Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19384 del 30/09/2016


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Cassazione civile sez. III, 30/09/2016, (ud. 01/03/2016, dep. 30/09/2016), n.19384

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMBROSIO Annamaria – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 677/2014 proposto da:

L.J. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CIRCONVALLAZIONE TRIONFALE 1, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO

GIANGIACOMO, rappresentato e difeso dall’avvocato L.J.

difensore di sè medesimo;

– ricorrente-

contro

PRESIDENZA CONSIGLIO MINISTRI;

– intimata –

Nonchè da:

PRESIDENZA CONSIGLIO MINISTRI in persona del Presidente del Consiglio

p.t., domiciliata ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui è rappresentata e difesa

per legge;

– ricorrente incidentale –

contro

L.J. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 4913/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/09/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/03/2016 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito l’Avvocato L.J.;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Roma, con sentenza 20 settembre 2013 n. 4913, dichiarava la inammissibilità dell’autonomo appello proposto tardivamente ex art. 333 c.p.c., da L.J., ed in parziale accoglimento dell’appello principale proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, riformando parzialmente la decisione di prime cure che aveva accertato la responsabilità della Stato italiano per il danno cagionato al predetto avvocato di nazionalità tedesca, impedendogli di svolgere la professione in Italia e rifiutandone la iscrizione all’albo professionale subordinandola all’espletamento di una prova attitudinale in violazione della direttiva 89/48/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1988 (relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni), riduceva l’ammontare del danno risarcibile al solo danno patrimoniale per mancato esercizio della professione nel quinquennio 1994-1999, liquidato in complessivi Euro 75.000,00 in base al fatturato medio rilevato dal CTU nel periodo lavorativo 1999-2004, decurtato dei costi forfetariamente determinati, ed attualizzato al tempo della pronuncia. Non riconosceva invece il danno non patrimoniale (inteso come danno alla reputazione) per difetto del nesso causale, dovendo imputarsi allo stesso avvocato la condotta violativa delle norme di divieto di esercizio della professione, al tempo vigenti, che aveva dato luogo a procedimenti penali e disciplinari. Accoglieva la domanda della Presidenza del Consiglio di condanna del danneggiato alla restituzione del maggior importo corrisposto, a titolo risarcitorio, in esecuzione della sentenza di primo grado, compensando per metà le spese del grado.

Propone ricorso per la cassazione della predetta sentenza L.J. deducendo sette motivi ai quali resiste con controricorso e ricorso incidentale affidato a tre motivi la Presidenza.

Il ricorrente ha presentato controricorso al ricorso incidentale e memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

A-Esame dei motivi del ricorso principale.

p..1 Preliminare è l’esame del settimo motivo (violazione art. 111 Cost., art. 153 c.p.c., comma 2, artt. 327 e 333 c.p.c., art. 6 CEDU) con il quale viene impugnata la statuizione di inammissibilità dell’appello proposto dal L. avverso la sentenza definitiva del Tribunale Ordinario di Roma n. 2248/2007.

1.2 La Corte d’appello, premesso che, successivamente alla impugnazione proposta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con atto di appello principale notificato in data 25.2.2008, il L. si era costituito in quel giudizio, con comparsa depositata in data 5.6.2008, senza proporre impugnazione incidentale, ma aveva notificato autonomo atto di appello in data 17.12.2008 avverso la medesima sentenza, deducendo la erroneità della quantificazione del danno liquidato dal primo giudice in misura inferiore a quella che era stata richiesta, ha ritenuto inammissibile l’appello autonomo successivamente proposto in quanto:

– la impugnazione della sentenza risultava notificata oltre il termine annuale di decadenza ex art. 327 c.p.c..

– la parte era decaduta dalla impugnazione incidentale, non avendola proposta nello stesso processo ex art. 333 c.p.c..

– la impugnazione autonoma non poteva essere trattata, distintamente, alla stregua di un appello incidentale tardivo ex art. 334 c.p.c., non essendo stata proposta nelle forme e nei tempi prescritti dalla legge e dunque non potendo realizzare la esigenza del “simultaneus processus”.

– la istanza di rimessione in termine proposta dal L. sul presupposto del mancato rinvenimento del fascicolo di primo grado al momento della costituzione in grado di appello, era infondata essendo in grado la parte di proporre tempestivo appello incidentale sulla base degli atti in suo possesso (sentenza di primo grado ed appello principale).

1.3 Tali “rationes decidendi” vengono criticate dal ricorrente sostenendo che il fascicolo di ufficio del giudizio di primo grado ed il proprio fascicolo di parte, contenenti anche la relazione del c.t.u. e del c.t.p., risultavano andati smarriti presso la Cancelleria della Corte d’appello; il “fascicolo di parte” fu rinvenuto solo successivamente dallo stesso ricorrente, recatosi presso la Cancelleria del Tribunale, in data 13.10.2008; mentre il “fascicolo di ufficio” del giudizio di primo grado (sul quale risultava apposto un timbro ricezione della Cancelleria della CdA in data 4.8.2008: cfr. ricorso pag. 10) fu rinvenuto soltanto il 15.9.2010, quindi entrambi successivamente al 25.6.2008 data della prima udienza di trattazione in grado di appello. Il temporaneo smarrimento dei fascicoli aveva determinato la lesione del diritto di difesa dell’appellato che non aveva potuto predispone tempestivamente i propri atti difensivi ed in particolare l’appello incidentale, proposto successivamente con impugnazione autonoma (iscritta al distinto RG 11411/2008 della Cancelleria della Corte d’appello di Roma) notificata il 17.12.2008. Ne segue, secondo il ricorrente, che l’impedita difesa non consentiva di far decorrere i termini di impugnazione (per la proposizione dell’appello autonomo), nè la costituzione nel giudizio introdotto con l’appello principale della Presidenza del Consiglio dei Ministri determinava acquiescenza alla sentenza di primo grado, e dunque doveva considerarsi tempestiva la impugnazione volta a si censurare la liquidazione del “quantum” risarcitorio determinato dal Giudice di primo grado in complessivi Euro 500.000,00 ed a richiedere una diversa liquidazione in misura non inferiore ad Euro 1.500.000,00 (cfr. ricorso principale pag. 11).

1.4 Il motivo è infondato.

1.5 Indipendentemente dall’errore commesso dalla Corte territoriale laddove ha affermato che l’appello autonomamente proposto dal L. era stato notificato oltre il termine lungo di impugnazione ex art. 327 c.p.c., (l’appello autonomo risulta infatti notificato in data 17.12.2008, dunque utilmente ai fini dell’art. 327 c.p.c., tenuto conto che la sentenza di prime cure è stata pubblicata in data 19.11.2007 e quindi venendo a scadere il termine “lungo” il 4.1.2009, tenuto conto del periodo feriale di sospensione dei termini ex L. n. 742 del 1969), la “ratio decidendi” che sorregge la pronuncia di inammissibilità è articolata sulla inosservanza del “principio di unità della decisione” che impone, a pena di decadenza (art. 333 c.p.c.) il “simultaneus processus” di tutte le impugnazioni proposte avverso la medesima sentenza, principio che trova specificazione nelle tassative modalità di proposizione della impugnazione incidentale stabilite nella disciplina dei singoli mezzi di impugnazione (nel caso di specie: art. 343 c.p.c., comma 1).

1.6 Il medesimo principio è sotteso anche dall’art. 335 c.p.c., che costituisce norma di chiusura del sistema delle impugnazioni e prescrive la riunione in solo processo di tutte le cause relative a separate impugnazioni proposte avverso la medesima sentenza, venendo a coordinarsi le predette disposizioni processuali in relazione al momento in cui la parte è venuta a conoscenza della impugnazione proposta da altre parti.

La decadenza comminata dall’art. 333 c.p.c., si riferisce, infatti, espressamente alle parti “alle quali sono state fatte le notificazioni previste negli articoli precedenti” (idest che hanno ricevuto la notifica della impugnazione principale), con la conseguenza che:

– la parte che ha ricevuto la notifica della impugnazione proposta da altre parti deve, a pena di decadenza, proporre impugnazione incidentale, nel medesimo processo, nelle forme e nei termini espressamente previsti dalla disciplina del mezzo di impugnazione (in grado di appello ex art. 343 c.p.c., comma 1, che rinvia all’art. 167 c.p.c.: mediante comparsa di risposta da depositare in Cancelleria nel termine di venti giorni prima della udienza di trattazione. Se invece l’interesse ad impugnare insorge a seguito di notifica di appello proposto da parte diversa dell’appellante principale, la impugnazione incidentale si propone nella stessa forma alla “prima udienza successiva”): occorre tuttavia dare conto dalle più recente giurisprudenza di questa Corte che, privilegiando il principio di libertà delle forme degli atti processuali (art. 121 c.p.c., e art. 156 c.p.c., comma 1), ritiene che l’appello incidentale possa essere proposto anche con autonoma impugnazione, anzichè mediante deposito della comparsa di costituzione e risposta, ma sempre che la notifica dell’atto intervenga entro il medesimo termine perentorio previsto dall’art. 343 c.p.c., comma 1, (venti giorni prima della udienza di trattazione: cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 16107 del 26/06/2013), in tal caso, in virtù del principio di conservazione degli effetti degli atti giuridici, “convertendosi” l’atto di impugnazione proposto in forma autonoma principale, in appello incidentale.

