Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19420 del 23/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 23/09/2011, (ud. 06/07/2011, dep. 23/09/2011), n.19420

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15147/2007 proposto da:

L.A., P.D.C.E., A.F.,

C.F., Z.C., M.A., P.M.

E., F.R., P.D., tutti elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DI RIPETTA 142, presso lo studio

dell’avvocato FERRARI Giuseppe Franco, che li rappresenta e difende,

giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA OSPEDALIERE OSPEDALI RIUNITI DI BERGAMO, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIALE REGINA MARGHERITA 290, presso lo studio dell’avvocato CASELLATO

Adriano, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MANGIA

ROCCO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 275/2006 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 31/08/2006 R.G.N. 360/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/07/2011 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato ANNA MARIA PINTO per delega GIUSEPPE FRANCO FERRARI;

udito l’Avvocato ADRIANO CASELLATO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per: infondatezza del ricorso, quindi

rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 25.5.2006/31.8.2006 la Corte di appello di Brescia, in riforma della decisione resa dal tribunale di Bergamo il 28.4.2005, rigettava la domanda proposta da A.F. e dagli altri ricorrenti indicati in epigrafe per far dichiarare il loro diritto al compenso per le certificazioni relative agli infortuni sul lavoro rilasciate dall’1 gennaio 1994 agli infortunati ed ai tecnopatici ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 94, comma 3.

Osservava in sintesi la corte territoriale che l’attività certificativa era da ricondurre integralmente nell’ambito del rapporto di lavoro dipendente che intercorre fra le parti, essendo stata tale prestazione espletata in costanza dell’orario di lavoro e nell’espletamento di funzioni proprie del servizio sanitario nazionale e costituendo, pertanto, per gli stessi, quali medici addetti al pronto soccorso, attività dovuta, irriducibile a quella svolta autonomamente all’interno dell’ospedale oltre l’orario di servizio.

Per la cassazione della sentenza propongono ricorso A.F. e gli altri ricorrenti indicati in epigrafe con due motivi.

Resiste con controricorso l’Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, i ricorrenti lamentano violazione dell’art. 36 Cost. dell’art. 69 CCNL 1996 e art. 58 CCNL 1998-2001 del comparto dei dirigenti medici del SSN, dell’art. 1362 c.c., e segg., dell’art. 12 disp. gen., nonchè vizio di motivazione ed, al riguardo, prospettano che la corte territoriale, erroneamente interpretando la normativa contrattuale rilevante, aveva omesso di considerare che la disciplina collettiva remunerava l’attività certificativa per il sol fatto di ascriverla ad un particolare incarico dirigenziale, ed, in conseguenza, disancorandola da qualsiasi condizionamento relativo all’epoca di svolgimento dell’attività, sicchè l’attività sanitaria ordinaria diveniva semplice occasione per lo svolgimento di compiti, quali quelli certificativi, di “grado poziore” e tali da giustificare, anche alla luce dell’art. 36 Cost., una speciale remunerazione.

Con il secondo motivo, prospettando ancora violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64), i ricorrenti deducono che il giudice di appello, a fronte della diversa interpretazione cui era pervenuto il giudice di primo grado e della mancanza di chiarezza della norma contrattuale, era tenuto ad avviare la procedura per l’interpretazione autentica della disposizione negoziale.

2. Il primo motivo è infondato.

Il testo contrattuale oggetto di interpretazione (art. 58 del CCNL 1998-2001 dell’area della dirigenza medica e veterinaria) prevede testualmente, per quanto qui di interesse:

“1. L’attività di consulenza dei dirigenti medici e veterinari per lo svolgimento di compiti inerenti i fini istituzionali all’interno dell’azienda o ente costituisce particolare incarico dirigenziale ai sensi dell’art. 27, comma 1, lett. c..

