Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19410 del 08/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 08/07/2021, (ud. 27/04/2021, dep. 08/07/2021), n.19410

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3318/2015, proposto da:

P.R., rappresentato e difeso dall’avv. Bernardo

Cartoni, presso cui è elettivamente domiciliato, in Roma, in via

Eleonora d’Arborea n. 30;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato;

– controricorrente –

e:

Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Viterbo – ufficio

controlli, in persona del direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 5633/28/14 della Commissione Tributaria

Regionale del Lazio, pronunciata il 19 maggio 2014, depositata il 22

settembre 2014 e non notificata.

Udita la relazione svolta, nella camera di consiglio del 27 aprile

2021, dal consigliere Andreina Giudicepietro.

 

Fatto

RILEVATO

che:

P.R. ricorre con quattro motivi avverso l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza n. 5633/28/14 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio, pronunciata il 19 maggio 2014, depositata il 22 settembre 2014 e non notificata, che ha accolto l’appello dell’Ufficio, in controversia relativa all’impugnativa dell’avviso di accertamento per maggiore Irpef dell’anno di imposta 2006, determinata sulla base delle indagini finanziarie condotte nei confronti del contribuente;

con la sentenza impugnata, la C.t.r. riteneva che, in tema di prova conseguente ad accertamento tributario, gli elementi assunti a fonte di presunzione non dovevano essere necessariamente plurimi – benché l’art. 2729 c.c., comma 1, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 4, e il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, si esprimevano al plurale – potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un elemento unico, purché preciso e grave;

secondo la C.t.r., il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, prevedeva una presunzione legale, in base alla quale sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari andavano imputati a ricavi, a fronte della quale il contribuente, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, poteva fornire la prova contrarla anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque ad attenta verifica da parte del giudice, il quale era tenuto ad individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti;

il giudice di appello riteneva, quindi, che, non avendo il contribuente fornito la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni ovvero dell’estraneità delle stesse alla sua attività, con conseguente irrilevanza fiscale (Sez. 5, Sentenza n. 21303 del 18/09/2013, Rv. 628565), doveva presumersi che le movimentazioni di denaro (nella specie bancarie, risultanti dai dati acquisiti dall’Ufficio) erano conseguenza di operazioni imponibili;

secondo il giudice di appello, nel caso in esame, le affermazioni del contribuente non trovavano alcun dato oggettivo di riscontro attendibile: in particolare, la C.t.r. rilevava che il P. non aveva esibito alcun documento riferibile alle operazioni contestate, che le stesse prove testimoniali in realtà non affermavano l’identità delle banconote prelevate rispetto a quelle versate, né potevano, visto che l’importo prelevato (100.000,00 Euro complessivi) era diverso da quello versato (110.000,00 Euro), che delle presunte operazioni in titoli il contribuente non aveva documentato alcunché come del resto per gran parte delle operazioni concernenti le somme contestate;

la C.t.r. riteneva, quindi, che l’accertamento dell’amministrazione finanziaria non fosse stato smentito dalle dichiarazioni dei funzionari di banca, peraltro di dubbia attendibilità, e che fosse immotivato il riferimento ad altre numerose operazioni senza alcuna espressa valutazione analitica;

il giudice di appello riteneva, inoltre, che fosse irrilevante il richiamo alla presunta irregolarità della relata di notifica dell’avviso di accertamento e che il contraddittorio era stato pienamente accettato in sede precontenziosa, tanto che, alla luce delle deduzioni del contribuente, l’ufficio aveva eliminato la somma relativa al commercio tra privati delle monete;

a seguito del ricorso, l’Agenzia delle Entrare resiste con controricorso;

il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 27 aprile 2021, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e dell’art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197;

il ricorrente ha depositato memoria telematica.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo, il ricorrente censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 149 c.p.c. e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, nonché della L. 20 novembre 1982, n. 890, l’omessa o insufficiente motivazione su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5;

secondo il ricorrente, l’avviso di accertamento sarebbe stato insanabilmente nullo, in quanto la sua notifica sarebbe stata inesistente, perché mancante della data, delle generalità e della sottoscrizione del soggetto notificatore;

pertanto non poteva applicarsi al caso di specie la sanatoria prevista dall’art. 156 c.p.c., che si riferirebbe solo agli atti processuali;

il motivo è infondato e va rigettato;

in primo luogo deve rilevarsi l’evoluzione, in generale, in senso restrittivo, del concetto di inesistenza della notifica, come affermato, in tema di notificazione del ricorso per cassazione, dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 14916 del 2016, secondo cui l’inesistenza “e’ configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità”;

