Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19407 del 03/08/2017


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Cassazione civile, sez. I, 03/08/2017, (ud. 16/11/2016, dep.03/08/2017),  n. 19407

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL’INTERNO, Elettivamente domiciliato in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12, negli uffici dell’Avvocatura Generale dello

Stato, che per legge lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

A.G.B.;

C.S.;

rappresentati e difesi dall’avv. Pietro Manzella ed elettivamente

domiciliati in Roma, presso la cancelleria della Corte di

cassazione;

– controricorrenti –

e contro

R.G.;

– intimato –

avverso il decreto della Corte di appello di Palermo n. 2740,

depositata in data 11 luglio 2014;

Sentita la relazione svolta all’udienza del 16 novembre 2016 dal

consigliere dott. Pietro Campanile;

Sentito per il ricorrente l’Avv. dello Stato T. Varrone;

Sentito per i controricorrenti l’avv. U. Ilardo, munito di delega;

Udite le richieste del Procuratore Generale, in persona del Sostituto

dott.ssa CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto depositato il 23 dicembre 2014 il Tribunale di Palermo dichiarava l’incandidabilità, ai sensi dell’art. 143, comma 11 T.U. Enti Locali, di T.G., C.S., R.G. e A.G.B., il primo Sindaco, il secondo Vice Sindaco, il terzo assessore e presidente del consiglio comunale e l’ultimo consigliere di maggioranza del Comune di Montelepre, sciolto con D.P.R. 13 marzo 2014.

La Corte di appello di Palermo, con il provvedimento indicato in epigrafe, in accoglimento dei reclami proposti dal C., dall’ A. e dal R., ha revocato la declaratoria di incandidabilità.

La corte distrettuale ha rilevato che non risultava dimostrato che i predetti avessero omesso doverose attività di controllo rispetto all’attività amministrativa svolta dal suddetto ente territoriale, nè che avessero posto in essere attività sintomatiche di un loro condizionamento da parte della criminalità organizzata. In particolare, quanto alla partecipazione del C. e del R. a una cena “politica” del 2008, considerata in primo grado “strumento di concertazione affaristica e di inquinamento dei rapporti con le istituzioni”, si è osservato che tale circostanza, in assenza di ulteriori elementi, non era idonea a consentire un giudizio di collusione con la criminalità organizzata, posto alla suddetta cena avevano partecipato circa duecento persone, fra le quali anche esponenti delle Forze dell’Ordine, come il Comandante della locale Stazione dei Carabinieri. Quanto all’ A., la sua affinità con la figlia di un soggetto indiziato di appartenere a un sodalizio mafioso è stato considerata priva di significativa rilevanza, al pari della circostanza che il suo padrino di battesimo – circa 40 anni prima – era stato un soggetto indicato come noto esponente mafioso; su tali aspetti, così come sulla non meglio precisata frequentazione con tale Ch., legato da rapporti di affinità con soggetti mafiosi, faceva premio l’assenza di prove circa condizionamenti sul ruolo – per altro di mero consigliere comunale – svolto dal predetto in ambito amministrativo.

Avverso tale decisione il Ministero dell’Interno, propone ricorso, affidato ad unico e articolato motivo, cui resistono con controricorso il C. e l’ A..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

L’Amministrazione deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 143, comma 11 TU Enti Locali, sostenendo che, in base all’orientamento prevalente della giurisprudenza del Consiglio di Stato, il provvedimento di scioglimento previsto dalla norma suddetta non è di tipo sanzionato-rio, ma preventivo, ragion per cui è sufficiente che gli elementi raccolti siano indicativi di un condizionamento dell’attività degli organi amministrativi e che tale condizionamento sia riconducibile all’influenza e all’ascendente esercitati da gruppi di criminalità organizzata.

Vengono quindi richiamate le circostanze esaminate nel provvedimento impugnato, sottolineandosi che le stesse assumono la valenza indicativa richiesta dalla norma in esame.

Il ricorso è infondato.

E’ ben vero che il provvedimento di declaratoria dell’incandidabilità è collegato a quello di scioglimento previsto dal richiamato art. 143, ma è altrettanto vero che l’incandidabilità dei singoli amministratori non è automatica, imponendosi, soprattutto perchè viene interessato un fondamentale aspetto di notevole rilevanza costituzionale, quale il diritto correlato all’elettorato passivo, che siano autonomamente e distintamente valutate le posizioni dei singoli soggetti interessati, allo scopo di evidenziare collusioni o condizionamenti, che, secondo l’insegnamento delle Sezioni unite di questa Corte, abbiano determinato, per colpa dell’amministratore, “una situazione di cattiva gestione della cosa pubblica, aperta alle ingerenze esterne e asservita alle pressioni inquinanti delle associazioni criminali operanti sul territorio” (Cass., 30 gennaio 2015, n. 1747).