2. Qualora l’attività di consulenza sia chiesta dall’azienda da soggetti terzi, essa costituisce una particolare forma di attività aziendale a pagamento, rientrante fra le ipotesi di cui all’art. 55, lett. c), da esercitarsi al di fuori dell’impegno di servizio. Essa viene attuata nei seguenti casi e con le modalità sottoindicate:

a) In servizi sanitari di altra azienda o ente del comparto, mediante apposita convenzione tra le istituzioni interessate che disciplini:

i limiti orari minimi e massimi dell’impegno comprensivi anche dei tempi di raggiungimento delle sedi di servizio, compatibili con l’articolazione dell’orario di lavoro;

il compenso e le modalità di svolgimento.

b) Presso istituzioni pubbliche non sanitarie o istituzioni socio- sanitarie senza scopo di lucro, mediante convenzioni apposite tra i soggetti istituzionali che attesti che l’attività non è in contrasto con le finalità e i compiti istituzionali del Servizio Sanitario Nazionale e disciplini:

la durata della convenzione;

la natura della prestazione, che non può configurare un rapporto di lavoro subordinato o occasionale;

i limiti di orario dell’impegno, compatibili con l’articolazione dell’orario di lavoro; l’entità del compenso;

motivazioni e fini della consulenza, al fine di accertarne la compatibilita con l’attività di istituto.

3. Il compenso per le attività di cui alle lettere a) e b) deve affluire all’azienda o ente di appartenenza che provvede ad attribuirne il 95% al dirigente avente diritto quale prestatore della consulenza con la retribuzione del mese successivo.

Tra le attività di cui al presente articolo rientra quella della certificazione medico legale resa all’azienda per conto dell’Istituto Nazionale degli Infortuni sul Lavoro (INAIL) a favore degli infortunati sul lavoro e tecnopatici, ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965. Per i compensi si applica il comma 3….” Prevede, per il resto, la norma contrattuale che le aziende ospedaliere disciplinino con proprio atto aziendale “i casi in cui l’assistito può chiedere all’azienda che la prestazione sia resa direttamente dal dirigente da lui scelto ed erogata al suo domicilio fuori dell’orario di servizio…” (comma 5); “i casi in cui le attività professionali sono richieste a pagamento da singoli utenti e svolte individualmente o in equipe, in strutture di altra azienda del Servizio Sanitario Nazionale o di altra struttura sanitaria non accreditata…” (comma 7); “l’attività professionale richiesta a pagamento da terzi all’azienda e svolta, fuori dell’orario di lavoro, sia all’interno che all’esterno delle strutture aziendali” (comma 9″), stabilendo, in tal ultimo caso, “che tale attività può, a richiesta del dirigente interessato, essere considerata attività libero- professionale intramuraria e sottoposta alla disciplina per tale attività ovvero considerata come obiettivo professionale incentivato con le specifiche risorse introitate, in conformità al presente contratto” (stesso comma) e, comunque, che, ove l’attività venga svolta in regime libero professionale, sia determinata “l’entità del compenso dovuto al dirigente che ha effettuato la prestazione, ove l’attività abbia luogo fuori dell’orario di lavoro e l’eventuale rimborso spese, ove l’attività abbia luogo nell’orario di lavoro ma fuori della struttura di appartenenza” (comma 10, lett. b).

Ciò premesso, va rammentato come, secondo l’orientamento consolidato di questa Suprema Corte, pur potendo il giudice di legittimità procedere alla diretta interpretazione dei contratti collettivi del lavoro pubblico, dalla natura negoziale degli stessi deriva che tale interpretazione deve essere compiuta secondo i criteri dettati dall’art. 1362 c.c., e segg. (cfr. ad es. SU n. 10374/2007) e come, alla stregua degli stessi, i criteri legali di interpretazione sono governati da un principio di gerarchia, in forza del quale i canoni strettamente interpretativi (artt. 1362 – 1365 c.c.) prevalgono su quelli interpretativi- integrativi (art. 1366 – 1371 c.c.) e ne escludono la concreta operatività, quando l’applicazione degli stretti canoni interpretativi risulti, da sola, sufficiente per rendere palese la comune intenzione delle parti stipulanti.

