Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19406 del 23/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 23/09/2011, (ud. 14/06/2011, dep. 23/09/2011), n.19406

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. STILE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6420/2009 proposto da:

FALLIMENTO SAN GIUSEPPE S.P.A., in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ALFREDO FUSCO

104, presso lo studio dell’avvocato CAIAFA ANTONIO, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSSERIA 2,

presso lo studio dell’avvocato FARANDA RICCARDO, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 53 04/2 008 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 05/11/2008 r.g.n. 10041/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/06/2011 dal Consigliere Dott. PAOLO STILE;

udito l’Avvocato SOLDINI PATRIZIA per delega CAIAFA ANTONIO;

udito l’Avvocato FARANDA RICCARDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 27/9/07 il Tribunale di S. Maria C.V., in funzione di Giudice del Lavoro, accoglieva la domanda proposta da S. R. con ricorso depositato in data 14/12/04, intesa a far dichiarare la inefficacia del licenziamento intimatole con lettera del 15/3/02 dalla Curatela del Fallimento della S. Giuseppe spa, dichiarato con sentenza del locale Tribunale del (OMISSIS).

Rilevava il Tribunale che, contrariamente a quanto eccepito dal Fallimento convenuto, anche nell’ipotesi di licenziamento collettivo intimato dalla curatela di impresa fallita per totale cessazione dell’attività aziendale doveva essere rispettata la procedura prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, atteso il richiamo contenuto nell’art. 24, comma 2, della legge, mentre non aveva alcun “fondamento normativo” la distinzione tra parziale e totale cessazione dell’attività, invocata dal resistente al fine di inferirne l’applicabilità della procedura anzidetta solamente al caso in cui fosse possibile l’esercizio provvisorio, sia pure parziale, di alcune attività, poichè anche il disposto dell’art. 3, comma 3, richiamava il disposto dell’art. 24 sia quando non fosse possibile la continuazione dell’attività sia quando i livelli occupazionali potessero essere salvaguardati solo parzialmente.

Pertanto, essendo pacifica la sussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 24 per la configurabilità della fattispecie di recesso ivi disciplinata ed essendo pure pacifica la mancata attivazione della procedura disciplinata dall’art. 4, doveva dichiararsi la inefficacia del licenziamento intimato alla ricorrente in data 15/3/02 dalla Curatela del fallimento San Giuseppe spa.

Avverso tale pronuncia, depositata il 27/9/07, proponeva appello, con ricorso depositato il 7/12/07, il Fallimento soccombente.

Si costituiva la lavoratrice appellata, resistendo al gravame e ribadendo l’applicabilità della procedura prevista dalla L. n. 223 del 1991, art. 4, anche nell’ipotesi di licenziamento collettivo intimato da curatela fallimentare per completa cessazione dell’attività di impresa.

Con sentenza del 10 aprile-10 giugno 2008, l’adita Corte d’appello di Napoli, ritenuto – come il primo Giudice – che anche nel caso di cessazione dell’attività aziendale, doveva applicarsi la procedura richiamata dalla L. n. 223 del 1991, art. 24, nella specie non rispettata, confermava la decisione di primo grado.

Per la cassazione di tale pronuncia ricorre il Fallimento San Giuseppe S.p.A. con cinque motivi.

Resiste S.R. con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso il Fallimento San Giuseppe S.p.A., denunciando violazione e falsa interpretazione, rispettivamente, della L. n. 223 del 1991, artt. 4 e 5, in relazione a quanto previsto, espressamente, dalla L. n. 604 del 1966, art. 6, novellata ala L. n. 108 del 1990, e dall’art. 2697 c.c., e art. 414 c.p.c., lamenta che la Corte Territoriale abbia condiviso la pronunciata reiezione della eccezione di decadenza dalla impugnazione del licenziamento, sollevata dal Fallimento ricorrente ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 6, sul presupposto che essa sarebbe stata tardivamente proposta, senza, però, per nulla motivare in ordine alla circostanza della documentata dimostrazione della tardiva impugnazione che, in quanto fatto costitutivo del preteso diritto azionato, avrebbe dovuto indurre il Tribunale prima, ed i Giudici di appello poi, a ben diversa conclusione.

Il motivo è infondato.

Invero, correttamente, il Giudice a quo ha, in proposito, osservato che – come già evidenziato dal Tribunale – l’eccezione di decadenza L. n. 604 del 1966, ex art. 6, era stata sollevata dal Fallimento San Giuseppe S.p.A. soltanto nelle note conclusive del giudizio di primo grado e, quindi, tardivamente.