1.7 La parte che, invece, ha proposto autonoma impugnazione, senza aver ancora ricevuto la notifica della impugnazione che era stata precedentemente proposta da altre parti (ipotesi definita in dottrina come pluralità di impugnazioni separate “legittime”), costituendosi nel giudizio instaurato per primo, è tenuta soltanto a rendere noto – al Giudice della causa introdotta con la impugnazione cronologicamente anteriore – la esistenza del distinto giudizio (concernente la propria impugnazione, la cui notifica è cronologicamente posteriore) onde consentire l’applicazione dell’art. 335 c.p.c., e provvedere alla riunione delle cause, diversamente trovando applicazione il principio di prevenzione della tutela giurisdizionale, sicchè la causa decisa per prima (indipendentemente dalla priorità della notifica della impugnazione) determina la improcedibilità o comunque la preclusione dell’esame della successiva impugnazione in forza del principio di unità della decisione.

1.8 In ogni caso, sia nella ipotesi di impugnazioni separate cd. legittime, sia nel caso in cui la parte abbia ricevuto la notifica della impugnazione principale, ma abbia proposto, nel termine ex art. 343 c.p.c., autonoma impugnazione dando luogo ad un distinto procedimento, la parte è comunque onerata di rendere edotto il Giudice della causa introdotta per prima della pendenza dell’altra impugnazione, in difetto venendo impedita la possibilità del “simultaneus processus” attraverso la riunione delle cause ex art. 335 c.p.c., con conseguente improcedibilità della seconda impugnazione (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 13578 del 02/11/2001; id. Sez. 5, Sentenza n. 4605 del 27/03/2003; id. Sez. U, Sentenza n. 15843 del 07/07/2009; id. Sez. 2, Sentenza n. 12430 del 20/05/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 12038 del 29/05/2014).

1.9 Orbene avendo ricevuto il L. la notifica della impugnazione principale della Presidenza del Consiglio dei Ministri ed essendosi costituito in quel giudizio senza proporre appello incidentale, e non essendo altresì consentita, in seguito alla riunione delle cause ex art. 335 c.p.c., la conversione della separata autonoma impugnazione in impugnazione incidentale attesa la inosservanza del termine previsto a pena di decadenza dall’art. 343 c.p.c. (l’appello autonomo del L. è stato, infatti, notificato il 17.12.2008 circa sei mesi dopo la tempestiva costituzione dell’appellato – con comparsa depositata in data 5.6.2008 – nel giudizio in grado di appello promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri), nel caso sottoposto alla Corte viene quindi in questione soltanto la verifica di legittimità della pronuncia del Giudice di appello che ha rigettato la istanza di rimessione in termini ex art. 184 bis c.p.c., (applicabile “ratione temporis”) che il L. aveva presentato, non con la comparsa di costituzione in appello, e neppure alla udienza 25.6.2008 di prima trattazione, ma soltanto alla successiva udienza 2.2.2011 (cfr. ricorso pag. 12).

1.10 Orbene questa Corte ha statuito che la rimessione in termini, tanto nella versione prevista dall’art. 184 bis c.p.c., quanto in quella di più ampia portata prefigurata nel novellato art. 153 c.p.c., comma 2, presuppone la tempestività dell’iniziativa della parte che assuma di essere incorsa nella decadenza per causa ad essa non imputabile, tempestività da intendere come immediatezza della reazione della parte stessa al palesarsi della necessità di svolgere un’attività processuale ormai preclusa (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23561 del 11/11/2011; id. Sez. 2, Sentenza n. 4841 del 26/03/2012) e che colui che richiede la rimessione in termini, deve in ogni caso fornire prova del nesso eziologico tra il fatto non imputabile e l’impedimento al tempestivo o corretto svolgimento della predetta attività processuale (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 19836 del 28/09/2011, secondo la quale risultava indimostrata la relazione causale tra la indisponibilità dei fascicoli di ufficio di parte, acquisiti solo in tempo successivo, e la formulazione dei quesiti diritto ex art. 366 bis c.p.c., alla stregua delle copie degli atti in possesso della parte; id. Sez. L, Sentenza n. 7393 del 25/03/2013secondo cui lo smarrimento dei fascicoli di primo grado non determinava “ex se” la rimessione in termine dell’appellante tardivo ex art. 327 c.p.c., in difetto di alcuna allegazione in ordine alla rilevanza causale, sulla tempestiva proposizione del gravame, di specifici atti o documenti contenuti in tali fascicoli, potendo la parte chiedere al giudice la ricostituzione di detti fascicoli e l’eventuale integrazione dei motivi d’appello).

1.11 Il ricorrente non ha fornito, con il motivo di ricorso in esame, alcuna valida indicazione idonea a superare l’argomento della sentenza di appello secondo cui, la temporanea mancanza presso la Cancelleria del Giudice di appello dei fascicoli di ufficio e di parte relativi al primo grado di giudizio, non impediva comunque la tempestiva proposizione dell’appello incidentale “sulla base della sentenza e delle difese dell’appellante principale”, avendo del tutto omesso il L., da un lato, di giustificare la tardiva reazione nel formulare la istanza di rimessione in termine (che bene avrebbe potuto e dovuto essere già proposta nella comparsa di costituzione e risposta), e dall’altro, di evidenziare quale incidenza causale pregiudizievole, il mancato esame degli atti o di alcuni atti contenuti nel fascicolo di primo grado, avesse in concreto avuto nella impossibilità di svolgere la critica alle argomentazioni sul “quantum” contenute nella sentenza di primo grado (critica che era limitata, a quanto riferisce lo stesso ricorrente, esclusivamente a censurare il criterio di quantificazione del danno patrimoniale ed a contestare il disconoscimento del danno non patrimoniale) e di confutare le tesi svolte dalla controparte nell’appello principale, difettando dunque la prova del nesso eziologico tra la causa di forza maggiore e l’impedimento alla formulazione dei motivi di gravame incidentale, nel termine di decadenza previsto dall’art. 343 c.p.c., comma 1. Non conferente, al proposito, è il richiamo al precedente di questa Corte Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 20587 del 6 settembre 2013, che concerne fattispecie del tutto diversa (in quel caso, infatti, la Corte ha statuito che il Giudice di merito non può rigettare la domanda proposta dalla parte, sul mero presupposto della mancanza del fascicolo di parte e delle prove documentali con esso prodotte, sebbene risultasse dagli atti che “il fascicolo non fosse mai stato ritirato dopo l’avvenuto deposito”; analoga vicenda è stata all’esame di Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12223 del 17/07/2012 che ha osservato come le carenze organizzative dell’ufficio giudiziario, così come gli errori dei funzionari ad esso addetti, non possono mai comportare alcuna conseguenza pregiudizievole per le parti del processo, dovendo qualificarsi, pertanto, abnorme – e dunque nulla ed impugnabile per tale motivo la sentenza con la quale il giudice d’appello, dopo aver rilevato che la mancanza del fascicolo d’ufficio di primo grado era imputabile a difetto di custodia da parte della Cancelleria, ha dichiarato inammissibile l’appello): in quel caso infatti il giudizio di rilevanza causale tra il fatto non imputabile alla parte (smarrimento fascicolo) e la conseguenza processuale pregiudizievole (omessa costituzione in giudizio; omessa produzione delle prove) risultava accertata “per tabulas”; diversamente dalla ipotesi oggetto del presente esame in cui difetta invece proprio la riferibilità causale della attività processuale intempestiva (tanto con riferimento alla proposizione dell’appello incidentale, quanto alla proposizione della istanza di rimessione in termine ex art. 184 bis c.p.c.) allo smarrimento del fascicolo, non avendo la parte dimostrato che la copia della sentenza di primo grado e l’atto di appello principale, in suo possesso, erano insufficienti a formulare quei motivi di gravame che erano stati successivamente dedotti con la impugnazione autonoma tardiva, nè della mancata formulazione nella comparsa di risposta in grado di appello della istanza di rimessione in termini.

p..2 Il primo motivo del ricorso principale (violazione art. 260, comma 1 Trattato Lisbona; art. 10 Trattato Comunità Europea; obbligo di adeguamento del diritto interno alle norme dell’UE; effettività del risarcimento del danno) è incentrato interamente sulla contestazione del mancato riconoscimento del “danno non patrimoniale” derivato dalle vessazioni cui l’avvocato L. era stato sottoposto (procedimenti disciplinari e procedimenti penali per il reato dell’art. 348 c.p.) in conseguenza della “permanente vigenza” delle norme statali che vietavano al professionista residente in altri Stato membro della Comunità Europea l’esercizio della professione legale in Italia, sostenendo il ricorrente che la Corte d’appello aveva errato ad escludere la responsabilità dello Stato italiano nella produzione del danno non patrimoniale, attesa la persistente inerzia dello Stato italiano ad eliminare dell’ordinamento interno quelle norme di legge che dovevano considerarsi divenute incompatibili con le direttive comunitarie, come affermato dalla sentenza della Corte di Giustizia in data 7.3.2002, in causa C-145/1999, che aveva accertato l’inadempimento dello Stato all’obbligo di rimozione degli ostacoli normativi posti al “diritto di stabilimento” dei professionisti, garantito dal Trattato, ed alla attuazione della direttiva CEE n. 48/1987 sulla disciplina dell’attività forense nel territorio della Comunità Europea.

