Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1943 del 27/01/2011

Cassazione civile sez. lav., 27/01/2011, (ud. 15/12/2010, dep. 27/01/2011), n.1943

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 26442/2006 proposto da:

S.A., quale erede unico del sig. S.V., in

quanto il primo è succeduto a titolo universale nel patrimonio della

sig.ra S.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CRESCENZIO 20, presso lo studio dell’avvocato TRALICCI Gina, che lo

20 0 rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA N. 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati RICCIO

Alessandro, NICOLA VALENTE, CLEMENTINA PULLI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5030/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 30/09/2005 R.G.N. 7468/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

15/12/2010 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato TRIOLO VINCENZO per delega PULLI CLEMENTINA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL FATTO

1. S.A., quale unico erede di S.V., in quanto succeduto a S.F., coerede del suddetto S. V., ricorre per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 5030 del 2005 che rigettava l’impugnazione proposta dalla medesima avverso la sentenza del Tribunale di Roma n. 22792/2002 dell’8 novembre 2002.

L’odierno ricorrente, nel giudizio di primo grado, introdotto con ricorso del 30 ottobre 1996, aveva lamentato di aver percepito dall’INPS la prestazione pensionistica in ritardo (27 marzo 1987), rispetto alla decorrenza dal novembre 1983 riconosciuta dal medesimo istituto a seguito di domanda del 19 marzo 1985. Aveva, quindi, chiesto la condanna del convenuto al pagamento degli interessi legali e della rivalutazione monetaria sulle prestazioni corrisposte in ritardo.

2. Il Tribunale, accogliendo l’eccezione di prescrizione formulata dall’INPS, aveva rigettato la domanda.

3. La Corte di Appello, a sua volta, pur correggendo la motivazione (prescrizione decennale e non quinquennale), ha rigettato il gravame.

4. Lo S. formula due motivi di ricorso.

5. Resiste con controricorso l’INPS, depositando, altresì, memoria ex art. 378 c.p.c..

6. Attivatasi la procedura ex art. 375 c.p.c., con ordinanza n. 29 del 2008 la Corte rimetteva la causa alla pubblica udienza della Sezione Lavoro non ravvisandosi un’ipotesi ex art. 375 c.p.c., in riferimento alla questione della rilevanza della produzione in appello di documentazione idonea a dimostrare l’interruzione della prescrizione.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare, deve essere disatteso quanto dedotto dalla intimata INPS, nella memoria ex art. 378 c.p.c., in ordine al difetto di legittimazione a stare in giudizio di S.A..

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass., S.U, sentenza n. 226 del 2001: Cass, sentenza n. 13685 del 2006) incombe a chi ricorre per cassazione nel l’asserita qualità di erede della persona che fece parte del precedente giudizio di merito, l’onere di dare la prova – per mezzo delle produzioni documentali consentite dall’art. 372 c.p.c. – del decesso della parte originaria, nonchè della propria asserita qualità, e cioè dei presupposti che dovrebbero legittimare la successione nel processo e, quindi, la proposizione dell’impugnazione in proprio nome, con la conseguenza che in difetto di tale prova il ricorso deve essere dichiarato inammissibile per mancanza di prova della legittimazione ad impugnare (Cass. 9 settembre 1981 n. 5062; Cass. 3 gennaio 1994 n. 1; Cass. 9 febbraio 1994, n. 1345), mentre nessun rilievo assume la mancata contestazione di tale legittimazione ad opera della controparte, trattandosi di questione rilevabile di ufficio.

Nella specie il ricorrente ha prodotto due atti notarili della Repubblica Croata avente ad oggetto i decreti di successione (il primo relativo alla successione mortis causa di se medesimo, figlio, e di S.F., moglie, a S.V.; il secondo relativo alla successione mortis causa di sè medesimo, figlio, a S.F.), nei quali si da atto del decesso del de cuius con la conseguente apertura della successione e la delazione dell’eredità in favore dell’odierno ricorrente, assistiti da traduzione giurata, assolvendo, pertanto, al suddetto onere probatorio in ordine alla propria qualità di erede.

Tanto premesso può passarsi all’esame dei motivi di ricorso.

2. Con il primo motivo di ricorso è dedotto il vizio di violazione di legge, in riferimento agli artt. 324, 345, 115, 116, 414, 416 e 420 c.p.c., e all’art. 2943 c.c. e il vizio di motivazione.

Deduce il ricorrente di aver prodotto in appello lettera di messa in mora del 1994, e che la liquidazione, con mod. CI del 1987, dei ratei della pensione, già costituiva atto interruttivo della prescrizione anche per gli interessi, al quale andava ricondotta la suddetta lettera.

E’ stato formulato il seguente quesito di diritto: se, interrotto il decorso della prescrizione del diritto per gli accessori di legge di una causa previdenziale con domanda amministrativa del 1985 e, interrotto il termine prescrizionale con la lettera di messa in mora del 1994, e successivamente in data 1998 con la notifica del ricorso di primo grado, l’effetto interruttivo della prescrizione è permanente e decorre dal primo atto interruttivo con la conseguenza che sono dovuti al creditore gli accessori di legge dal 121 giorno dal primo atto interruttivo (domanda amministrativa della L. n. 533 del 1973, ex art. 7).

Il motivo non è fondato.

