Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19404 del 18/07/2019

Cassazione civile sez. VI, 18/07/2019, (ud. 04/04/2019, dep. 18/07/2019), n.19404

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE TERZA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15478/2018 R.G. proposto da:

A.S.P., Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza, rappresentata e

difesa dall’Avv. Giovanni Lauricella, con domicilio eletto in Roma,

corso d’Italia, n. 102, presso lo studio dell’Avv. Raffaello Misasi;

– ricorrente –

contro

Comune di Mendicino e Confraternita di Misericordia;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro, n. 2007/2017,

depositata il 16 novembre 2017;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 4 aprile 2019

dal Consigliere Emilio Iannello.

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della decisione di primo grado, ha condannato l’Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza al pagamento, in favore della Confraternita di Misericordia dell’importo di Euro 9.706,13, oltre interessi, a titolo di risarcimento dei danni subiti dal mezzo di proprietà di quest’ultima in conseguenza del sinistro occorso in data 29/7/2007 causato dall’improvviso attraversamento della strada dallo stesso percorsa da parte di un cane randagio.

Ha infatti ritenuto che il sinistro fosse ascrivibile a colpa della Azienda sanitaria e non invece del Comune (all’inverso di quanto invece opinato dal primo giudice), per avere questa omesso di esercitare i poteri di vigilanza e controllo del fenomeno del randagismo ad essa attribuiti dalla L.R. Calabria 5 maggio 1990, n. 41, art. 12, comma 2, come sostituito dalla L.R. Calabria 3 marzo 2000, n. 4, art. 7.

2. Avverso tale decisione l’A.S.P. di Cosenza propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.

Gli intimati non svolgono difese nella presente sede.

3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380 – bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 – bis c.p.c., comma 2.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo l’Azienda ricorrente denuncia violazione della L.R. Calabria 19 marzo 2004, n. 11, art. 1, del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, art. 3 e del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 13, per avere la Corte d’appello attribuito ad essa odierna ricorrente i poteri di vigilanza e controllo del randagismo che invece – sostiene – sono ex lege di competenza esclusiva del Comune.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia altresì violazione della L.R. Calabria n. 41 del 1990, art. 2, lett. b) e art. 13.

Sostiene che, in base alle norme richiamate, ad essa Azienda sanitaria spetta, per il tramite del servizio veterinario, solo la cattura dei cani randagi previa segnalazione del Comune interessato e che pertanto la responsabilità dell’incidente è, nel caso di specie, addebitabile esclusivamente al Comune per avere questo omesso di effettuare, sul territorio di sua pertinenza, i controlli previsti ex lege al fine di programmare e pianificare, con la eventuale partecipazione degli enti competenti (tra i quali anche essa azienda sanitaria), le politiche contro il randagismo e di richiedere di conseguenza le misure e gli interventi idonei per l’accalappiamento dei cani.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce infine violazione dell’art. 2043 c.c., per avere la Corte d’appello affermato la responsabilità di essa azienda sanitaria omettendo di considerare che, come accertato dal primo giudice, nessun intervento di accalappiamento di cani randagi era stato richiesto dal Comune di Mendicino nei giorni dell’incidente.

4. I primi due motivi, congiuntamente esaminabili, sono infondati.

Come questa Corte ha in più occasioni affermato, la responsabilità per i danni causati dai cani randagi spetta esclusivamente, nel concorso degli altri presupposti, all’ente, o agli enti, cui è attribuito dalla legge (ed in particolare dalle singole leggi regionali attuative della legge quadro nazionale 14 agosto 1991, n. 281) il compito di prevenire il pericolo specifico per l’incolumità della popolazione connesso al randagismo e cioè il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi (v. ex aliis Cass. 18/05/2017, n. 12495; 26/06/2017, n. 15167).

