Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19430 del 17/09/2020

Cassazione civile sez. VI, 17/09/2020, (ud. 08/09/2020, dep. 17/09/2020), n.19430

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18081-2019 proposto da:

D.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE

38, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA PARAVANI, rappresentato

e difeso dall’avvocato VALENTINA NANULA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS) COMMISSIONE TERRITORIALE PER LA

PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI BRESCIA, in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 158/2019 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 28/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 08/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. IOFRIDA

GIULIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Brescia, con sentenza n. 158/2019, depositata in data 28/01/2019, ha confermato la decisione di primo grado, che aveva respinto la richiesta di D.A., cittadino del Senegal a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria ed umanitaria.

Il richiedente, di religione mussulmana, assumeva di non potere tornare nel Paese d’origine provando vergogna verso i famigliari della sua ragazza, di religione cristiana, che si era suicidata a causa della mancata approvazione dell’unione da parte dei famigliari stessi.

In particolare, i giudici d’appello hanno sostenuto che, riguardo alla doglianza mossa dall’appellante in ordine al mancato esame da parte del Tribunale della situazione esistente in Libia, paese nel quale il richiedente è transitato, prima di giungere in Italia, l’esame anche della situazione nel Paese di transito (ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, “ove occorra”) va effettuata soltanto laddove questo sia un Paese in cui il richiedente possa eventualmente essere trasferito in base alla normativa vigente, cosicchè nella specie la situazione in Libia non rilevava; quanto poi alla situazione del Senegal, Paese d’origine, detto paese, sulla base delle fonti ufficiali consultate (COI-EASO-2017), non era interessato da violenza indiscriminata o violazione dei diritti fondamentali; non ricorrevano neppure i presupposti per la protezione umanitaria, non rilevando da sola l’integrazione in Italia del richiedente.

Avverso la suddetta pronuncia, D.A. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che resiste con controricorso).

E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta, con il primo motivo, la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, non avendo la Corte territoriale attivato l’obbligo di cooperazione istruttoria in relazione alla situazione sia in Senegal, Paese d’origine del richiedente, di grave limitazione dei diritti civili, sia in Libia, Paese di transito; con il secondo motivo, si lamenta poi la violazione e falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, in relazione al diniego della protezione umanitaria.

2. La prima censura è inammissibile.

Come precisato sempre da questa Corte (Cass. 29358/2018), una volta assolto l’onere di allegazione, il dovere del giudice di cooperazione istruttoria, e quindi di acquisizione officiosa degli elementi istruttori necessari, è circoscritto alla verifica della situazione oggettiva del paese di origine e non alle individuali condizioni del soggetto richiedente, essendo evidente che, mentre il giudice è anche d’ufficio tenuto a verificare se nel paese di provenienza sia obiettivamente sussistente una situazione talmente grave da costituire ostacolo al rimpatrio del richiedente, egli non può essere chiamato – nè d’altronde avrebbe gli strumenti per farlo – a supplire a deficienze probatorie concernenti la situazione personale del richiedente medesimo, dovendo a tal riguardo soltanto effettuare la verifica di credibilità prevista nel suo complesso dal già citato D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

Ora, la censura attinente alla mancata attivazione dei poteri officiosi del giudice investito della domanda di protezione risulta essere assolutamente generica, in relazione al decisum (avendo il giudice merito attivato i poteri di acquisizione officiosa delle informative), e, per conseguenza, priva di decisività: non solo il ricorrente manca di indicare specificamente quali siano le informazioni e le fonti ufficiali delle stesse che, in concreto, avrebbero potuto determinare l’accoglimento del proprio ricorso (nè si fa menzione in ricorso di report aggiornati, con specificazione sulla loro allegazione in sede di merito), ma fa riferimento, sempre generico, alla necessità di acquisire informazioni sulla situazione in Senegal, in particolare, asseritamente caratterizzata da violazione dei diritti fondamentali.