In via preliminare, occorre rilevare che, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte d’Appello, l’interruzione della prescrizione costituisce oggetto di una difesa e non di un’eccezione in senso stretto, cosicchè il giudice deve rilevare d’ufficio i fatti che l’hanno determinata, se essi risultano da prove acquisite al processo, e non è necessario che la parte difendendosi dall’eccezione di prescrizione opponga espressamente la prima intervenuta interruzione. Ciò perchè la prescrizione si basa non solo sul passaggio del tempo, ma sul mancato esercizio del diritto per un tempo determinato, cosicchè quando il diritto è stato in precedenza esercitato, l’eccezione di prescrizione non è fondata e il giudice, dovendo applicare il diritto al fatto, deve dichiararlo (Cass., Sezione terza, sentenza n. 3726 del 2000; Cass., Sezione terza, sentenza n. 18207 del 2010).

Tanto premesso, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il credito per rivalutazione monetaria ed interessi legali, dovuti sui ratei delle prestazioni assistenziali e previdenziali corrisposti in ritardo, si prescrive, come il credito relativo a qualunque somma non sia stata posta in riscossione in dieci anni a decorrere, per le somme calcolate sul primo rateo, dal cento ventunesimo giorno successivo alla presentazione della domanda amministrativa di prestazione e, per le somme calcolate con riferimento ai ratei successivi, dalla scadenza di ciascuno di essi, senza che possa attribuirsi al mero pagamento dei ratei arretrati l’effetto interruttivo di cui all’art. 2944 cod. civ., salvo che il “solvens” non abbia considerato parziale il pagamento stesso, con riserva di provvedere successivamente al versamento di somme ulteriori (cfr.

Cass., Sezione Lavoro, sentenza n. 7030 del 2003).

A ciò si aggiunga che l’interruzione della prescrizione può essere dedotta per la prima volta in sede di appello e il giudice del gravame, chiamato a decidere sulla questione di prescrizione ritualmente introdotta dal convenuto, può tener conto del fatto interruttivo, ancorchè non dedotto formalmente dall’attore come controeccezione, ma sulla base di allegazioni e di prove ritualmente acquisite o acquisibili al processo e, in ordine alle controversie assoggettate al rito del lavoro, sulla base dei poteri istruttori legittimamente esercitabili anche di ufficio ai sensi dell’art. 421 c.p.c., comma 2, dal giudice, tenuto, secondo tale norma all’accertamento della verità dei fatti rilevanti ai fini della decisione, dovendosi ritenere che, in detta ipotesi, rientri nei poteri del giudice di merito esaminare ogni profilo in ordine alla validità dell’atto interruttivo anche se non espressamente preso in considerazione nella precedente fase processuale, trattandosi di circostanze ormai validamente acquisite all’accertamento devoluto al giudice (Cass., Sezione Lavoro,sentenza n. 16542 del 2010; Cass., Sezione lavoro, sentenza n. 25233 del 2009).

La Corte d’appello, quindi, con motivazione esente dai vizi dedotti dal ricorrente e con motivazione congrua, ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, dal momento che non solo l’interruzione della prescrizione, ma il documento su cui tale difesa si basava veniva prodotto per la prima volta in appello, nè rilievo poteva assumere l’intervenuto pagamento dei ratei di pensione in ragione dei principi sopra richiamati.

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione o falsa applicazione delle norme di diritto con riguardo agli artt. 2697, 2938 c.c. e agli artt. 112 e 115 del c.p.c..

Espone la ricorrente che erroneamente la Corte d’Appello ha ritenuto tardiva la produzione della lettera di messa in mora del 1994, in quanto la produzione della stessa si era resa necessaria in detta fase processuale, in ragione dello sviluppo del processo, in quanto il giudice di primo grado aveva ritenuto privo di rilievo il modello CI 28.

Il quesito di diritto è stato articolato come segue: dica la Suprema Corte se costituisca produzione documentale e quindi inammissibile quella relativa ad un atto probatorio dell’avvenuta interruzione della prescrizione già oggetto di eccezion, suffragata documentalmente in primo grado.

Il motivo non è fondato per le ragioni già esposte con riguardo al motivo precedente, tenuto conto dei principi sopra richiamati in ordine ai limiti di nuove prove in appello. Ed infatti, come si è sopra detto nel rito del lavoro, l’omessa indicazione nell’alto introduttivo del giudizio di primo grado, ovvero nella memoria difensiva del convenuto, dei documenti, nonchè il loro mancato deposito unitamente a detti atti, anche se in questi espressamente indicati, determinano la decadenza dal diritto alla produzione dei documenti stessi, con impossibilità della sua reviviscenza in un successivo grado di giudizio, evidenziandosi, però, che, in materia, deve comunque tenersi conto del potere istruttorio d’ufficio del giudice di cui all’art. 421 c.p.c. (e, in appello, previsto dall’art. 437 c.p.c., comma 2), onde la suddetta preclusione (riguardante sia le prove costituende che quelle precostituite) può essere superata solo nel caso in cui il giudice del rito del lavoro, sulla base di un potere discrezionale, non valutabile in sede di legittimità, ritenga tali mezzi di prova, non indicati dalle parti tempestivamente, comunque ammissibili perchè rilevanti ed indispensabili ai fini della decisione nel giudizio di secondo grado (Cass. Sezione terza, sentenza n, 6188 del 2009).

4. Pertanto il ricorso deve essere rigettato.

5. Nulla per le spese ai sensi dell’art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo precedente all’entrata in vigore del D.L. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, nella L. 24 novembre 2003, n. 326.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2011

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