Trattandosi, infatti, di eccezione in senso stretto (cfr. Cass. n. 1788/1997), non rilevabile, quindi, d’ufficio, essa – come correttamente affermato dai Giudici di merito – doveva essere proposta, a pena di decadenza, ex art. 416 c.p.c., comma 3, nella memoria difensiva depositata almeno dieci giorni prima della udienza (cfr. Cass. nn. 12363/07 e 22230/06); pertanto, esattamente il Fallimento San Giuseppe è stato dichiarato decaduto dal potere di proporre siffatta eccezione. Nè rileva – è il caso di aggiungere – che agli atti vi sarebbe la prova della impugnazione del licenziamento altre il sessantesimo giorno, poichè la preclusione per il giudice di rilevare di ufficio tale circostanza rende inconsistente l’osservazione.

Va in proposito, meglio specificato, che, a norma dell’art. 2969 c.c., “La decadenza non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, salvo che, trattandosi di materia sottratta alla disponibilità delle parti, il giudice debba rilevare le cause d’improponibilità dell’azione”.

Orbene – come puntualizzato da questa Corte già in tempi remoti (v.

Cass. n. 5035/1981) -, i diritti indisponibili, in relazione ai quali l’art. 2969 c.c., richiede l’intervento d’ufficio del giudice, in eccezione al principio della domanda (art. 112 c.p.c.), per il rilievo dell’improponibilità dell’azione relativa per decadenza, sono quelli inderogabili in modo assoluto (diritti della personalità, diritti di famiglia) in ordine ai quali l’interesse all’immodificabilità delle situazioni relative consolidatesi per effetto della decadenza è di preminente interesse per l’ordinamento giuridico. Perciò, l’eccezione non può riguardare diritti parzialmente inderogabili tali in un determinato momento del loro sorgere o per un certo tempo della loro vita, ma non oltre tali momenti, per cui il rilievo del mancato esercizio della facoltà d’impugnazione relativa è affidato all’iniziativa della parte interessata. Nella specie, la decadenza dell’impugnazione del licenziamento del lavoratore L. n. 604 del 1966, ex art. 6, è palesemente legata adeguatamente all’interesse generalizzato dello Stato alla stabilizzazione dei rapporti pendenti entro un certo tempo (ratìo della prescrizione e della decadenza) e non all’ulteriore speciale interesse, in ragione della specifica natura del diritto, all’immodificabilità della situazione giuridica protetta dalla decadenza.

In sostanza, nel caso del diritto in questione, la valutazione dell’opportunità (e l’onere di eccepire tempestivamente la decadenza dell’azione di annullamento del licenziamento) è affidata al datore di lavoro e ciò perchè l’interesse relativo dello Stato si esaurisce nell’apprestare solamente il mezzo e non nell’attuare questo direttamente attraverso il giudice.

In questa prospettiva neppure può sostenersi che l’eccezione di decadenza poteva essere sollevata anche in corso di giudizio non essendo stata allegata dal lavoratore la “tempestività” del licenziamento, poichè l’assunto appare privo di consistenza giuridica, collocandosi la circostanza del rispetto del termine decadenziale di sessanta giorni, per quanto appena esposto, al di fuori del quadro dei fatti costitutivi della domanda.

Neanche può essere accolta la eccezione di incompetenza in favore della competenza funzionale del Tribunale Fallimentare, in relazione alla quale la ricorrente denuncia, con il secondo motivo, violazione della L. Fall., artt. 24, 51, 52 e 91 e ss., nel testo risultante al R.D. 16 marzo 1942, n. 267.

Più in dettaglio, la lavoratrice ha chiesto di “revocare il licenziamento….perchè inefficace, nullo e comunque illegittimo” formulando espressa riserva di agire per ottenere tutte le conseguenze economiche e risarcitone “dinanzi al Tribunale Fallimentare competente a conoscerle”.

Correttamente la Corte territoriale – adeguandosi all’orientamento consolidato di questa Corte – ha osservato che, in caso di sottoposizione della società datrice di lavoro a liquidazione coatta amministrativa o a fallimento, al fine di dirimere la questione attinente alla competenza dell’organo giudicante, deve distinguersi tra le domande del lavoratore che mirano a pronunce di mero accertamento oppure costitutive (quale, ad esempio, quella di annullamento del licenziamento e reintegrazione nel posto di lavoro) e domande dirette alla condanna al pagamento di somme (anche se accompagnate da domande di accertamento aventi funzione strumentale).

Per le prime, va riconosciuta la perdurante competenza del giudice del lavoro, mentre per le seconde opera la regola della improponibilità o improseguibilità per attrazione al foro fallimentare,per difetto temporaneo di giurisdizione (cfr. ex plurimis Cass. S.U. n. 141/2006 e, più di recente, Cass. n. 2411/2010).