A tale doverosa verifica non si è sottratta la corte panormita, che in primo luogo ha posto in evidenza il ruolo centrale, posto alla base del provvedimento di non candidabilità emesso nei suoi confronti, e non impugnato, svolto dal Sindaco del Comune di Montelepre, al quale erano in misura preponderante attribuite le circostanze evidenziate nella relazione prefettizia.

Gli aspetti concernenti le persone intimate, così come richiamati nel ricorso, sono stati compiutamente esaminati, ed il giudizio circa la loro complessiva labilità, per i fini che qui interessano, è stato espresso all’esito di un’attenta valutazione.

Di certo, la partecipazione a una cena elettorale, i cui commensali, fra i quali anche esponenti delle forze dell’ordine, erano circa duecento, non appare significativa di un personale coinvolgimento in rapporti con due o tre elementi – anch’essi commensali – sospettati di collegamenti con organizzazioni criminali, soprattutto ove si consideri che manca qualsiasi allegazione di un qualsiasi contatto, in detta occasione, fra gli stessi e gli odierni intimati. Analoghe considerazioni vanno svolte in merito a rapporti di affinità con parenti di elementi ritenuti appartenenti a esponenti mafiosi, in assenza di qualsiasi indicazione di un pur minimo legame con questi ultimi, per non dire di una cerimonia di battesimo celebrata circa quarant’anni prima, senza alcuna specificazione dei successivi rapporti fra i soggetti interessati. Vale bene richiamare, quanto al primo di detti profili, la giurisprudenza amministrativa, secondo cui i rapporti di parentela tra amministratori ed esponenti della criminalità non possono costituire ex se elemento indicativo di un collegamento, rilevante ai sensi del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 143,dovendo invece gli stessi essere rafforzati, onde pervenire ad un dato significativo e rispettoso del criterio di concretezza, con la riscontrata sussistenza di convivenza o di assidua frequentazione, e ciò ancor di più laddove non sia il parente stesso esponente della criminalità, bensì un suo congiunto o ulteriore parente da questi acquisito, in tal modo allentandosi, anche sul piano del rapporto di parentela, la rilevanza dell’elemento indicatore del collegamento con l’amministratore (Cons. Stato, 3 marzo 2016, n. 876).

Deve pertanto confermarsi che, ai fini della pronuncia di incandidabilità non si richiede necessariamente la prova di comportamenti idonei a determinare la responsabilità personale, anche penale, degli amministratori o ad evidenziare il loro specifico intento di assecondare gl’interessi della criminalità organizzata, risultando invece sufficiente l’acquisizione di elementi idonei a far presumere l’esistenza di collegamenti con quest’ultima o di forme di condizionamento tali da alterare il procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi o amministrativi del comune o della provincia, da compromettere il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione o il regolare funzionamento dei servizi pubblici, o da arrecare pregiudizio alla sicurezza pubblica. Deve tuttavia rimarcarsi che, come già affermato da questa Corte (Cass. 2 febbraio 2016, n. 1948), l’individuazione di un rapporto diretto o indiretto tra gli amministratori e la criminalità organizzata può aver luogo anche sulla base di circostanze caratterizzate da un grado di significatività e concludenza inferiore a quello che legittima l’esercizio dell’azione penale o l’adozione di misure di prevenzione nei confronti di soggetti indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, purchè si tratti di elementi concreti, univoci e rilevanti, tali da rendere tangibile la prospettiva d’illecite ingerenze nell’attività deliberativa e gestionale dell’ente pubblico (Cons. Stato, 6 marzo 2012, n. 1266; Cons. Stato, 10 marzo 2011, n. 1547).

Il giudizio espresso dalla Corte di appello in merito all’assenza di elementi, anche di natura colposa, nella condotta degli odierni intimati in ordine alla cattiva gestione della cosa pubblica, esposta – per fatto altrui – alle ingerenze indebite della criminalità organizzata, appare conforme ai principi sopra richiamati.

Le spese relative al presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, e si liquidano come in dispositivo.

PQM

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna l’amministrazione ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 16 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 3 agosto 2017

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