del 2015, le firme digitali di tipo “CAdES” e di tipo “PAdES” sono entrambe ammesse e equivalenti, sia pure con le differenti estensioni “.p7m” e “.pdf”. Tale principio di equivalenza si applica anche alla validità ed efficacia della firma per autentica della procura speciale richiesta per il giudizio in cassazione, ai sensi dell’art. 83 c.p.c., comma 3, D.M. n. 44 del 2011, art. 18, comma 5, e del citato D. Dirig., art. 19-bis, commi 2 e 4, (Cass. Sez. U 27/04/2018, n. 10266; v. anche, succ. conf., Cass. 29/11/2018, n. 30927).

6. E’ fondato il primo motivo di ricorso.

Come questa Corte ha già avuto modo di precisare, con indirizzo a quanto consta incontrastato e al quale qui si intende dare continuità, nell’accogliere la domanda volta a far cessare le immissioni, il giudice del merito, pur avendo la facoltà di scegliere tra le diverse misure consentite dalla norma, ha tuttavia l’obbligo di precisare le ragioni della scelta dell’una o dell’altra e di indicare con sufficiente determinazione le misure in concreto adottate, soprattutto quando ritenga impossibile adottare misure meno invasive ed indispensabile condannare il convenuto alla cessazione delle immissioni e quindi anche dell’attività che ad esse dà luogo (Cass. 20/03/2012, n. 4394; v. anche Cass. 17/01/2011 n. 887).

Nel caso di specie la Corte d’appello, lungi dal fornire tale precisazione, in contrasto con il detto principio, ha ritenuto esulare dai propri obblighi decisori la verifica, attraverso apposito incarico al c.t.u., circa la fattibilità e utilità di accorgimenti alternativi, comunque non esclusa a priori, solo in ragione del fatto che nessuna indicazione è al riguardo stata fornita dallo stesso appellante, la quale però non è invece affatto necessaria a tal fine, costituendo detta verifica contenuto implicito e necessario del thema decidendum che, insieme all’accertamento della sussistenza delle denunciate immissioni, comprende anche quello relativo ai rimedi idonei a ricondurle alla normale tollerabilità, costituendo quello della cessazione dell’attività solo il più estremo tra essi, accessibile ove si valuti motivatamente l’inidoneità di altri meno invasivi.

Alla luce dell’esposto principio nessun rilievo assume la circostanza, rimarcata nel controricorso, che solo nella conclusionale si sarebbe prospettata la necessità di procedere all’accertamento della possibilità di misure alternative all’ordine di cessazione dell’attività, e che l’omissione di tale accertamento non sia stata poi nemmeno dedotta quale motivo d’appello.

Come s’è detto infatti, appartenendo l’individuazione della tipologia di misura all’àmbito delle modalità di attuazione dell’obbligo di non facere espresso nell’art. 844 c.c., il giudice d’appello bene poteva individuarle in una gradazione fra un’inibitoria totale delle immissioni tramite la cessazione dell’attività e un’inibitoria mediante l’imposizione di accorgimenti nello svolgimento dell’attività e nelle condizioni dell’immobile in cui essa veniva espletata.

E tanto anche in presenza di un appello contro una statuizione di primo grado che aveva scelto di inibire lo svolgimento dell’attività, atteso che l’impugnazione di tale statuizione implicava il riconoscimento al giudice dell’appello degli stessi poteri che avrebbe potuto esercitare quello di primo grado.

Sicchè la sollecitazione di parte in conclusionale è stata relativa ad un potere che il giudice di appello avrebbe potuto comunque esercitare.

7. E’ altresì fondato il terzo motivo, di rilievo logico preliminare rispetto al secondo.

La pronunzia impugnata conferma la decisione di primo grado, che aveva riconosciuto il danno in questione nella misura sopra indicata – in quanto derivante dalla lesione del diritto (non alla salute ma) al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, quali diritti costituzionalmente garantiti, nonchè tutelati dall’art. 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo – limitandosi a richiamare il principio rinvenibile in alcune pronunce di questa Corte, predicativo dell’esistenza di un danno in re ipsa ogniqualvolta venga accertata la non tollerabilità delle immissioni (Cass. 18/10/1978, n. 4693; 12/03/1987, n. 2580 Rv. 451713; 13/03/2007, n. 5844).

Siffatto principio, tralaticiamente ribadito ancora di recente (v. Cass. 12/02/2016, n. 2864), non è condiviso da più recente giurisprudenza, secondo la quale, anche nell’ipotesi considerata, il danno non può essere considerato in re ipsa ma deve essere provato secondo la regola generale dell’art. 2697 c.c.. Ne consegue che la relativa allegazione deve essere circostanziata e riferirsi a fatti specifici e precisi non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere generico, astratto, eventuale ed ipotetico (Cass. 09/11/2018, n. 28742; 29/01/2018, n. 2056).

A tale secondo indirizzo si intende qui dare continuità.