In particolare il ricorrente lamenta che il pregiudizio è perdurato anche oltre la predetta pronuncia della Corte di giustizia, essendo stato egli perseguito penalmente (per il reato di esercizio abusivo della professione) anche nell’anno 2003, ed ancora nell’anno 2004 (denuncia presentata dall’Ordine degli Avvocati di Arezzo), e dando atto che un primo procedimento penale si era concluso con pronuncia di assoluzione (sentenza penale n. 70/2013 della Corte d’appello di Firenze).

2.1 Il motivo è infondato.

2.2 La Corte d’appello, investita dall’appello principale della Presidenza del Consiglio dei Ministri in punto di derivazione causale delle conseguenze dannose derivate dal ritardo ed inesatta trasposizione della direttiva 89/48/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1988, ha ritenuto che, vigenti le norme statali di divieto, se pure incompatibili con le direttive comunitarie non tempestivamente ed esattamente recepite nell’ordinamento interno, gli operatori del settore nazionali e comunitari dovevano ad esse conformarsi: con la conseguenza che la volontaria condotta del L. che dette norme statali aveva violato, costituiva causa autonoma ed efficiente ad attivare la legittima reazione degli organi competenti, ed il danno non patrimoniale lamentato dal legale tedesco derivato dai procedimenti disciplinari dell’Ordine professionale e dai giudizi penali per l’accertamento del reato di abusivo esercizio di professione ex art. 348 c.p., non poteva quindi essere imputato alla condotta inadempiente dello Stato.

2.3 La critica mossa con il motivo di ricorso si articola secondo i seguenti passaggi logici:

a) la responsabilità dello Stato per violazione delle norme del Trattato, ed in particolare dell’art. 52 (poi art. 43 TCE e quindi art. 49 TFUE) e 59 (libera prestazione di servizi: divenuto art. 49 TCE e quindi art. 56 TFUE), oltre che per inesatta trasposizione della direttiva 77/249/CEE del Consiglio del 22.3.1977 ed incompleta attuazione della direttiva 89/48/CEE, risulta accertata con sentenza in data 7.3.2002 dalla Corte di Giustizia adita dalla Commissione con procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano;

b) le condotte violative ed inadempienti dello Stato membro (non essendo state rimosse dall’ordinamento interno quelle norme che impedivano al legale tedesco di avvalersi di una struttura organizzativa (art. 2, comma 2, della legge 9.2.1982 n. 31 con la quale era stata inesattamente trasposta la direttiva 77/249/CEE) e che imponevano l’obbligo di residenza nella circoscrizione del Tribunale in cui la iscrizione all’albo è richiesta (D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 17, comma 1, punto 7), e non essendo state adottate le norme attuative interne volte a definire il contenuto e le modalità della prova attitudinale prevista dall’art. 1, lett. g) della direttiva 89/48/CEE) avevano impedito al professionista, sebbene in possesso del prescritto titolo abilitativo rilasciato in Germania, l’esercizio dell’attività di avvocato, atteso che la domanda di iscrizione all’albo dell’Ordine degli avvocati di Arezzo, presentata nel 1993, era stata rigettata, mentre soltanto nel 1999 il legale aveva ottenuto la iscrizione provvisoria all’albo, subendo tuttavia procedimenti disciplinari e penali fino alla definitiva iscrizione all’albo dell’Ordine degli avvocati di Arezzo in data 8.3.2002;

c) la Corte d’appello aveva, pertanto, errato nel ritenere priva di rilevanza causale la condotta dello Stato in ordine ai “danni non patrimoniali” derivanti dai procedimenti disciplinari e penali subiti dal legale, disattendendo il principio di diritto comunitario secondo cui la violazione delle norme di diritto comunitario, lesiva dei diritti attribuiti ai singoli, richiede che il risarcimento del danno sia “effettivo” e non possa essere limitato ai soli danni emergenti od al periodo di tempo successivo alla pronuncia della Corte di Giustizia che aveva accertato l’inadempimento (avendo la Corte limitato il risarcimento al periodo 1994 – 1999).

2.4 La critica confonde aspetti attinenti la liquidazione del danno patrimoniale (per lucro cessante), che è stato riconosciuto dalla sentenza di appello impugnata, con aspetti concernenti invece il diverso danno non patrimoniale (talvolta indicato come danno morale sembra- da lesione all’onore – “effetti negativi che danneggiavano il ricorrente….rispetto alla sua vita privata” -, talaltra come incidenza negativa “rispetto allo svolgimento della sua professione”), ma risulta rivolta esclusivamente alla statuizione della sentenza con la quale la Corte d’appello ha escluso il “danno non patrimoniale” per difetto del nesso di derivazione causale dal “mancato recepimento della direttiva comunitaria” (cfr. ricorso pag. 25; sentenza appello in motiv. pag. 5).

2.5 Avuto riguardo alla scansione temporale dell’attività professionale svolta dal legale tedesco (rigetto della domanda di iscrizione all’albo professionale presentata nel 1993; iscrizione provvisoria all’albo professionale nel 1999; iscrizione definitiva nell’albo degli avvocati nell’anno 2002), dalla cronologia degli atti normativi emerge quanto segue:

– la direttiva 77/249/CEE del Consiglio del 22.3.1977 (“intesa a facilitare l’esercizio effettivo della libera prestazione di servizi da parte degli avvocati”) dava atto della fine delle restrizioni in materia di prestazioni di servizi e, non essendo dettate specifiche disposizioni relative al riconoscimento reciproco dei diplomi, all’art. 4 si riconosceva che il professionista dotato di titolo abilitativo nella Stato di residenza potesse esercitare “le attività relative alla rappresentanza e alla difesa di un cliente in giudizio o innanzi alle autorità pubbliche… in ogni Stato membro ospitante, alle condizioni previste per gli avvocati stabiliti in questo Stato, ad esclusione di ogni condizione di residenza o d’iscrizione ad un’organizzazione professionale nello stesso Stato”: la direttiva conformemente recepita con legge 9.2.1982 n. 31 (libera prestazioni di servizi da parte degli avvocati cittadini degli Sati membri delle Comunità Europee), ammetteva all’esercizio delle attività professionali con obbligo di osservanza delle norme di legge, professionali e deontologiche “ad eccezione (come richiesto dalla direttiva) di quelle riguardanti il requisito della cittadinanza italiana, il possesso del diploma di l.rea in giurisprudenza, il superamento dell’esame di Stato, l’obbligo delle residenza nel territorio della Repubblica, l’iscrizione in un albo degli avvocati e l’obbligo del giuramento”, ma all’art. 2, comma 2, prescriveva il divieto al professionista di “stabilire nel territorio della Repubblica uno studio” o “una sede principale o secondaria”.

– la direttiva 89/48/CEE del Consiglio del 21.12.1988 (relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni) al dichiarato scopo di agevolare l’esercizio di tutte le attività professionali subordinate in un determinato Stato membro ospitante al possesso di una formazione post-secondaria, prevedeva (art. 4 paragr. 1, lett. b) la facoltà dello Stato ospitante di richiedere al professionista in possesso di una formazione professionale di durata inferiore a quella richiesta nello Stato di compiere “un tirocinio di adattamento” o di sottoporsi ad una “prova attitudinale” su materie “la cui conoscenza è condizione essenziale per potere esercitare la professione nello Stato membro ospitante”, a tal fine dovendosi dare attuazione alla norma mediante la pubblicazione di “un elenco di materie che, attraverso un confronto tra la formazione richiesta nello Stato rispettivo e quella ricevuta dal richiedente, non sono comprese nel diploma o nel titolo presentato dal richiedente” (art. 1, lett. g): la direttiva veniva recepita con D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 115, che, per quanto concerne la prova attitudinale, si limitava a prevederne la obbligatorietà, in caso di riconoscimento di titoli riguardanti le “professioni di procuratore legale, avvocato….” (art. 6, comma 2).