Il principio non può che essere qui ribadito poichè l’attribuzione per legge ad uno o più determinati enti pubblici del compito della cattura e quindi della custodia degli animali vaganti o randagi (e cioè liberi e privi di proprietario) costituisce il fondamento della responsabilità per i danni eventualmente arrecati alla popolazione dagli animali suddetti, anche quanto ai profili civilistici conseguenti all’inosservanza di detti obblighi di cattura e custodia.

Poichè la legge quadro statale n. 281 del 1991 non indica direttamente a quale ente spetta il compito di cattura e custodia dei cani randagi, ma rimette alle Regioni la regolamentazione concreta della materia, occorre analizzare la normativa regionale, caso per caso.

In Calabria, come correttamente affermato nella sentenza impugnata, tale competenza risulta chiaramente attribuita al Servizio veterinario istituito, ai sensi della L.R. Calabria n. 41 del 1990, art. 3, come sostituito dalla L.R. n. 4 del 2000, art. 3, presso le unità sanitarie locali (ora aziende sanitarie).

La detta L.R. n. 41 del 1990, art. 12, comma 2, come sostituito dalla L.R. n. 4 del 2000, art. 7, dispone infatti: “i cani vaganti non tatuati devono essere catturati, con metodi indolori e non traumatizzanti, salvo i casi previsti dalla L.R. 5 maggio 1990, n. 41, art. 3, comma 2, dal Servizio veterinario competente per territorio, il quale tramite la sua Unità operativa adempie agli obblighi previsti dalla presente legge”.

Dalla chiara lettera di tale disposizione si evince dunque che la competenza in relazione alla cattura e custodia dei cani vaganti o randagi compete al Servizio veterinario dell’Azienda Sanitaria Provinciale.

5. Le censure svolte contro detta ricostruzione del quadro normativo si appalesano meramente assertive e prive di alcun fondamento.

Non può in particolare giovare il riferimento, nel secondo motivo, ai provvedimenti adottati dal Commissario ad acta al Piano di Rientro del disavanzo in sanità (decreti nn. 197 del 2012 e 32 del 2015) e in particolare alla previsione ivi contenuta secondo cui “le unità di accalappiamento cani sono alle dipendenze e coordinati dai servizi veterinari di sanità animale ed operano sotto le direttive del Direttore del servizio che programma l’attività sulla base delle esigenze territoriali e delle richieste dei sindaci del comprensorio”.

E’ agevole infatti rilevare che si tratta di provvedimenti successivi alla data del fatto lesivo e comunque di normazione secondaria che, come tali, non possono certamente assumere alcun rilievo, tantomeno limitativo, nella ricostruzione della disciplina ricavabile dalle norme di rango primario.

Inoltre il tenore letterale delle disposizioni, facendo comunque riferimento non solo alle richieste dei sindaci ma anche – e indipendentemente da queste – alle “esigenze territoriali” (suscettibili di autonoma rilevazione), non giustifica l’interpretazione proposta dalla ricorrente.

Tanto meno giova il riferimento ai precedenti giurisprudenziali richiamati, e segnatamente a quello di Cass. n. 12495 del 2017, atteso che, come detto, da questi si traggono esattamente gli stessi principi correttamente applicati nel caso de quo dalla sentenza impugnata, i quali tuttavia nei diversi casi esaminati dai detti arresti conducono ad esiti opposti per la semplice ragione che, riguardando essi fattispecie verificatesi in altre regioni, trovano applicazione le diverse regolamentazioni dettate dalle leggi regionali ivi vigenti.

6. E’ invece fondato il terzo motivo.

Come fondatamente evidenziato in memoria dalla ricorrente, questa Corte ha con recenti arresti (cfr. Cass. 11/12/2018, n. 31957; 28/06/2018, n. 17060; Cass. 14/05/2018, n. 11591; Cass. 31/07/2017, n. 18954) affermato il principio, cui questo Collegio intende dare continuità, secondo cui, ai fini dell’affermazione della responsabilità per i danni cagionati da un animale randagio, non basta che la normativa regionale individui l’ente cui è attribuito il compito di controllo e di gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi occorrendo anche che chi si assume danneggiato, in base alle regole generali, alleghi e dimostri il contenuto della condotta obbligatoria esigibile dall’ente e la riconducibilità dell’evento dannoso al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria, in base ai principi sulla causalità omissiva.

