Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19374 del 30/09/2016


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Cassazione civile sez. III, 30/09/2016, (ud. 26/01/2016, dep. 30/09/2016), n.19374

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – rel. Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14973/2013 proposto da:

E.L., (OMISSIS), nella qualità di procuratore speciale dei

signori G.T., G.M., G.S.,

G.D., G.N., GH.ST., GH.NE.,

G.C., G.C., rispettivamente n.q. di

moglie, figli gemelli, genitori e fratelli di G.I., tutti

in proprio e quali eredi di G.I., elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 70, presso lo studio

dell’avvocato MAURIZIO MASSATANI, procuratore antistatario, che lo

rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

AXA ASSICURAZIONI SPA, in persona del Procuratore Dott.

R.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA APRICALE 31, presso lo

studio dell’avvocato MASSIMO VITOLO, che la rappresenta e difende

unitamente agli avvocati MARCO RODOLFI, FILIPPO MARTINI giusta

procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti –

e contro

C.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1717/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 13/06/2012, R.G.N. 2078/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

26/01/2016 dal Consigliere Dott. GIACOMO TRAVAGLINO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

I FATTI

E.L., in rappresentanza della moglie e dei figli di G.I. (oltre che dei genitori e dei fratelli residenti in (OMISSIS)), convenne dinanzi al Tribunale di Milano C.I. e A. (rispettivamente, conducente e proprietario dell’autovettura (assicurata presso la AXA s.p.a.) che aveva investito il ciclomotore condotto dal G., cagionandone la morte (intervenuta dopo alcuni giorni dal fatto), chiedendo loro il risarcimento dei danni, in proprio e nella qualità di eredi del defunto, patiti in conseguenza del sinistro.

Il giudice di primo grado, preso atto che gli istanti avevano rinunciato alle domande proposte iure haereditario, accertata la responsabilità concorsuale di entrambi i conducenti, accolse la domanda.

La corte di appello di Milano, investita dell’impugnazione proposta in via principale da C.A. e dalla Axa Assicurazioni, e in via incidentale dagli odierni resistenti, dichiarò quest’ultimi decaduti dall’appello incidentale, accolse in parte il gravame principale, rideterminò nella maggior misura del 75% la percentuale di colpa concorrente della vittima e ridusse proporzionalmente gli importi risarcitori riconosciuti agli attori in prime cure, liquidando conseguentemente le spese del giudizio.

Per la cassazione della sentenza della Corte meneghina E.L. ha proposto ricorso sulla base di 8 motivi di censura illustrati da memoria.

Resiste la sola Axa Assicurazioni con controricorso.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è infondato.

Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in relazione all’art. 436 c.p.c., comma 3.

Sostiene parte ricorrente che il termine previsto dall’art. 436 c.p.c., comma 3, non possa considerarsi violato, dato che la memoria di costituzione contenente l’appello incidentale è stata depositata in ossequio a detto termine.

Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in relazione all’art. 153 c.p.c., comma 2.

– violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., per essere stata erroneamente rigettata la richiesta di rimessione in termini ex art. 153, comma 2, ovvero art. 184 bis, per fatto non addebitabile alla parte.

Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione all’art. 153 c.p.c., comma 2, per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per non avere la Corte di appello motivato il rigetto dell’istanza de qua.

Le censure, da esaminarsi congiuntamente attesane la intrinseca connessione, non hanno giuridico fondamento.

Esso si infrangono, difatti, sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello (ff. 4-5 della sentenza impugnata, ove si legge una puntuale e condivisibile ricostruzione della concreta vicenda processuale) nella parte in cui ha ritenuto che la mancata notifica, a cura della parte appellata, della memoria difensiva contenente l’appello incidentale nel termine di 10 giorni ante udienza di discussione avesse determinato la decadenza ex lege di tale impugnazione, applicando alla fattispecie concreta, del tutto correttamente, i medesimi principi affermati, in subiecta materia, da questa Corte di legittimità in tema di appello principale (il riferimento è a Cass. ss.uu. 20604/2008), principi che, contrariamente all’assunto dei ricorrenti, non possono ritenersi circoscritti “esclusivamente all’ipotesi “di vizi legali nell’atto introduttivo del giudizio”, senza estendersi “a quelli riguardanti un giudizio già incardinato in cui siano presenti le parti processuali cui deve essere notificato l’appello incidentale”.

Altrettanto correttamente, la Corte territoriale ha disatteso l’istanza di rimessione in termini, osservando, con motivazione scevra da vizi logico-giuridici (che il collegio interamente condivide), che l’attività del domiciliatario – in relazione alla quale era stato rappresentata al collegio giudicante l’impossibilità di una tempestiva notifica “dipendente dal combinato disposto di disfunzioni organizzative sia dello studio del domiciliatario, assolutamente diverso come ragione giuridica e struttura rispetto a quello di chi scrive, che della cancelleria” -, così come di ogni altro delegato di cui ci si avvalga nel compimento di attività processuali, non possa ritenersi estranea alla sfera della parte e del suo difensore, e che eventuali carenze della attività stessa non possano essere invocate, quale causa non imputabile, ai fini della remissione in termini.

Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., censurandosi, in particolare, la mancata applicazione del principio di non contestazione, sicchè la parte appellante non ha contestato quanto dedotto nella CTU di parte, ed ancora la mancata applicazione dell’art. 2697 c.c., visto che la parte appellante non ha confutato con appositi elaborati peritali quanto sostenuto in quella perizia, nè il giudice avrebbe potuto, come invece ha fatto, rimediare a tale omissione difensiva.