L’operata riserva relativa al conseguimento delle pretese economiche derivanti dall’illegittimo licenziamento comporta l’infondatezza le sollevata eccezione di incompetenza.

Con il terzo motivo, la società ricorrente denunciando violazione della L. n. 223 del 1991, artt. 3, 4 e 24, rilevato che, nella specie, la questione fondamentale era di stabilire se fosse possibile l’applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 24, nel caso in cui all’impresa dichiarata fallita non fosse applicabile l’art. 3 della medesima legge, e ancora quando il Curatore non intendesse cessare l’attività ma questa fosse ormai cessata sostiene che la Corte d’Appello avrebbe dovuto dichiarare l’inefficacia dei licenziamenti sul presupposto che, essendo essi intervenuti successivamente al perfezionarsi della vicenda traslativa, difettava nel curatore la titolarità del rapporto in quanto appunto proseguiti tutti i rapporti senza soluzione di continuità con l’affitturario, pur se con l’obbligo del graduale riassorbimento.

Ribadisce, inoltre, richiamando varie sentenze di questa Corte e con riferimento al rapporto integrazione salariale e licenziamento collettivo, l’inapplicabilità della L. n. 223 del 1991, art. 24, nell’ipotesi in cui l’attività sia già cessata.

Con il quarto motivo di ricorso il Fallimento, denunciando violazione della L. 29 dicembre 1990, n. 2428, art. 47, attuativo della Direttiva comunitaria del 14 febbraio 1977 n. 187, in relazione all’art. 2112 c.c., lamenta che il Giudice di appello, pur dopo aver dato atto dell’esistenza di un contratto di affitto – in cui era stata prevista la continuazione, da parte dell’affittuaria dell’attività costituente l’oggetto della società fallita e di quelle connesse e conseguenti, con l’utilizzo degli impianti e delle attrezzature, nonchè l’utilizzo del personale che risultava alle dipendenze della società al momento della dichiarazione di fallimento – ha ritenuto che l’accordo consentiva la disapplicazione dell’art. 2112 c.c., affermando non essere condivisibili le deduzioni svolte dal fallimento in ordine alla automatica riespansione della disciplina di cui all’art. 2112 c.c., nell’ipotesi di violazione dell’accordo sindacale.

Il ragionamento, svolto sarebbe, tuttavia, errato, non potendosi dubitare del fatto che, laddove un accordo non fosse stato concluso, l’affittuaria sarebbe rimasta obbligata. espressamente, a proseguire tutti i rapporti e, in aggiunta, ad assolvere gli obblighi rimasti inadempiuti presso il cedente.

Con il quinto motivo, infine, la ricorrente, denunciando violazione dell’art. 2112 c.c., in relazione agli artt. 2094, 2118 e 2119 c.c., sostiene che la Corte territoriale, nonostante la formulazione della relativa eccezione con la costituzione in giudizio e, quindi, in sede di gravame, non avrebbe svolto alcuna considerazione sulla legittimazione o non del Curatore del fallimento a procedere al licenziamento, successivamente all’avvenuto perfezionamento della vicenda traslativa, che aveva determinato, di per sè, la continuità giuridica, del rapporto di lavoro con l’affittuario.

Le censure, che in quanto logicamente collegate vanno trattate congiuntamente, sono infondate.

Va, anzitutto, osservato, relativamente alla questione della effettiva titolarità del rapporto, che, secondo giurisprudenza consolidata di questa Corte, qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare, con la riproduzione della questione come formulata, in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. 6542/04 e sez. lav.

17971/06, 4391/2007).

Nella specie la questione in oggetto non risulta trattata in alcun modo nella sentenza impugnata ed il ricorrente, in violazione del richiamato principio di autosufficienza del ricorso, non ha indicato in quale atto del giudizio precedente ha dedotto la questione, riproducendone la formulazione.

Secondo giurisprudenza di questa Corte, invero, l’effettiva titolarità passiva del rapporto giuridico controverso, poichè attiene al merito della controversia, rientra nel potere dispositivo e nell’ onere deduttivo e probatorio della parte interessata. Il suo difetto, pertanto, non può essere rilevato di ufficio dal giudice, ma deve essere dedotto nei tempi e modi previsti per le eccezioni di parte e non può, quindi, essere sollevato per la prima volta in sede di legittimità (V. per tutte Cass. 23670/08), e la questione relativa alla legittimazione si distingue nettamente dall’accertamento in concreto che l’attore e il convenuto siano, dal lato attivo e passivo, effettivamente titolari del rapporto fatto valere in giudizio; tale ultima questione, infatti, concerne il merito della causa e deve formare oggetto di specifica censura in sede di impugnazione, non potendo essere sollevata per la prima volta in cassazione (per tutte Cfr. Cass. 13477/06).