2.6 Su tale quadro normativo è intervenuta la pronuncia della Corte di Giustizia CE, adita dalla Commissione con ricorso ex art. 228 Trattato, che, con sentenza in data 7.3.2002 in causa C-145/99, ha accertato la responsabilità dello Stato italiano per violazione diretta del Trattato, statuendo che:

– mantenendo, in violazione dell’art. 59, del Trattato, il divieto generale imposto agli avvocati stabiliti in altri Stati membri ed esercitanti in Italia in regime di libera prestazione di servizi di disporre in tale Stato dell’infrastruttura necessaria all’effettuazione delle loro prestazioni, – obbligando, in violazione dell’art. 52 del Trattato, gli avvocati a risiedere nella circoscrizione del tribunale da cui dipende l’albo al quale essi sono iscritti, e – recependo in maniera incompleta la direttiva 89/48, stante l’assenza di una regolamentazione che stabilisce le modalità della prova attitudinale per gli avvocati provenienti da altri Stati membri, la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa imposti dagli artt. 52 e 59, del Trattato nonchè alla direttiva 89/48.

2.7 In particolare la Corte di Lussemburgo ha affermato che “il divieto generale, figurante alla L. n. 31 del 1982, art. 2, comma 2, opposto ad un avvocato stabilito in uno Stato membro diverso dalla Repubblica italiana ed esercitante in Italia il suo diritto alla libera prestazione dei servizi, di creare uno studio o una sede principale o secondaria in tale ultimo Stato membro è incompatibile con l’art. 59 del Trattato” avendo ripetutamente il Giudice della Comunità affermato che “il diritto di stabilimento sancito dall’art. 52, del Trattato implica la facoltà di creare e di conservare, salve restando le norme professionali, più di un centro di attività nel territorio della Comunità (v., in tal senso, sentenze 12 luglio 1984, causa 107/83, Klopp, Racc. pag. 2971, punto 19; 20 maggio 1992, causa C-106/91, Ramrath, Racc. pag. I-3351, punti 20-22 e 28, e 18 gennaio 2001, causa C-162/99, Commissione/Italia, Racc. pag. 1-541, punto 20)”, mentre gli altri ostacoli “figuranti al D.L. n. 1578 del 1933, art. 17, n. 1, relativi al possesso della cittadinanza italiana e di una laurea in giurisprudenza, nonchè al compimento di un tirocinio di due anni dinanzi agli organi giurisdizionali italiani, per aver accesso alla professione di avvocato” erano stati rimossi in seguito alla abrogazione tacita disposta dal D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 115, e dalla L. 22 febbraio 1994, n. 146.

2.8 In seguito alla pronuncia della Corte di Giustizia 7.3.2002 in causa C-145/99:

– lo Stato italiano ha dato completa attuazione alla direttiva 48/89, disciplinando con regolamento approvato con Decreto Interministeriale 28.5.2003 n. 191, emanato ai sensi del D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 115, art. 9, il contenuto della prova attitudinale (art. 2) ed indicando l’elenco delle materie su cui doveva vertere la prova (All. A).

– con L. 3 febbraio 2003, n. 14, (disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dalla appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee – Legge comunitaria 2002), all’art. 18, in dichiarata esecuzione della sentenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee del 7 marzo 2002, nella causa C-145/99, è stata disposta la abrogazione della L. n. 31 del 1982, art. 2, comma 2, (art. 18, comma 1) ed è stato modificato il D.L. n. 1578 del 1933, art. 17, comma 1, n. 7, conv. in L. n. 36 del 1934 (art. 18, comma 2).

– con direttiva 98/5/CE del Parlamento e del Consiglio in data 16.2.1998 (volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica), veniva “stabilizzata” ed integrata la disciplina della previgente direttiva 77/249/CEE, riconoscendo a colui che aveva conseguito in altro Stato membro la qualifica di avvocato, di esercitare stabilmente l’attività nello Stato ospitante “con il proprio titolo professionale di origine” (art. 4), potendo essere equiparato al titolo professionale rilasciato dallo Stato ospitante, comprovando “l’esercizio per almeno tre anni di un’attività effettiva e regolare…. riguardante il diritto di tale Stato” (art. 10), senza necessità di sostenere il tirocinio o in alternativa la prova attitudinale previsti dalla direttiva 89/48/CEE: la direttiva veniva recepita nell’ordinamento interno con D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 96.

2.10 Tanto premesso.

– richiamati i principi enunciati nell’arresto di Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 9147 del 17/04/2009 secondo cui in caso di omessa o tardiva trasposizione nel termine prescritto delle direttive comunitarie non autoesecutive sorge, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni che va ricondotto – anche a prescindere dall’esistenza di uno specifico intervento legislativo accompagnato da una previsione risarcitoria – allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione “ex lege” dello Stato di natura indennitaria, da cui deriva il conseguente obbligo di risarcimento, avente natura di credito di valore, che deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all’adempimento di una obbligazione “ex lege” riconducibile all’area della responsabilità contrattuale, all’ordinario termine decennale di prescrizione.

– e condivisa altresì la precisazione fornita nelle successive pronunce di questa Corte, che hanno inteso conformarsi al precedente delle SS.UU., secondo cui la illiceità della condotta dello Stato non può confinarsi in ambito meramente comunitario – “come potrebbe emergere da una affrettata lettura della motivazione della sentenza n. 9147/2009” – ma deve evidentemente estendersi anche all’ordinamento interno, traducendosi tale condotta nell’inadempimento di una obbligazione derivante da un “altro fatto” idoneo a produrla in conformità dell’ordinamento giuridico statuale ex art. 1173 c.c. (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10813 del 17/05/2011 che mette in evidenza come per le SS.UU. tale pretesa “indennitaria” sia riconducibile al concetto generale dell’obbligazione “e, dovendo individuare sul piano dell’ordinamento interno la fonte di quest’ultima e la sua collocazione alla stregua dell’art. 1173 c.c., hanno considerato il comportamento dello Stato di inadempimento della direttiva come un fatto idoneo a produrre sul piano interno, nei confronti dei soggetti cui in base alla direttiva si sarebbe dovuto riconoscere un certo diritto, un’obbligazione risarcitoria. L’insorgenza di tale obbligazione quale conseguenza del fatto è stata giustificata sulla base dei vincoli che dall’ordinamento comunitario derivano all’ordinamento interno per effetto dell’inadempimento di una direttiva riconoscente in modo sufficientemente specifico un diritto ai soggetti dell’ordinamento interno, ma non avente carattere self-executing. La fonte normativa della idoneità del fatto a produrre l’obbligazione in questione discende direttamente dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia, manifestatasi per la prima volta con la nota sentenza 19 novembre 1991, Francovich, cause C-6/90 e C-9-90 e, quindi, precisata – come ricordato dalle Sezioni Unite – dalla sentenza 5 marzo 1996, Brasserie du Pecheur e Factortame 3, cause C-46/93 e C-48/93. In forza della necessità di riconoscere sul piano dell’ordinamento interno i dieta della Corte di Giustizia, l’inadempimento del legislatore italiano all’attuazione di una direttiva riconoscente in modo specifico determinati diritti ai singoli, ma non self-executing, è venuta a connotarsi sul piano dell’ordinamento interno come fatto generatore di un’obbligazione risarcitoria, cioè come fonte di un’obbligazione di ristoro, ed è evidente che, se dà luogo ad un’obbligazione di questo tipo, cioè che impone una prestazione a ristoro dell’inadempimento, tale comportamento sì caratterizza necessariamente come antigiuridico anche sul piano dell’ordinamento interno, dato che è da considerare nel suo ambito come fatto produttivo della nascita di un’obbligazione e, quindi, di una conseguenza negativa per lo Stato….”; id. Sez. 3, Sentenza n. 17350 del 18/08/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 17682 del 29/08/2011), osserva il Collegio che la Corte d’appello ha ritenuto fondata la domanda di condanna, quanto alla prova dell'”an” della condotta illecita dello Stato, confermando la decisione di prime cure (che aveva ritenuto provato l’inadempimento continuato dello Stato fino alla emanazione del D.Lgs. n. 96 del 2001, attuativo della direttiva 98/5/CE, nonchè la violazione delle norme del Trattato, alla stregua dell’accertamento compiuto nella pronuncia 7.3.2002 della Corte di giustizia), ma non ha accolto integralmente le richieste risarcitorie formulate dal legale, essendo pervenuta ad un esito solo parziale della verifica del nesso di causalità giuridica tra condotta inadempiente dello Stato e conseguenze dannose, riconosciute quanto al danno patrimoniale e disconosciute, invece, quanto al danno non patrimoniale: in quest’ultimo caso, infatti, la Corte d’appello ha ravvisato una soluzione di continuità nella serie causale, dovuta alla causa determinante interferente, individuata nella stessa condotta del L. (volta a violare le norme interne sull’obbligo di residenza e sul divieto di creazione di una stabile struttura organizzativa impeditive dell’esercizio della professione) dotata di esclusiva efficienza causale nella produzione del danno non patrimoniale “e in particolare del danno biologico e del danno alla reputazione”.