Con il quinto motivo, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione agli artt. 1223, 1226, 2056, 2059 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c. e alla luce dei principi di diritto sanciti da Cass. 24426/08 e 4797/07. Motivazione incongrua e carente sotto il profilo dell’omesso esame della CTU redatta dalla difesa attorea nell’interesse dell’assistito.

Le censure, da esaminarsi congiuntamente, con le quali ci si duole dell’omessa valutazione, da parte della Corte territoriale, di una consulenza cinematica di parte allegata agli atti del processo – sostenendosi, per altro verso, che la difesa di controparte non ne avrebbe mai contestato le conclusioni – appaiono del tutto infondate.

Il giudice d’appello, contrariamente all’assunto dei ricorrenti, ha, difatti, espressamente considerato e valutato il comportamento processuale dell’appellante Axa, evidenziando come il contenuto dei relativi atti difensivi fosse del tutto incompatibile con qualsivoglia ipotesi di acquiescenza a tali risultanze, e ciò con apprezzamento di fatto correttamente motivato e scevro da qualsivoglia vizio logico-giuridico e perciò solo incensurabile in questa sede (considerando inoltre, con ulteriore apprezzamento di merito solo ad essa demandato, non utilizzabile, nè comunque decisiva, la perizia di parte – che, per costante giurisprudenza di questa Corte regolatrice, costituisce mera allegazione difensiva di carattere tecnico, priva di autonomo valore probatorio: per tutte, Cass. 5687/2001 -, espletata in assenza di qualsiasi contraddittorio).

Con il sesto motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1227, comma 1 e art. 2054, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per errata applicazione della norma codicistica che presiede all’individuazione del fatto colposo del creditore, o, rectius, del danneggiato, e mancata osservanza della norma che disciplina il concorso di cause.

La censura è inammissibile.

Premesso che la decisione impugnata si fonda su una analitica, esauriente e condivisibile valutazione dei fatti di causa, che non trascura alcun elemento probatorio emerso nel corso del giudizio, e che la funzione sussidiaria della presunzione di colpa trova applicazione nella sola ipotesi in cui non risulti possibile in concreto (e diversamente che nel caso di specie) l’accertamento della misura delle rispettive responsabilità, la doglianza appare destinata ad infrangersi sul corretto impianto motivazionale adottato dal giudice d’appello, dacchè essa, nel suo complesso, pur formalmente abbigliata in veste di denuncia di una (peraltro del tutto generica) violazione di legge (oltre che, sia pur implicitamente, di un decisivo difetto di motivazione), si risolve, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito.

Il ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza realmente rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perchè la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite (nella specie, del tutto rispettato) che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva.

E’ principio di diritto ormai consolidato quello per cui l’art. 360 c.p.c., non conferisce in alcun modo e sotto nessun aspetto alla corte di Cassazione il potere di riesaminare il merito della causa, consentendo ad essa, di converso, il solo controllo – sotto il profilo logico-formale e della conformità a diritto – delle valutazioni compiute dal giudice d’appello, al quale soltanto, va ripetuto, spetta l’individuazione delle fonti del proprio convincimento valutando le prove (e la relativa significazione), controllandone la logica attendibilità e la giuridica concludenza, scegliendo, fra esse, quelle funzionali alla dimostrazione dei fatti in discussione (salvo i casi di prove cd. legali, tassativamente previste dal sottosistema ordinamentale civile).

Il ricorrente, nella specie, pur denunciando, formalmente, una pretesa violazione di legge ed un conseguente, sostanziale deficit di motivazione della sentenza di secondo grado, inammissibilmente (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecita a questa Corte una nuova valutazione di risultanze di fatto (ormai cristallizzate quoad effectum) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così mostrando di anelare ad una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai cristallizzato, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione procedimentale, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello – non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata -, quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità.

Con il settimo motivo, si denuncia violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 e 4, in relazione agli artt. 1223, 1226, 2056, 2059 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c.; motivazione incoerente in ordine alla liquidazione del danno patrimoniale con i principi regolatori di tale fattispecie stabiliti dalla giurisprudenza.

La censura è infondata.

Il giudice milanese, dopo aver analiticamente indicato i criteri adottati nel liquidare tale voce di danno, si è conformata tout court all’insegnamento di questa Corte, predicativo della correttezza del criterio di calcolo funzionale alla determinazione del danno futuro sulla base della detrazione dal reddito del carico fiscale, senza che, in senso contrario, potesse legittimamente invocarsi il disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, che espressamente esclude l’ipotesi di acquisizione di cespiti in dipendenza da invalidità permanente o di morte (Cass. 10304/2009).

Con l’ottavo motivo, si denuncia violazione di legge ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, in relazione agli artt. 1223, 1226, 2056, 2059 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c.; motivazione erronea siccome non conforme al principio di diritto affermato dalle sezioni unite nella sentenza 1712/1995.

Il motivo, scarsamente comprensibile nella sua illustrazione, è palesemente infondato, avendo la Corte territoriale fatto corretta applicazione proprio del principio indicato dal ricorrente in tema di rivalutazione del danno e relativi interessi, siccome affermato dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza sopra indicata.

Il ricorso è pertanto rigettato.

Le spese del giudizio di Cassazione seguono il principio della soccombenza.

Liquidazione come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di Cassazione, che si liquidano in complessivi Euro 8200, di cui Euro 200 per spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quarter, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il controricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2016

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