inoltre, la sanatoria dell’eventuale vizio di nullità della notifica, per raggiungimento dello scopo, riguardo anche ad un atto sostanziale e non processuale, come l’avviso di accertamento, costituisce un approdo consolidato della giurisprudenza di questa Corte, sin dalla sentenza delle Sezioni Unite, 5 ottobre 2004, n. 19854, che ha affermato che “la natura sostanziale e non processuale (né assimilabile a quella processuale) dell’avviso di accertamento tributario – che costituisce un atto amministrativo autoritativo attraverso il quale l’amministrazione enuncia le ragioni della pretesa tributarla – non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria. Pertanto, l’applicazione, per l’avviso di accertamento, in virtù del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, delle norme sulle notificazioni nel processo civile comporta, quale logica necessità, l’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie per quelle dettato, con la conseguenza che la proposizione del ricorso del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento per raggiungimento dello scopo dell’atto, ex art. 156 c.p.c.. Tuttavia, tale sanatoria può operare soltanto se il conseguimento dello scopo avvenga prima della scadenza del termine di decadenza – previsto dalle singole leggi d’imposta – per l’esercizio del potere di accertamento”;

in particolare, in tema di notifica dell’avviso di accertamento, è stato detto che l’invalidità della notifica “e’ sanata per raggiungimento dello scopo, ove detto vizio non abbia pregiudicato il diritto di difesa del contribuente, situazione che si realizza nell’ipotesi in cui il medesimo, in sede di ricorso giurisdizionale contro l’atto, ne abbia diffusamente contestato il contenuto” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 11043 del 09/05/2018);

né può parlarsi di invalidità dell’atto per l’inesistenza insanabile della notifica, in quanto “la notificazione dell’atto impositivo non è un requisito di validità, ma solo una condizione integrativa dell’efficacia dello stesso, sicché l’inesistenza della notifica non determina in via automatica anche quella dell’atto, se di questo il contribuente ha avuto piena conoscenza entro i termini decadenziali di legge” (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 2203 del 30/01/2018);

dunque, per il costante orientamento di questa Corte, “in tema di atti d’imposizione tributaria, la notificazione non è un requisito di giuridica esistenza e perfezionamento, ma una condizione integrativa d’efficacia, sicché la sua inesistenza o invalidità non determina in via automatica l’inesistenza dell’atto, quando ne risulti inequivocamente la piena conoscenza da parte del contribuente entro il termine di decadenza concesso per l’esercizio del potere all’Amministrazione finanziaria, su cui grava il relativo onere probatorio” (Cass. n. 21071 del 2018);

nel caso di specie, non è contestato che il contribuente abbia impugnato, anche nel merito, gli avvisi entro il termine di decadenza, sanando in tal modo ogni eventuale vizio di notifica;

con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

secondo il contribuente, la C.t.r. non avrebbe considerato la violazione da parte dell’ufficio dell’obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, che, sancito dal citato art. 12, comma 7, troverebbe riconoscimento costituzionale negli artt. 24 e 111 Cost.;

il motivo è infondato, in quanto tale obbligo sussiste soltanto per i tributi armonizzati, non anche per quelli non armonizzati, per i quali non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo vincolo generalizzato, sicché esso ricorre soltanto per le ipotesi per le quali risulti specificamente sancito;

secondo l’orientamento ormai consolidato di questa Corte, “in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, non sussiste per l’Amministrazione finanziaria alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 24823 del 09/12/2015);

la sentenza delle Sezioni Unite n. 24823/2015, seguita da molte altre conformi (ex multis, Cass. n. 11283 del 2016; Cass. n. 1969 del 2017; Cass. n. 6219 del 2018; Cass. n. 20036 del 2018; Cass. n. 27421 del 2018; Cass. n. 4752 del 2021), ha chiarito che, per i tributi armonizzati, l’Amministrazione finanziaria e’, invece, gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto, purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa;

tale orientamento appare conforme con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo cui la violazione del contraddittorio endoprocedimentale rende annullabile il provvedimento adottato dall’amministrazione finanziaria, solo se, in mancanza di tale irregolarità, il procedimento avrebbe portato ad un risultato diverso (Corte di Giustizia, 3 luglio 2014, cause C-129/13 e C-130-13, Kamino);