2.11 Rileva il Collegio che, ad una prima lettura della sentenza e degli atti difensivi, le contrapposte argomentazioni giuridiche, della Corte d’appello e della parte ricorrente, sembrano quindi esprimere i seguenti principi di diritto di seguito riassunti:

– la mancata o scorretta trasposizione da parte dello Stato membro delle direttive comunitarie non autoesecutive (self-executing) in materia di libero esercizio della professione forense, espone lo Stato italiano alla responsabilità per i danni arrecati ai diritti dei privati direttamente individuati dalle direttive, ma non determina alcuna situazione attuale di contrasto normativo tra le norme delle “direttive non attuate” e le vigenti norme interne, tale da imporre la non applicazione – per incompatibilità con l’ordinamento comunitario – di queste ultime che, pertanto, continuano ad esplicare la loro efficacia nell’ordinamento interno, con la conseguenza che il legale tedesco era tenuto comunque ad osservarle (tesi accolta dalla sentenza della Corte d’appello);

– la mancata attuazione della direttiva 48/89/CEE (non autoesecutiva) e la perdurante vigenza di norme interne violative di diritti accordati dal Trattato (diritto di stabilimento; libera prestazione di servizi), come accertata dalla Corte di Giustizia in sede di giudizio relativo a procedura di infrazione ex art. 226 Trattato CE (attuale art. 258 TFUE), imponeva alle autorità ed ai Giudici dello Stato membro di disapplicare le norme interne ostative all’esercizio della professione legale da parte dell’avvocato dotato del titolo abilitativo (Rechtsanwalt) previsto in Germania, in tal modo dovendo ritenersi “ab origine” inesistenti i presupposti normativi delle azioni penali e disciplinari svolte nei confronti del legale (tesi sostenuta nelle difese dal ricorrente).

2.12 Se così impostata la questione in diritto, verrebbero certamente a palesarsi i dubbi interpretativi paventati dal ricorrente nella memoria ex art. 378 c.p.c., in cui viene formulata richiesta di rimessione ex art. 267 TFUE per verificare se sia ostativo al diritto dell’Unione, ed in particolare all’art. 10 del Trattato CE ed all’art. 260 del Trattato di Lisbona, che norme dell’ordinamento interno, dichiarate dalla Corte di giustizia – adita con procedura di infrazione – direttamente violative di norme del Trattato, ed incompatibili con le norme della direttiva 48/89/CEE, non attuata (o comunque incompletamente attuata), possano essere assunte come parametri di valutazione della violazione di obblighi di condotta in esse prescritti e la cui inosservanza è sanzionata penalmente e disciplinarmente dagli organi dello Stato membro.

2.13 Ritiene tuttavia il Collegio che questa non sia la corretta impostazione da seguire nella risoluzione della presente controversia, altro essendo il danno derivante dall’inadempimento dello Stato all’obbligo di corretta trasposizione delle direttive comunitarie – non self – executing – che prevedono l’attribuzione di diritti ai singoli, ed altro il danno derivante dalla lesione del diritto all’onore od alla reputazione (l’offesa alla reputazione professionale e della dignità di un professionista in relazione all’esercizio della sua attività, integra una lesione di un valore della persona che riceve tutela costituzionale, e pertanto è risarcibile indipendentemente dalla qualificazione della condotta lesiva come reato, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata degli artt. 2043 e 2059 c.c.: Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18210 del 03/07/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 22190 del 20/10/2009; id. Sez. 3, Sentenza n. 25423 del 02/12/2014) che non trova fondamento nelle direttive inattuate e che lo stesso ricorrente imputa ai ripetuti procedimenti penali e disciplinari che si sono svolti “vessatoriamente” nei suoi confronti.

2.14 Ed infatti se nel primo caso, vengono in rilievo i presupposti richiesti dalla giurisprudenza comunitaria per affermare la responsabilità dello Stato membro in conseguenza della violazione del diritto comunitario (cfr. Corte Giustizia sentenza 19.11.1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich; id. 5.3.1996, causa riunite C-46/93 e c48/93, Brasserie du Pecheur e Factortamen Ltd.; id. 8.10.1996, cause riunite C-178/94, C179/94 e C-188/94, C-189/94 e C-190/94, Dillenkofer; id.10.7.1997, causa riunite C-94/95 e C95/95, Bonifaci), fondata sulla inerenza all’ordinamento comunitario della piena tutela dei diritti garantiti dalle norme comunitarie, in quanto affermazione della efficacia di queste ultime, e sull’obbligo assunto dagli Stati membri di dare piena attuazione agli obblighi ad essi derivanti dal Trattato (già art. 5, poi art. 10 TCE. Ora si vedano gli artt. 258 – 260 TFUE), e sul ricorso delle note condizioni 1 – della esistenza di una norma comunitaria volta a riconoscere diritti ai singoli, 2 – di una violazione “sufficientemente caratterizzata” ovvero “manifesta e grave”, 3 – di un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato ed il danno subito dai soggetti lesi, nella seconda ipotesi viene, invece, in evidenza – con riferimento alla applicazione, nelle controversie cd. verticali, di norme primarie o direttive dell’ordinamento UE, produttive di effetti diretti – il principio di cooperazione di tutti gli organi dello Stato (nell’ampia nozione accolta dal Giudice Europeo, comprensive anche di entità, finanche di diritto privato, che esercitino prerogative pubbliche: cfr. Corte di giustizia (grande sezione) sentenza del 24 gennaio 2012, in causa C-282/10, Dominguez) tenuti a dare effettività al diritto comunitario. Come rilevato dallo stesso ricorrente, infatti, non soltanto lo Stato è tenuto in virtù degli obblighi derivanti dal Trattato ad eliminare definitivamente “l’incompatibilità di una normativa nazionale con le disposizioni comunitarie, persino direttamente applicabili, tramite disposizioni interne vincolanti che abbiano lo stesso valore giuridico di quelle da modificare (v., in particolare, sentenza 9 marzo 2000, Commissione/Italia, C-358/98, punto 17)…” (cfr. Corte Giustizia 7.3.2002, C-145/99, punto 30, cit.), ma tutti gli organi della Pubblica Amministrazione e gli organi giurisdizionali, sono chiamati ex officio a dare effettività al principio di prevalenza del diritto comunitario, sia mediante la cd. “interpretazione adeguatrice” delle norme statali, preesistenti e successive, ai principi ed alle norme di diritto comunitario, sia, qualora non sussistano margini alla attività di interpretazione consentiti dalle norme dell’ordinamento interno, mediante la cd. “disapplicazione” delle norme interne che risultino obiettivamente incompatibili con le norme dell’ordinamento comunitario o con gli scopi perseguiti dalle direttive comunitarie.

2.15 Il fatto costitutivo della domanda del L., volta ad ottenere il ristoro del danno non patrimoniale, sembra infatti doversi individuare proprio nella omessa disapplicazione da parte degli organi statali (Consiglio dell’ordine, in sede di procedimento disciplinare; Autorità giudiziaria, in sede di procedimento penale) delle disposizioni interne ritenute direttamente lesive dei diritti di stabilimento e di prestazione di servizi previsti dal Trattato, come accertato nella sentenza della Corte di giustizia del 2002 (cfr. ricorso pag. 26 e 32, laddove si richiamano le note sentenze della Corte costituzionale n. 389/1989 e n. 161/1991 in cui si riconosce alle disposizioni dell’ordinamento comunitario “chiare precise ed incondizionate” efficacia di fonte direttamente integrativa dell’ordinamento interno: e tale natura parrebbe essere stata implicitamente riconosciuta nella sentenza penale 15.1.2003 n. 70 della Corte d’appello di Firenze che ha assolto il L. dal reato di esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p.: “…Non avendo quindi la Repubblica italiana trasposto completamente la direttiva 89/48 non può che non darsi applicazione alla norma penale che sanziona la violazione dell’obbligo di iscrizione all’albo degli avvocati….”).

2.16 Per vero la difesa del ricorrente appare ondivaga sullo specifico punto della natura della efficacia delle norme comunitarie violate, atteso che, nello stesso ricorso principale risulta affermato che le norme delle direttive n. 89/48/CEE e n. 48/98/CE (non correttamente trasposte dallo Stato membro) richiedevano un atto di trasformazione interno, in difetto del quale “l’individuo non può sostenere un diritto individuale direttamente applicabile” (ricorso pag. 17), sicchè l’argomento del ricorrente fondato sulla diretta applicabilità nell’ordinamento interno del diritto comunitario sembrerebbe da riferire piuttosto agli artt. 52 e 59, del Trattato CEE (rispettivamente, artt. 43 e 49, del Trattato UE, Maastricht, ed attuali artt. 49 e 56 del Trattato di Lisbona: queste norme definiscono il contenuto del diritto fondamentale al libero esercizio della professione previsto dall’art. 15 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea – proclamata nel 2007 ed entrata in vigore dall’1.12.2009 -, come disposto dall’art. 52, paragr. 2 della stessa CDF) che prescrivono il divieto di restrizioni alla libertà di stabilimento ed alla libertà di prestazione dei servizi dei cittadini Europei all’interno della Comunità (ora Unione), secondo la interpretazione fornita dalla Corte di giustizia (cfr. Corte giustizia, sentenza 8.9.2010, in causa C-409/06, Winner Wetten GmbH, punto 60, secondo cui “il giudice nazionale che accerti che la stessa normativa contravviene a disposizioni del diritto dell’Unione aventi effetto diretto, come gli artt. 43 CE e 49 CE” deve decidere “conformemente al principio del primato del diritto dell’Unione, di disapplicare tale normativa nell’ambito della causa di cui è investito”).