Neppure nel ricorso si specifica quali siano stati i contenuti di allegazione curati in appello e diretti a sollecitare l’esercizio ufficioso, in materia di prova, dei poteri integrativi nel giudizio di impugnazione. Ora, questa Corte (Cass. 14282/2019, in motivazione) ha di recente chiarito che “in materia di protezione internazionale, quando se ne invochi l’applicazione nella forma sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) – là dove riferita all’esistenza di uno stato di diffusa ed indiscriminata violenza, di grado tale da attingere colui che richieda protezione per il solo fatto che egli faccia rientro nel suo paese di origine senza necessità di deduzione di un rischio individualizzato – gli oneri di allegazione gravanti sul richiedente che impugni in appello devono, in quella fase, conformarsi a natura e struttura del giudizio, destinato a veicolare attraverso i motivi la censura alla decisione di primo grado”, il tutto in correlazione alla specificità della critica difensiva in appello, imposta dall’art. 342 c.p.c., non essendo consentito al ricorrente, che della decisione di secondo grado censuri l’illegittimità, di far valere per la prima volta nel giudizio di cassazione deduzioni ed allegazioni mancate nella fase impugnatoria di merito.

Quanto, invece, al Paese di transito (la Libia), questa Corte (Cass. 31676/2018) ha chiarito che “nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese”.

Il ragionamento del Corte d’appello risulta quindi coerente con tale principio di diritto; il motivo risulta, in ogni caso, generico, essendosi il ricorrente limitato a lamentare un non approfondito esame della situazione in Libia.

Le doglianze sono altresì inammissibili perchè volte a sostituire le proprie valutazioni con quella, svolta, sulla base di informazioni tratte da fonti attuali, insindacabilmente (al di fuori dei limiti dell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5), mirando, in realtà, ad una rivalutazione in Senegal, sulla base di articoli e reports – così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass. 04/04/2017, n. 8758).

3. Anche il secondo motivo è inammissibile.

La pronuncia risulta del tutto conforme ai principi di diritto espressi da questa Corte, atteso che quanto al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, esso può essere valorizzato come presupposto della protezione umanitaria non come fattore esclusivo, bensì come circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale (Cass. n. 4455 del 2018), che, tuttavia, nel caso di specie è stata esclusa.

Ora, il ricorrente non ha dedotto alcunchè quanto alla specifica lesione della sfera dei propri diritti personalissimi, limitandosi ad un riferimento generico alla situazione di instabilità e violazione dei diritti umani del Senegal ed alla i gravi abusi commessi in danno dei rifugiati in Libia, paese di transito.

Il tema della generale violazione dei diritti umani nel Paese di provenienza costituisce senz’altro un necessario elemento da prendere in esame nella definizione della posizione del richiedente: tale elemento, tuttavia, deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale dell’istante, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 2007, art. 5, comma 6, che nel predisporre uno strumento duttile quale il permesso umanitario, demanda al giudice la verifica della sussistenza dei “seri motivi” attraverso un esame concreto ed effettivo di tutte le peculiarità rilevanti del singolo caso, quali, ad esempio, le ragioni che indussero lo straniero ad abbandonare il proprio Paese e le circostanze di vita che, anche in ragione della sua storia personale, egli si troverebbe a dover affrontare nel medesimo Paese, con onere in capo al medesimo quantomeno di allegare i suddetti fattori di vulnerabilità (cfr. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Inoltre, l’accertata – da parte del giudice di appello – situazione sostanzialmente stabile, dal punto di vista della violenza e degli scontri armati, nella regione di provenienza dell’istante, e che ha indotto la Corte territoriale a denegare la protezione sussidiaria, con statuizione non impugnata in questa sede dal ricorrente, non impedirebbe di certo al medesimo, stante la sua giovane età e le sue buone condizioni di salute, il reinserimento sociale e lavorativo nel suo Paese; nè in questa sede il ricorrente ha fornito elementi che consentano una diversa valutazione, essendosi limitato ad allegare di avere intrapreso un ” percorso di integrazione socio-lavorativo”. Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nella recente sentenza n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto, così facendo, “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria “.

4. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 8 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2020

 

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