L’applicazione dell’art. 2043 c.c., in luogo di quella di cui all’art. 2052 c.c., quest’ultimo ritenuto invocabile nelle ipotesi in cui ricorre non tanto la proprietà (tant’è che in essa incorre anche il semplice utente) quanto il potere/dovere di custodia, ossia la concreta possibilità di vigilanza e controllo del comportamento degli animali (Cass. 25/11/2005, n. 24895), impone, infatti, che la responsabilità dell’ente si affermi solo previa individuazione del concreto comportamento colposo ad esso ascrivibile e cioè che gli siano imputabili condotte, a seconda dei casi, genericamente o specificamente colpose che abbiano reso possibile il verificarsi dell’evento dannoso.

Entro questo perimetro va verificato il tipo di comportamento esigibile volta per volta e in concreto dall’ente preposto dalla legge al controllo e alla gestione del fenomeno del randagismo, sì da dedurne la eventuale responsabilità sulla base dello scarto tra la condotta concreta e la condotta esigibile, quest’ultima individuata secondo i criteri della prevedibilità e della evitabilità e della mancata adozione di tutte le precauzioni idonee a mantenere entro l’alea normale il rischio connaturato al fenomeno del randagismo.

Premessa la prevedibilità dell’attraversamento della strada da parte di un animale randagio, essendo esso un evento puramente naturale, la esistenza di un obbligo in capo all’ente che ne è gravato di impedirne il verificarsi avrebbe dovuto essere valutata secondo criteri di ragionevole esigibilità, tenendo conto che per imputare a titolo di colpa un evento dannoso non basta che esso sia prevedibile, ma occorre anche che esso sia evitabile in quel determinato momento ed in quella particolare situazione con uno sforzo proporzionato alle capacità dell’agente.

Ebbene, pur considerando che nel caso di specie veniva chiesto alla P.A. di esercitare un controllo sugli animali randagi e, quindi, pur potendosi in astratto imputare alla stessa una colpa per l’evento dannoso occorso, quel che il giudice di merito non ha accertato – e dovrà accertare in sede di rinvio – è se, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto, come allegate e provate dall’attore in responsabilità, esso fosse anche evitabile con uno sforzo ragionevole (tanto più tenuto conto che, secondo quanto esposto in sentenza, l’impatto tra il Fiat Ducato della Confraternita di Misericordia ed il cane randagio avvenne fuori dal centro abitato: strada che da Mendicino conduce a Cerisano, nei pressi di Contrada Tivolille).

In tale corretta prospettiva, occorrerebbe dunque -esemplificando – che sia acquisita prova dell’esistenza di precedenti segnalazioni della presenza abituale di animali randagi nel luogo dell’incidente, lontano dalle vie cittadine, ma rientrante nel territorio di competenza dell’ente preposto, ovvero che vi fossero state nella zona richieste d’intervento dei servizi di cattura e di ricovero, demandati alla ASL e al Comune, rimaste inevase.

“Tanto nell’ottica – come è stato efficacemente rimarcato – che, se bastasse, per invocarne la responsabilità, l’individuazione dell’ente preposto alla cattura dei randagi ed alta custodia degli stessi, la fattispecie cesserebbe di essere regolata dall’art. 2043 c.c. e finirebbe per essere del tutto disancorata dalla colpa, rendendo la responsabilità dell’ente una responsabilità sottoposta a principi analoghi se non addirittura più rigorosi di quelli previsti per le ipotesi di responsabilità oggettiva da custodia di cui agli artt. 2051,2052 e 2053 c.c.”.

7. In accoglimento dunque del terzo motivo di ricorso, la sentenza deve essere pertanto cassata, con rinvio al giudice a quo, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il terzo motivo di ricorso; rigetta i primi due; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 4 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2019

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