Nell’ambito, poi, dei canoni strettamente interpretativi, risulta prioritario il canone fondato sul significato letterale delle parole (art. 1362 c.c., comma 1), con la conseguenza che, quando quest’ultimo risulti sufficiente, l’operazione ermeneutica deve ritenersi utilmente conclusa, mentre, in caso contrario, il giudice può, in via sussidiaria e gradatamente, ricorrere agli altri, al fine di identificare, nel caso concreto, la comune intenzione delle parti contraenti (v. ex plurimis ad es Cass. n, 23273/2007; Cass. n. 20660/2005; Cass. n. 7548/2003).

E fermo restando che, in tema di interpretazione del contratto, è necessario procedere al coordinamento delle varie clausole contrattuali, prescritto dall’art. 1363 c.c., anche quando l’interpretazione possa essere compiuta sulla base del senso letterale delle parole, senza residui di incertezza, poichè l’espressione “senso letterale delle parole” deve intendersi come riferita all’intera formulazione letterale della dichiarazione negoziale in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già limitata ad una parte soltanto, qual è la singola clausola del contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e confrontare fra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v. ex multis Cass. n. 6641/2004; Cass. n. 7/2002; Cass. n. 2554/1980).

Sulla base di tal criteri, deve nel caso escludersi che la disciplina collettiva remunera l’attività certificativa svolta dai dirigenti medici del pronto soccorso per il sol fatto di ascriverla ad un particolare incarico dirigenziale, ed, in conseguenza, disancorandola da qualsiasi condizionamento relativo al tempo di svolgimento di tale attività (se durante o al di fuori dell’orario di servizio), sicchè l’attività sanitaria ordinaria diverrebbe semplice occasione per lo svolgimento di compiti, quali quelli certificativi svolti in favore dell’INAIL, qualitativamente differenziati (“di grado poziore”) rispetto agli altri compiti dei dirigenti medici.

Al riguardo, deve considerarsi come il testo della disposizione contrattuale (ad iniziare dalla sua intitolazione: “Altre attività a pagamento”) consenta, innanzi tutto, di ricondurre agevolmente tale attività certificativa, in quanto estranea alla attività di consulenza svolta dai dirigenti medici “per compiti inerenti i fini istituzionali, all’interno dell’azienda”, non ad un “particolare incarico dirigenziale” (comma 1), ma ad una “particolare forma di attività aziendale a pagamento” resa in favore di soggetti terzi (comma due) e, pertanto, qualificata dalla norma stessa per il fatto di “esercitarsi al di fuori dell’orario di servizio”.

Ed invero il fatto che il comma quarto detti una specifica previsione per la attività certificativa svolta in favore dell’INAIL non può interpretarsi come volontà delle parti contraenti di autonomizzare, quanto ai presupposti di applicazione, tale previsione, risultando chiaro il collegamento che la disposizione instaura fra l’attività di certificazione e le ulteriori attività prese dalla stessa in considerazione e fra le quali la prima (per come recita la lettera del contratto) ” rientra”.

Il che implica che, risultando tutte le attività a pagamento prese in considerazione dall’art. 58 qualificate dal fatto di esercitarsi al di fuor dell’impegno di servizio, deve ritenersi che tale requisito di qualificazione della fattispecie contrattuale si estenda anche a quella presa qui in esame, tant’è che le parti contraenti hanno previsto il medesimo criterio di remunerazione, che si giustifica proprio per lo svolgimento di una attività ulteriore rispetto a quella di servizio, ma in limiti ritenuti compatibili con l’esclusività del rapporto di impiego.