E’ invero ormai generalmente riconosciuta, almeno in via di principio, l’antiteticità del concetto di danno in re ipsa – il quale, anche letteralmente, postula la coincidenza del danno risarcibile con l’evento dannoso (e al quale pure, in passato, non va dimenticato, si era fatto ricorso, per giustificare la risarcibilità del danno biologico, attraverso l’elaborazione del concetto, sovrapponibile, di danno-evento: v. Corte Cost. n. 184 del 1986) – rispetto al sistema di responsabilità civile, fondato all’opposto sulla netta distinzione, ex artt. 1223 e 2056 c.c., tra fatto illecito, contrattuale o extracontrattuale, produttivo del danno e il danno stesso, da identificare nelle conseguenze pregiudizievoli di quel fatto, nella loro duplice possibile fenomenologia di “danno emergente” (danno “interno”, che incide sul patrimonio già esistente del soggetto) e di “lucro cessante” (che, di quel patrimonio, è proiezione dinamica ed esterna), come tale apprezzabile sia in ambito patrimoniale che non patrimoniale (v. Cass. 17/01/2018, n. 901, in motivazione, pag. 27): perdita-danno emergente-sofferenza interiore, da un lato, e, dall’altro, mancato guadagno-lucro cessante-danno alla persona nei suoi aspetti esteriori/relazionali.

In ambito di responsabilità aquiliana ciò è definitivamente chiarito dalle già richiamate sentenze c.d. di San Martino (Cass. Sez. U. 11/11/2008, nn. 26972-26975) che, proprio con riferimento al danno non patrimoniale, evidenziano come il sistema fornisce una struttura dell’illecito “articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l’evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza)”, essendo l’evento dannoso rappresentato dalla “lesione dell’interesse protetto”. Pertanto quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, “che deve essere allegato e provato”; non è accettabile la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, ovvero come danno-evento, e parimenti da disattendere è la tesi che colloca il danno appunto in re ipsa, perchè così “snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo”.

Può peraltro al riguardo rammentarsi che già Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576, di poco anteriore, in materia di responsabilità da trasfusione di sangue infetto, avvertiva che “il danno rileva… sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo da quella giuridica. Il danno oggetto dell’obbligazione risarcitoria aquiliana è… esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo (di cui è un elemento l’evento lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo, ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria”.

E’ ben vero che la prova del pregiudizio (sofferto a causa della lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane assolta conseguente alle immissioni intollerabili) può – e anzi normalmente non potrà che – essere fornita attraverso presunzioni (come nel caso considerato da Cass. 03/10/2018, n. 23754, ove si evidenzia che il complessivo materiale probatorio comprovava “un quadro sufficientemente chiaro e completo dei disagi sofferti dalla famiglia…, con i trasferimenti fuori di casa, le assenze a scuola dei figli e le altre circostanze sopravvenute in dipendenza della difficile vivibilità della casa”).

Ciò tuttavia è ben diverso dall’affermare che il danno da immissioni intollerabili sia da considerare in re ipsa.

Ed invero, una cosa è dire che il danno è presunto (con inversione dell’onere della prova, addossandosi al danneggiante quello di provare il contrario), altra è dire che può essere provato per presunzioni.

La “presunzione” del danno, in quest’ultima corretta prospettiva, è solo il risultato finale della valutazione da compiere ed equivale a dire “convincimento basato su ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ex art. 2729 c.c.”, il quale però non può mancare e deve poter essere verificabile. Nel senso usato invece secondo l’orientamento qui respinto, mancando sovente ogni riferimento a tale necessario passaggio logico intermedio, esso acquista il diverso significato di mera regola di giudizio che solleva (il “presunto” danneggiato) dall’onere di fornire elementi indiziari (diversi rispetto al mero fatto lesivo) che possano giustificare quel convincimento e pone piuttosto l’onere della prova contraria a carico del “presunto” danneggiante.

Mette conto al riguardo ancora soggiungere che, in mancanza di allegazione e prova di tali elementi indiziari, il riconoscimento di un danno risarcibile comporta la sovrapposizione tra danno-evento e danno-conseguenza, con il che si trasmoda dal “tradizionale danno compensativo/ripristinatorio” a quello del risarcimento con funzione punitiva in contrasto anche con l’ulteriore intervento nomofilattico di Cass. Sez. U. 05/07/2017, n. 16601, che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento ponendo però come limite l’espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost.. Ogni elemento sanzionatorio che venga a sostituire – in ultima analisi -quello risarcitorio non può, dunque, derivare da volontà del giudicante, bensì esige riserva di legge (v. in tal senso, sia pure in ambito di danno patrimoniale, ma alla stregua di considerazioni certamente valide anche, mutatis mutandis, nel presente contesto, Cass. 04/12/2018, n. 31233; 25/05/2018, n. 13071).

Deve sul punto in conclusione affermarsi il seguente principio di diritto:

il danno non patrimoniale subito in conseguenza di immissioni di rumore superiore alla normale tollerabilità non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno risarcibile con la lesione del diritto (nella specie quello al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane) ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, per il quale non vi è copertura normativa, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (sent. n. 26972 del 2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (sent. n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost..

Ne consegue che il danneggiato che ne chieda in giudizio il risarcimento è tenuto a provare di aver subito un effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa, potendosi a tal fine avvalersi anche di presunzioni gravi, precise e concordanti, sulla base però di elementi indiziari (da allegare e provare da parte del preteso danneggiato) diversi dal fatto in sè dell’esistenza di immissioni di rumore superiori alla normale tollerabilità.

La sentenza impugnata applica una regola di giudizio evidentemente difforme da tale principio e va pertanto, anche sul punto, cassata, restando assorbito l’esame dei restanti due motivi di ricorso.

8. La causa deve essere conseguentemente rinviata al giudice a quo, cui va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione; dichiara assorbiti i restanti motivi; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte d’appello di Catania in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 21 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2019

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