2.17 Tuttavia le differenti conseguenze derivanti dalla immediata e diretta applicabilità o meno, nell’ordinamento interno, delle norme comunitarie in contrasto con le norme nazionali (disapplicazione della norma interna incompatibile; proposizione della questione incidentale di costituzionalità della norma interna per violazione delle norme comunitarie in relazione al parametro interposto dell’art. 11 o dell’art. 117 Cost.: cfr. Corte costituzionale sentenze n. 27/2010 e n. 227/2010), non appare dirimente ai fini dell’accertamento del nesso di causalità – escluso dalla Corte d’appello – tra la permanente vigenza nell’ordinamento interno delle norme incompatibili con il diritto comunitario e l’offesa alla reputazione professionale lamentata dal ricorrente in conseguenza dei plurimi procedimenti disciplinari e penali (definiti vessatorio dal ricorrente) svolti nei suoi confronti dal Consiglio dell’ordine di Arezzo e Firenze e dall’A.G.O. – specie dopo la sentenza della Corte di Giustizia in data 7.3.2002 – che hanno inteso continuare a dare applicazione a norme interne prescrittive di divieto, considerate incompatibili con l’ordinamento comunitario.

La lesione del diritto della personalità lamentata dal ricorrente, infatti, si inserisce in uno schema causale nel quale l’inadempimento dello Stato alla corretta trasposizione delle direttive costituisce un antecedente, ma che si sviluppa attraverso ulteriori condotte ascrivibili ad altri soggetti, diversi dallo Stato, che – in presenza di norme comunitarie di diretta applicazione – erano tenuti a “disapplicare” le norme statali incompatibili, mentre – con riferimento alle norme delle direttive comunitarie, prive dell’indicata efficacia diretta – disponevano del potere di sollevare avanti il Giudice delle Leggi la questione incidentale di illegittimità costituzionale delle norme statali incompatibili con i diritti riconosciuti ai singoli dalle norme primarie del Trattato (artt. 52 e 59).

Ne segue che:

– se la lesione arrecata al diritto della personalità deve imputarsi, come sembra assumere il ricorrente principale, a grave negligenza per mancata applicazione del diritto comunitario, ovvero a grave negligenza per omessa disapplicazione del diritto statale incompatibile con l’ordinamento comunitario, da parte di un organo giudiziario (e tale natura di “giudice speciale” riveste anche il Consiglio dell’Ordine nazionale forense – R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, artt. 52 – 56; R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, artt. 59 – 68; ora v. L. 31 dicembre 2012, n. 247, artt. 36 e 37-: Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 9097 del 03/05/2005; id. Sez. U, Sentenza n. 11833 del 16/05/2013; id. Sez. U, Sentenza n. 775 del 16/01/2014), allora il diritto al risarcimento del danno non patrimoniale derivato da tale condotta, in quanto riconducibile ad esercizio di attività giurisdizionale, poteva e doveva essere azionato in sede giurisdizionale nelle forme e nei tempi stabiliti dalla specifica disciplina legislativa prevista per tale tipo di danno dall’ordinamento interno (L. n. 117 del 1988, che prevede, all’art. 5 al tempo vigente, una fase preliminare – cd. “filtro” di ammissibilità – del giudizio avente ad oggetto la responsabilità civile dei magistrati: l’istituto è stato abbandonato dalla novella della L. n. 117 del 1988, introdotta dalla L. n. 18 del 2015, ma da ritenersi peraltro pienamente conforme ai principi espressi dalla Corte di Giustizia nelle sentenze 30 settembre 2003, in C-224/01, Kobler; 13 giugno 2006, in C-173/03, Traghetti del Mediterraneo; 24 novembre 2011, in C379/10, Commissione c/ Repubblica italiana, come rilevato da questa Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 41 del 03/01/2014, che sulla scorta della giurisprudenza costituzionale – Corte cost. sentenza n. 497/2000 – ha evidenziato come il “filtro” costituisca attuazione di quegli stessi requisiti costituzionali di indipendenza ed imparzialità dell’organo giudiziario che sono posti in funzione della garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini e nelle sentenze della Corte di Giustizia “i principi di autonomia e di indipendenza del giudice (e la loro valenza costituzionale) non sono messi affatto in discussione, venendo, tuttavia, collocati su un piano differente rispetto a quello su cui si poggia la responsabilità dello Stato per l’illecito comunitario, che non attiene a quella personale del giudice”, potendo aggiungersi come la stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea individui, all’art. 47 comma 2, come precondizione essenziale per garantire la effettività della tutela dei diritti, che la causa sia esaminata “da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge”);

– se la lesione arrecata al diritto della personalità non può invece ascriversi ad errore o grave negligenza nell’esercizio dell’attività giurisdizionale per omessa disapplicazione delle norme statali – non potendo riconoscersi alle direttive comunitarie, trasposte in modo inesatto ed incompleto, il carattere di disposizioni immediatamente applicabili nello Stato membro – ne segue che gli effetti pregiudizievoli dei procedimenti disciplinari e penali in quanto idonei, nella loro reiterazione, a diffondere il discredito professionale, debbono comunque essere ricondotti al fatto dello stesso ricorrente, il quale avrebbe potuto impedirli richiedendo, fin dal primo giudizio, di sollevare la questione di legittimità costituzionale delle norme statali incompatibili: di tale richiesta non vi è alcuna menzione nella descrizione dei fatti contenuta nel ricorso, così come di un eventuale ingiustificato rigetto di tale istanza da parte degli organi giurisdizionali.

2.18 In entrambe le ipotesi – e, quindi, anche a muovere dalla tesi del ricorrente che vorrebbe ascrivere il danno non patrimoniale alla perdurante vigenza delle norme interne violative di diritti (di stabilimento, di libera prestazione di servizi) direttamente accordati dal Trattato – la pronuncia della Corte d’appello che esclude il nesso di causalità tra la condotta dello Stato membro ed il danno non patrimoniale, risulta corretta, seppure la relativa motivazione va integrata e modificata nei termini sopra precisati ex art. 384 c.p.c..

2.19 La sentenza impugnata, così corretta la motivazione, va esente dai vizi di legittimità denunciati, rendendosi irrilevante, ai fini della decisione sul motivo di ricorso – alla stregua dell’omesso esperimento da parte del legale dei rimedi processuali idonei a prevenire il danno non patrimoniale – il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE sulla questione, prospettata dal ricorrente con il quesito formulato in calce al ricorso ed alla memoria ex art. 378 c.p.c., se osti all’art. 10 Trattato CE (vigente ratione temporis) e dell’art. 260 TFUE (ex art. 288 TCE) che al singolo, il quale abbia volontariamente posto in essere una condotta in contrasto con norme statali vigenti nell’ordinamento interno dello Stato membro -dichiarato con sentenza della Corte di giustizia 7.3.2002 responsabile per il mancato adeguamento di tali norme incompatibili con il diritto comunitario – possa essere negato, sul presupposto della volontarietà di detta condotta, il ristoro del danno derivato dall’inadempimento dello Stato membro agli obblighi comunitari. La questione si palesa irrilevante laddove il lamentato danno non patrimoniale determinato dalla proliferazione dei procedimenti disciplinari e penali non deve ricondursi (come sostiene la Corte d’appello) alla condotta illecita del legale, violativa delle norme statali incompatibili con l’ordinamento comunitario, quanto piuttosto all’omesso ricorso da parte del legale allo specifico rimedio apprestato dall’ordinamento processuale per eliminare le predette norme statali dall’ordinamento interno, rimedio che avrebbe utilmente impedito di subire le conseguenze lesive dei procedimenti disciplinari e penali.

p. 3. Con il secondo motivo si censura la sentenza di appello per violazione degli artt. 1226 e 2043 c.c., per violazione dell’art. 249 Trattato CE e dei principi comunitari di effettività ed equivalenza, nonchè per vizio di omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Il ricorrente critica la sentenza del Giudice di appello nella parte in cui “ha omesso di identificare e riconoscere il danno alla professionalità” (immagine professionale) derivante dal discredito arrecato al legale dai procedimenti penali e disciplinari svolti nei suoi confronti, ed ha altresì omesso di liquidare tale danno in misura percentuale pari a 3/4 ed 1/2 – dopo l’ano 2005 – del reddito medio dichiarato negli anni 1993-2010. Inoltre contesta al Giudice territoriale di aver erroneamente liquidato il danno patrimoniale da mancato guadagno sulla base di redditi non rappresentativi della effettiva capacità di guadagno che doveva, pertanto, essere desunta dalla rilevazione ISTAT del reddito medio degli avvocati italiani, secondo i dati forniti dalla Cassa Nazionale Forense (cfr. Tabella, pag. 29 ricorso).