pertanto, nel caso di specie, la doglianza è infondata, in quanto l’accertamento non rientra nelle ipotesi per le quali è espressamente previsto uno specifico obbligo di contraddittorio preventivo in materia di imposte dirette, trattandosi di accertamento in tema di Irpef basato su indagini bancarie;

con il terzo motivo, il ricorrente deduce che, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 228 del 2014, sarebbe illegittima l’applicazione della presunzione di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2, nei confronti di un contribuente che non sia imprenditore;

con il quarto motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 1, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, degli artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonché la motivazione illogica e contraddittoria;

secondo il ricorrente, le dichiarazioni del cassiere della banca e del direttore della filiale (i quali avevano dichiarato che il P. aveva prelevato e riversato, nel giro di due mesi, l’importo di 95.000,00 Euro, ridepositando le banconote ancora con le fascette originali) consentivano di superare la presunzione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32;

inoltre, il ricorrente deduce che erano numerose le operazioni per le quali aveva fornito una giustificazione in un prospetto riepilogativo, di cui il giudice di appello non aveva tenuto conto;

i motivi, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono infondati e vanno rigettati;

e’ utile premettere che, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili e sono prive di rilevanza fiscale (Cass. n. 22179 del 2008, Cass. n. 18081 del 2010, Cass. n. 15857 del 2016, Cass. n. 4829 del 2015);

lo “ius superveniens”, seguito alla sentenza della Corte Costituzionale n. 288 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, limitatamente alle parole “o compensi”, ha ridefinito il perimetro applicativo della norma relativa ai prelevamenti, a seconda che riguardi un imprenditore ovvero un lavoratore autonomo;

ne consegue che deve darsi applicazione al principio secondo il quale in tema di accertamento, resta invariata la presunzione legale posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, con riferimento ai soli versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicché questi è onerato di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, mentre è venuta meno, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale relativamente ai prelevamenti sui conti correnti (Cass. nn. 16697 del 09/08/2016, 19029 del 27/09/2016);

nel caso in esame, l’accertamento dell’amministrazione è fondato sulle sole operazioni bancarie corrispondenti ai versamenti in contanti sui conti correnti del contribuente, secondo quanto chiarito dall’Agenzia delle entrate e non contestato dal ricorrente;

pertanto non si pone il problema del venir meno della presunzione relativamente ai prelevamenti, che non sono oggetto di contestazione;

né il giudice di appello è incorso nella denunziata violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, che, in caso di versamenti, pone a carico del contribuente, indipendentemente dalla qualità di imprenditore, l’onere della prova contraria, che deve essere sufficientemente analitica per poter superare la presunzione di legge;

non si ravvisa neanche la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., o il vizio di illogicità della motivazione, in quanto il giudice di merito ha dato atto delle prove addotte dal contribuente (in particolare, delle dichiarazioni dei funzionari di banca circa i versamenti in contanti, preceduti da prelievi per somme ingenti), ma ha ritenuto che non fossero decisive in favore del ricorrente, in quanto prelievi e versamenti non erano univocamente riferibili alle stesse somme, dato che non erano dello stesso importo ed erano stati effettuati in periodi diversi;

né questa Corte, in assenza dei vizi denunziati, può diversamente valutare le risultanze istruttorie, procedendo ad un nuovo apprezzamento del merito della controversia, precluso in sede di legittimità;

in particolare, nella nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, il sindacato di legittimità sulla motivazione è ridotto al “minimo costituzionale”, restando riservata al giudice del merito la valutazione dei fatti e l’apprezzamento delle risultanze istruttorie;

rimane alla Corte di cassazione il compito di verificare l’estrinseca correttezza del giudizio di fatto sotto il profilo della manifesta implausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze;

pertanto, la Corte può sindacare la manifesta fallacia o non verità delle premesse o l’intrinseca incongruità o contraddittorietà degli argomenti, onde ritenere inficiato il procedimento inferenziale ed il risultato cui esso è pervenuto, per escludere la corretta applicazione della norma entro cui è stata sussunta la fattispecie (v. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 16502 del 05/07/2017);

nel caso di specie, il giudice di appello non è incorso in un tale vizio di motivazione, in quanto ha valutato le dichiarazioni del cassiere della banca, pur ritenendole di dubbia attendibilità, ed ha ritenuto, logicamente argomentando, che non fosse decisiva la circostanza che le banconote fossero ancora racchiuse nelle fascette della banca, dato che i prelevamenti ed i versamenti erano avvenuti in periodi diversi e per importi differenti;

in conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato ed il ricorrente va condannato al pagamento, in favore dell’Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 27 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 8 luglio 2021

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