Tanto premesso ritiene i Collegio di dover richiamare, ai fini di una corretta soluzione delle altre questioni sollevate dal ricorrente, la sentenza della Corte Costituzionale, la quale nel ritenere non fondata la questione di legittimità costituzionale della L. 23 luglio 1991, n. 223, art. 3, comma 4 bis, prima proposizione, aggiunto dal D.L. 20 maggio 1993, n. 148, art. 6, convertito in L. 19 luglio 1993, n. 236, nel testo risultante dalla modifica introdotta dal D.L. 23 ottobre 1996, n. 542, art. 7, convertito in L. 23 dicembre 1996, n. 649, sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., comma 1, e art. 11 Cost., ha rilevato che “Alla materia dei licenziamenti collettivi è dedicata la direttiva comunitaria 75/129/CEE (successivamente modificata ed integrata dalle direttive 95/56/CEE e 98/5/CE), la quale (all’art. 1) fornisce la definizione di licenziamento collettivo – ancorata a presupposti esclusivamente dimensionali (dell’azienda) e numerici (quale rapporto tra lavoratori licenziati e lavoratori occupati) – e delinea (ai successivi artt. 2 e 3) il campo di applicazione delle garanzie procedimentali; il quale è tendenzialmente generale perchè le ipotesi escluse sono tipizzate ed elencate (rapporti di lavoro a termine; rapporti di impiego pubblico; rapporti di lavoro degli equipaggi di navi marittime), onde risulta esaltata l’ampia portata delle garanzie così introdotte.

Alla direttiva è stata data attuazione nell’ordinamento interno con la L. 23 luglio 1991, n. 223, il cui art. 24 regola il licenziamento collettivo conseguente a riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, o cessazione dell’attività.

Coerente con siffatta lettura costituzionale della richiamata normativa è – a giudizio del Collegio – l’orientamento di questo giudice di legittimità, secondo cui in tema di licenziamenti collettivi, la disciplina prevista dalla L. 23 luglio 1991, n. 223, ha portata generale ed è obbligatoria anche nell’ipotesi in cui, nell’ambito di una procedura concorsuale, risulti impossibile la continuazione dell’attività aziendale e, nelle condizioni normativamente previste, si intenda procedere ai licenziamenti (v.

Cass. n. 8047/2004; Cass. 12645/2004, e, più di recente, Cass. n. 5033/2009, che si è occupata delle medesime questioni sollevate in questa sede ed alla quale il Collegio si riporta).

Nè, ai fini di cui trattasi – come puntualizzato da Cass. n. 5033/2009 – può non venire in considerazione che dopo il fallimento, l’azienda, nella sua unitarietà sopravvive, e, nel suo ambito, anche il rapporto di lavoro (art. 2119 c.c.); sopravvivenza che, non condizionata al materiale esercizio dell’attività imprenditoriale, sussiste anche nell’ipotesi in cui, a seguito della cessazione dell’attività aziendale, sia (pur contingentemente) impossibile la materiale reintegrazione nel posto di lavoro (Cass. 15 maggio 2002 n, 7075). Questa perdurante vigenza del rapporto (Cass. 5 giugno 1995 n. 5567), pur in uno stato di quiescenza (Cass. 3 novembre 1998 n. 11010), rende ipotizzabile la futura ripresa dell’attività lavorativa, per iniziativa del curatore o con successivo provvedimento del tribunale fallimentare (il quale per l’art. 90 della legge fallimentare può autorizzare l’esercizio provvisorio anche dopo il decreto di esecutività dello stato passivo: Cass. 21 novembre 1998 n. 11787) o con la cessione dell’azienda o con la ripresa dell’attività lavorativa da parte dello stesso datore a seguito di concordato.

Tali argomentazioni, pienamente condivise dal Collegio, danno conto della infondatezza delle tesi prospettate dal ricorso in esame e si attagliano pienamente anche all’ipotesi in cui, come nella specie, si assume la cessazione della attività per occupazione da parte delle maestranze dell’azienda, prima del licenziamento, persistendo, come sottolineato nella impugnata sentenza, i rapporti di lavoro e non essendo diversi, in tale ipotesi, i dati normativi di riferimento. Le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente Fallimento San Giuseppe S.p.A. alle spese di questo giudizio, in favore di S. R., liquidate in Euro 40,00 ltre Euro 2.500,00 per onorari ed oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 14 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2011

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