E non è casuale che l’opposta opzione interpretativa sostenuta dai ricorrenti, non potendo rinvenire una adeguata giustificazione sulla base di una interpretazione letterale e sistematica del testo, si affidi a valutazioni, quali la qualificazione dell’attività di certificazione quale “attività di grado poziore”, in considerazione della sua “particolare delicatezza”, che, non solo viene rimessa a giudizi di valore di ardua affidabilità (se si considera come le ulteriori attività sanitarie dei dirigenti medici del pronto soccorso non appaiono di per sè di minore importanza e responsabilità), ma, in ogni caso, non trova riscontro nei criteri ermeneutici legali, alla luce dei quali viene in rilievo la regolamentazione di un complesso essenzialmente omogeneo di attività.

Il fatto è che, in base ai principi che regolano la prestazione di lavoro, tutti i compiti svolti dal dipendente durante ed in costanza dell’attività di servizio, non possono che qualificarsi come doveroso adempimento della prestazione lavorativa, in quanto tale diretta al soddisfacimento dell’interesse organizzativo ed economico del datore di lavoro, senza che alcun rilievo possa assumere per il lavoratore la concreta finalizzazione dell’ attività svolta.

Ne deriva che il compenso pattuito, in sede collettiva, a remunerazione dell’attività lavorativa, ove contenuto entro i limiti temporali presi in considerazione dalla disciplina contrattuale e legale, deve ritenersi adeguato e proporzionato alla prestazione svolta, salvo che si dimostri che i compiti disimpegnati eccedano quelli normalmente esigibili dal dipendente, anche in considerazione del loro contenuto professionale, o che agli stessi sia attribuito un differenziato rilievo, pure in termini economici, dalle parti sociali.

Il che implica, nel caso, che, in assenza di una disciplina convenzionale che specifichi le modalità che consentano di scorporare l’attività certificati va dalla restante attività di servizio, dando rilievo al connesso debito orario dei dipendenti, o in assenza dell’individuazione di altro coerente meccanismo, analogo effetto non può prodursi in virtù dell’interpretazione della norma contrattuale, dal momento che la stessa prende in considerazione, in coerenza con i caratteri strutturali della prestazione di lavoro resa, tale attività solo in quanto svolta al di fuori dell’orario di servizio.

Deve, pertanto, affermarsi che l’art. 58, comma 4 del CCNL 1998-2001 dell’area della dirigenza medica e veterinaria (che prescrive che “tra le attività di cui al presente articolo rientra quella della certificazione medico legale resa dall’azienda per conto dell’Istituto Nazionale degli Infortuni sul Lavoro (INAIL) a favore degli infortunati sul lavoro e tecnopatici, ai sensi del D.P.R. n. 1124 del 1965. Per i compensi si applica il comma 3”) deve essere interpretato nel senso che la norma contempla solo l’attività esercitata al di fuori dell’impegno di servizio.

4. Infondato è anche il secondo motivo.

Trattasi, infatti, di censura di cui non si ha riferimento nel testo della sentenza e che, non essendosi documentato, in aderenza al canone della necessaria autosufficienza del ricorso, che sia stata proposta nei gradi di merito, deve apprezzarsi come nuova e, pertanto, in questa sede inammissibile.

In ogni caso, va rammentato come, per giurisprudenza costante di questa Suprema Corte, si deve escludere che, attraverso i mezzi di impugnazione, possa recuperarsi il procedimento di accertamento pregiudiziale del D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 64, che resta esperibile solo nel giudizio di primo grado, avuto riguardo alla necessità di adottare una interpretazione costituzionalmente orientata, alla luce dei principi di ragionevole ed equa durata del processo, che trova, peraltro, riscontro nella previsione della ricorribilità solo per cassazione delle sentenze interpretative e nel potere del giudice di primo grado di provvedere, con distinto provvedimento, all’ulteriore istruzione della causa (v. da ultimo Cass. n. 21796/2009).

5. Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Sussistono giusti motivi, in considerazione dell’alterno esito che il giudizio ha avuto nella fase di merito e della peculiarità della fattispecie oggetto di interpretazione, per compensare fra le parti le spese di causa.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2011

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