3.1 La prima censura rimane assorbita dalla rilevata interruzione della sequenza causale produttiva del danno non patrimoniale alla immagine professionale determinata dalla omessa attivazione del legale nel sollevare la questione di legittimità costituzionale delle norme statali incompatibili con l’ordinamento comunitario.

3.2 La seconda censura è inammissibile.

Premesso che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 c.p.c., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, da un lato è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare, dall’altro non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno, nè esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinchè l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell'”iter” della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 13288 del 07/06/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 10607 del 30/04/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 20990 de/ 12/10/2011), la critica svolta alle statuizioni della sentenza di appello, che ha liquidato il danno patrimoniale con riferimento al periodo 1.1.1994 – 31.12.1998 prendendo come parametro di riferimento i redditi prodotti dal legale nel periodo di esercizio della professione successivo all’anno 1999 (tenuto conto che la domanda di iscrizione venne presentata a settembre 1993 e nel 1999 era stata disposta la “iscrizione provvisoria” all’albo professionale: cfr. motivazione sentenza pag. 4 e 6), non fornisce alcuna specifica argomentazione della asserita violazione dei principi di diritto comunitario, nè degli artt. 1226 e 2043 c.c., difettando pertanto il motivo di ricorso del requisito di ammissibilità prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Ed infatti, utilizzando il criterio equitativo – previsto espressamente dagli artt. 1223 e 1226 c.c., anche per la liquidazione del “mancato guadagno” – il Giudice di merito: a) ha applicato il principio per cui il danno patrimoniale subito deve essere integralmente risarcito, essendo quindi privo di fondamento il rilievo del ricorrente secondo cui si sarebbe trattato di una liquidazione indennitaria dimidiata del danno, lesiva del principio comunitario di un effettivo ristoro delle conseguenze pregiudizievoli determinate dalla violazione del diritto comunitario; b) non ha affatto trattato in modo diverso la determinazione del “quantum” risarcibile per lesione del diritto riconosciuto dall’ordinamento comunitario rispetto a quella di analoghi diritti riconosciuti nell’ordinamento interno, essendo in entrambi casi prevista dalla legge nazionale la liquidazione con criterio equitativo, nel ricorso del presupposto della particolare difficoltà di accertamento della entità del danno.

3.3 La censura volta a denunciare il vizio motivazionale è anch’essa inammissibile. Premesso, infatti, che trova applicazione alla presente controversia l’art. 360 c.p.c., comma 1, nella nuova formulazione introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134, (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012) limitando la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, ne segue che il controllo del vizio di legittimità (fino ad allora esteso anche al processo logico argomentativo fondato sulla valutazione dei fatti allegati assunti come determinanti in esito al giudizio di selezione e prevalenza probatoria, potendo essere censurata la motivazione della sentenza, oltre che per “omessa” considerazione di un fatto controverso e decisivo dimostrato in giudizio, anche per “insufficienza” e per “contraddittorietà” della argomentazione) rimane ormai circoscritto alla verifica del requisito “minimo costituzionale” del provvedimento giurisdizionale prescritto dall’art. 111 Cost., comma 6, ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario – secondo cui tale requisito di validità non risulta soddisfatto soltanto qualora ricorrano quelle stesse ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità, occorre rilevare che, al di fuori delle ipotesi indicate (attinenti alla “esistenza” del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale).

Il vizio motivazionale deducibile per cassazione può consistere, pertanto, soltanto nell’omesso esame di un “fatto storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione ed appaia “decisivo” ai fini di una diversa decisione, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo giustificativo della decisione in relazione alla valutazione compiuta dal Giudice di merito in ordine agli elementi fattuali acquisiti al rilevante probatorio e ritenuti determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (cfr. Corte Cass. SS.UU. in data 7.4.2014 n. 8053).

3.4 Orbene la censura è interamente incentrata su un diverso apprezzamento dei fatti già valutati dal Giudice di appello, peraltro basato su dati meramente astratti ed ipotetici (statistiche ISTAT dei redditi dichiarati dai professionisti forensi), e non evidenzia alcuno specifico “fatto storico”, dimostrato in giudizio e pretermesso ingiustificatamente dal Giudice di appello, tale che – se correttamente rilevato – avrebbe determinato con certezza un esito differente del giudizio, in tal modo pervenendo il ricorrente a formulare una inammissibile richiesta alla Corte di procedere ad una nuova rivalutazione del materiale istruttorio, non consentita in sede di legittimità (cfr. (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5024 del 28/03/2012; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014).

L’intero motivo si risolve sostanzialmente in una diversa soggettiva prospettazione del maggior danno patrimoniale che non compromette la coerenza logica della liquidazione equitativa disposta nella sentenza impugnata, essendo sufficiente che il Giudice dia l’indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico in base al quale lo ha adottato, restando così incensurabile, in sede di legittimità, l’esercizio di questo potere discrezionale (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 17492 del 09/08/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 21246 del 29/11/2012).

p. 4. Con i motivi terzo, quarto e quinto il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 345 c.p.c., per novità della domanda – formulata dalla Presidenza del Consiglio con i motivi di gravame – di restituzione del maggior importo versato a titolo risarcitorio in esecuzione della sentenza di primo grado; la violazione dell’art. 2034 c.c., attesa la irripetibilità delle somme versate in adempimento di obbligazioni naturali; la violazione dell’art. 2033 c.c., in punto di liquidazione degli interessi legali sulle somme restituende a far data dal pagamento, anzichè dalla domanda di restituzione, non versando in mala fede il ricorrente, e non trovando applicazione alla fattispecie – per giurisprudenza costante del Giudice di legittimità – la disciplina dell’indebito oggettivo.

4.1 I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente investendo la medesima statuizione, sono tutti infondati.

4.2 Osserva in proposito il Collegio che:

a) il terzo motivo è infondato in quanto la richiesta di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, non costituisce domanda nuova ed è perciò ammissibile in appello: la stessa deve, peraltro, essere formulata, a pena di decadenza, con l’atto di appello, se proposto successivamente all’esecuzione della sentenza, essendo invece ammissibile la proposizione nel corso del giudizio soltanto qualora l’esecuzione della sentenza sia avvenuta successivamente alla proposizione dell’impugnazione (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 16152 del 08/07/2010; id. Sez. 2, Sentenza n. 17227 del 09/10/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 18611 del 05/08/2013 Sez. 3, Sentenza n. 18611 del 05/08/2013). Ed infatti non appena sia pubblicata la sentenza di riforma, vengono meno immediatamente sia l’efficacia esecutiva della sentenza di primo grado, sia l’efficacia degli atti o provvedimenti di esecuzione spontanea o coattiva della stessa, rimasti privi di qualsiasi giustificazione, con conseguente obbligo di restituzione delle somme pagate e di ripristino della situazione precedente (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 26171 del 06/12/2006).

b) il quarto motivo è anch’esso infondato. Questa Corte ha ripetutamente posto in evidenza come l’acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 c.p.c. (e configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame, giacchè successivamente allo stesso è possibile solo la rinunzia espressa all’impugnazione, da compiersi nella forma prescritta dalla legge), consiste nell’accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita: in quest’ultimo caso, l’acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l’interessato abbia posto in essere atti dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè gli atti stessi siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione. Ne consegue che la spontanea esecuzione della pronunzia di primo grado favorevole al danneggiato da parte della Amministrazione pubblica, anche quando la riserva d’impugnazione non venga dalla medesima a quest’ultimo resa nota, non comporta acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 c.p.c., trattandosi di un comportamento che può risultare fondato anche sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 1551 del 26/01/2006; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 1963 del 10/02/2012; id. Sez. 1, Sentenza n. 21491 del 10/10/2014 che puntualizza come il principio valga anche nei confronti della parte vittoriosa in primo grado che richieda e riscuota il pagamento di quanto liquidato in sentenza, non essendo tale condotta significativa della inequivoca volontà di rinunciare alla impugnazione per ottenere la liquidazione di un importo maggiore).

c) il quinto motivo è infondato alla stregua dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità richiamata dallo stesso ricorrente, Ed infatti l’azione di restituzione o riduzione in pristino, che venga proposta, a norma dell’art. 389 c.p.c., dalla parte vittoriosa nel giudizio di cassazione, in relazione alle prestazioni eseguite in base alla sentenza d’appello poi annullata, non è riconducibile nello schema della “condictio indebiti”, perchè si collega ad un’esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza e prescinde dall’esistenza o meno del rapporto sostanziale (ancora oggetto di contesa), nè, in particolare, si presta a valutazioni sulla buona o mala fede dello “accipiens”, non potendo venire in rilievo stati soggettivi rispetto a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti. Il diritto alla restituzione sorge, infatti, direttamente in conseguenza della riforma della sentenza, la quale, facendo venir meno “ex tunc” e definitivamente il titolo delle attribuzioni in base alla prima sentenza, impone di porre la controparte nella medesima situazione in cui si trovava in precedenza. Pertanto, ove si tratti di restituzione di somme, gli interessi legali, in applicazione delle regole generali sui crediti pecuniari, devono essere riconosciuti dal giorno del pagamento (non da quello della domanda), e, con pari decorrenza, vanno attribuiti gli eventuali ulteriori danni di cui all’art. 1224 c.c., comma 2 (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 2841 de/ 13/06/1989; id. Sez. L, Sentenza n. 16559 del 05/08/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 3758 del 19/02/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 21992 de/ 19/10/2007; id. Sez. L, Sentenza n. 14178 del 18/06/2009).

p. 5. Il motivo quinto bis (violazione dell’art. 2935 c.c.) è manifestamente inammissibile per carenza di interesse alla impugnazione, in quanto il ricorrente denuncia la scorretta applicazione da parte della Corte d’appello delle norme sulle prescrizione ordinaria dei diritti, senza tuttavia, da un lato, individuare la statuizione oggetto di critica e non avvedendosi, dall’altro, che il Giudice di merito ha risolto favorevolmente al legale la questione di prescrizione del diritto al risarcimento del danno eccepita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, avendo qualificato la responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario come derivante da inadempimento ad una obbligazione ex lege, con la conseguente applicazione della prescrizione decennale dei diritti (non essendo stata attribuita efficacia retroattiva alla norma di cui alla L. n. 183 del 2011, art. 4, comma 43, che introduce la prescrizione breve quinquennale), ed avendo accertato che detta prescrizione non era decorsa atteso che i danni patrimoniali risalivano a data successiva al settembre 1993 (disconoscimento da parte del Consiglio dell’ordine degli avvocati del titolo professionale e conseguente rifiuto di iscrizione nell’albo) e che l’atto di citazione in giudizio risultava notificato tempestivamente in data 8.3.2003, rendendosi quindi del tutto irrilevante l’argomento sostenuto dal ricorrente secondo cui anche la prescrizione breve non sarebbe decorsa avendo il legale notificato plurimi atti interruttivi: il ricorrente, infatti, intende pervenire alla stessa decisione allo stesso favorevole (concernente il rigetto della eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento formulata dalla Presidenza del Consiglio) attraverso altra argomentazione giuridica che ritiene più corretta in diritto, e tale motivo in quanto privo di incidenza sulla situazione sostanziale controversa è totalmente carente di interesse.

p. 6. Con il sesto motivo (vizio di violazione dell’art. 1219 c.c., comma 2, e art. 1282 c.c.) il ricorrente si duole della liquidazione degli interessi, al tasso legale, sulla somma determinata a titolo di risarcimento danni, decorrenti dalla sentenza anzichè dalla data dell’illecito.

6.1 Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza.

6.2 La sentenza di appello si è limitata a riformare la decisione di primo grado in punto di determinazione del “quantum” corrispondente al mancato guadagno perduto dal legale in conseguenza dell’inadempimento dello Stato all’obbligo di attuazione del diritto comunitario, ed ha quindi correttamente liquidato tale danno (calcolato in base agli importi rilevati dal CTU al 2004 data di deposito dell’elaborato peritale) alla attualità.

Come è noto il debito illiquido, tali sono i crediti di valore come il diritto al risarcimento del danno, una volta accertato in sentenza attraverso la “aestimatio”, determinazione del valore patrimoniale alla data dell’illecito, e la “taxatio”, e cioè la rivalutazione, della corrispondente somma, per eventuale deprezzamento della moneta, fino alla data della liquidazione, si trasforma in credito di valuta – liquido ed esigibile – e pertanto su di esso decorrono dalla data della sentenza soltanto interessi aventi natura corrispettiva (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5008 del 08/03/2005; id. Sez. 2, Sentenza n. 8507 del 14/04/2011).

Orbene gli interessi liquidati nel dispositivo della sentenza di appello, in assenza di ulteriore specifica indicazione, sono quelli che corrono sull’importo come liquidato in sentenza a tiolo risarcitorio, e dunque hanno natura corrispettiva, non integrando, pertanto, una componente del danno patrimoniale da lucro cessante che era già stato liquidato alla attualità.

La critica del ricorrente a tale statuizione risulta, quindi, del tutto fuori centro, atteso che al momento dell’illecito ed alla costituzione in mora ex art. 1219 c.c., comma 2, n. 1), difettavano le condizioni di esigibilità e liquidità del credito espressamente richieste dall’art. 1282 c.c. (la cui violazione è denunciata dal ricorrente) per la decorrenza degli interessi nelle obbligazioni pecuniarie, realizzatesi soltanto alla data della sentenza. Va pertanto esente da censura la statuizione della sentenza d’appello in punto di decorrenza degli interessi corrispettivi.

B-Esame dei motivi del ricorso incidentale.

p. 7. Con il primo motivo la ricorrente incidentale deduce il vizio di violazione L. n. 117 del 1988, impugnando la statuizione della sentenza di appello che ha confermato, sia pur ridimensionando la misura del risarcimento, la responsabilità dello Stato legislatore, per la ritardata ed inesatta trasposizione della direttiva 89/48/CEE del Consiglio del 21 dicembre 1988.

7.1 Il motivo, in disparte i pur palesi profili di inammissibilità per la genericità delle censure che, se riferite alla responsabilità per danno non patrimoniale (esclusa dalla Corte di appello) sarebbero inammissibili per carenza di interesse – è infondato.

La pronuncia del Giudice di appello deve ritenersi corretta in relazione alla domanda risarcitoria del danno patrimoniale (mancato guadagno) derivante dal mancato adeguamento dell’ordinamento interno alle norme di fonte primaria e derivata dell’ordinamento comunitario, avuto riguardo all’iter normativo sopra descritto e ai principi giurisprudenziali richiamati al paragrafo 2.2. della motivazione.

p. 8. Il secondo motivo del ricorso incidentale (violazione degli artt. 2946, 2947 e 2043 c.c.) con il quale si impugna la statuizione di rigetto della eccezione di prescrizione, è inammissibile, non contenendo alcuna puntuale critica agli argomenti svolti nella sentenza di appello e conformi ai principi di diritto enunciati in materia da questa Corte.

La Presidenza del Consiglio si è limitata a reiterare il motivo di gravame senza addurre alcuna confutazione alle ragioni della sentenza impugnata, abdicando in tal modo all’obbligo imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, di specificità della censura: ed infatti il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo: con riferimento al ricorso per cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un “non motivo”, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4 (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 359 del 11/01/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 5444 del 14/03/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 18209 del 28/08/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 17330 del 31/08/2015).

p. 9. Il terzo motivo del ricorso incidentale con il quale viene dedotto il vizio di “insufficiente e contraddittoria” motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in punto di accertamento della responsabilità dello Stato per i danni patrimoniali (mancato guadagno) cagionati a causa dell’inadempimento all’obbligo di adeguamento del diritto interni al diritto comunitario, è manifestamente inammissibile, sia in quanto tende a riproporre una diversa rivalutazione degli elementi istruttori già esaminato dal Giudice di merito, sia in quanto viene a dedurre un vizio della sentenza non contemplato nell’elenco tassativo dei vizi di legittimità sindacabili dalla Corte, trovando applicazione “ratione temporis” la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), come introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, conv. in L. n. 134 del 2012, che limita la verifica di legittimità al requisito di validità della sentenza costituito dal “minimo costituzionale” della motivazione richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, dovendo richiamarsi al riguardo le considerazioni già svolte nel precedente paragrafo 3.3 della presente motivazione.

p. 10. In conclusione, vanno rigettati entrambi i ricorsi, con compensazione integrale delle spese di cassazione per la reciproca soccombenza.

Sussistono i presupposti per l’applicazione il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che dispone l’obbligo del versamento per il ricorrente principale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato nel caso in cui la sua impugnazione sia stata integralmente rigettata, essendo iniziato il procedimento in data successiva al 30 gennaio 2013 (cfr. Corte Cass. SU 18.2.2014 n. 3774). Analogo obbligo di versare, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non può trovare applicazione invece nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5955 del 14/03/2014; id. Sez. 6 – L, Sentenza n. 23514 del 05/11/2014; id. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 1778 del 29/01/2016).

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale;

– dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio;

– dichiara che sussistono i presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale della somma prevista dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 21 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2016

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