Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19371 del 21/08/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 19371 Anno 2013
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: MANNA ANTONIO

SENTENZA
sul ricorso 30216-2007 proposta?, da:

5u, n e/2\

0641 39

BELLI MARIO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE
PASTEUR 5, presso lo studio dell’avvocato ALVAllI DEL
FRATE ALBERTO, che lo rappresenta e difende unitamente
all’avvocato PAPARATTI FERDINANDO, giusta delega in
atti;
– ricorrente –

2013
2150

contro
AUSL FROSINONE, in persona del legale rappresentante
pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA
LUCULLO 3, presso lo studio dell’avvocato SOLE

Data pubblicazione: 21/08/2013

GIANLUCA,

rappresentata e difesa dagli avvocati

CIAMARRA RENATO, PANNONE OTTAVIO;
controricorrente –

avverso la sentenza n. 976/2007 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 19/09/2007 r.g.n. 9822/04;

udienza del 18/06/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO
MANNA;
udito l’Avvocato CIAMARRA RENATO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIANFRANCO SERVELLO, che ha concluso
per il rigetto del ricorso.

udita la relazione della causa svolta nella pubblica

R.G. n. 30216/07
Ud. 18.6.13
Belli c. AUSL Frosinone

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 19.9.07 la Corte d’appello di Roma rigettava il
gravame interposto da Mario Belli contro la pronuncia con cui il Tribunale di

Cassino, parzialmente accogliendo la domanda avanzata dal Belli medesimo nei
confronti della Azienda Unità Sanitaria Locale di Frosinone, aveva dichiarato
l’illegittimità dei plurimi contratti a termine stipulati fra le parti tra il 1997 e il
2002, ma aveva escluso l’invocata conversione del rapporto in uno a tempo
indeterminato ed aveva altresì negato il risarcimento del danno per perdita di
chance.
Per la cassazione della sentenza della Corte territoriale ricorre il Belli affidandosi
a due motivi.
L’Azienda Unità Sanitaria Locale di Frosinone resiste con controricorso, poi
ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1- Con il primo motivo si lamenta vizio di motivazione nella parte in cui
l’impugnata sentenza ha negato la conversione del rapporto a termine, pur
dichiarato illegittimo perché più volte prorogato in violazione di norme imperative,
in uno a tempo indeterminato alle dipendenze dell’Azienda Unità Sanitaria Locale
di Frosinone.
Tale motivo — che in realtà non censura la ricostruzione in fatto, ma solo gli
argomenti di diritto esposti dall’impugnata sentenza nel negare la conversione del
rapporto – si colloca all’esterno dell’area dell’art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c., in quanto il
vizio di motivazione spendibile mediante ricorso per cassazione concerne solo la
motivazione in fatto, giacché quella in diritto può sempre essere corretta o meglio
esplicitata, sia in appello che in cassazione (v. art. 384 ult. co . c.p.c.), senza che la
sentenza impugnata ne debba in alcun modo soffrire.
Invero, rispetto alla questione di diritto ciò che conta è che la soluzione adottata
sia corretta ancorché malamente spiegata o non spiegata affatto; se invece risulta
erronea, nessuna motivazione (per quanto dialetticamente suggestiva e ben
costruita) la può trasformare in esatta ed il vizio da cui risulterà affetta la
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Ud. 18.6.13
Belli c. AUSL Frosinone

pronuncia sarà non già di motivazione, bensì di inosservanza o violazione di legge
o falsa od erronea sua applicazione.

2- Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1
d.lgs. n. 368/01 – da applicarsi in luogo della legge n. 230/62 non solo per l’ultimo
contratto a termine, ma anche per il penultimo (scaduto il 5.3.2002) — e dell’art. 5
co. 3° stesso d.lgs. n. 368/01, che dispone la conversione dell’illegittimo rapporto a
termine in uno a tempo indeterminato; tale art. 5 — prosegue il ricorso — va applicato
in luogo dell’art. 36 d.lgs. n. 165/01, erroneamente richiamato dalla Corte
territoriale nonostante che si debba ritenere implicitamente abrogato per
incompatibilità con l’art. 11 ; in subordine – conclude il ricorrente — anche soltanto
ai sensi dell’art. 36 d.lgs. n. 165/01 è previsto in ogni caso il risarcimento del danno
da illegittima apposizione del termine.
Il motivo è fondato solo nei termini qui di seguito chiariti.
Si premetta che, contrariamente a quanto ipotizzato in ricorso, la norma speciale
(perché relativa ai contratti a termine stipulati da pubbliche amministrazioni)
contenuta nell’art. 36 d.lgs. n. 165/01 non è stata implicitamente abrogata dalla
successiva disciplina generale di cui al d.lgs. n. 368/01, noto essendo il principio,
regolante un’ipotesi di antinomia tra fonti di pari rango, secondo cui lex posterior
generalis non derogat legi priori speciali (v., in motivazione, Cass. 13.1.12 n. 392).
La legge speciale anteriore cede a quella posteriore generale soltanto in caso di
abrogazione espressa oppure di contrasto tra le due disposizioni tale da rendere
giuridicamente impossibile la coesistenza fra le due (cfr., ex aliis, Cass. 30.8.09 n.
1855; Cass. 6.6.06 n. 13252; Cass. 20.4.95 n. 4420).
Nessuna delle due ipotesi ricorre nel caso di specie.
Ora, l’art. 36 d.lgs. n. 165/01 (attuale) comma 5 0 così recita: “In ogni caso, la
violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di
lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la
costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche
amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore
interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di
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R.G. n. 30216/07
Ud. 18.6.13
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lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l’obbligo
di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili,
qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. I dirigenti che operano in

violazione delle disposizioni del presente articolo sono responsabili anche ai sensi
dell’articolo 21 del presente decreto. Di tali violazioni si terrà conto in sede di
valutazione dell’operato del dirigente ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo
30 luglio 1999, n. 286.”.
La norma è chiara e impedisce la costituzione in via di fatto di rapporti di lavoro a
tempo indeterminato con le pubbliche amministrazioni, anche quando l’assunzione
a termine presenti solo vizi di forma.
Tale previsione è stata ritenuta conforme alla Costituzione dalla sentenza n.
89/2003 della Corte cost., atteso che il meccanismo della conversione
contrasterebbe con il principio costituzionale per il quale l’instaurazione del
rapporto di impiego con le pubbliche amministrazioni deve avvenire mediante
concorso, principio posto a presidio delle esigenze di imparzialità e buon
andamento dell’amministrazione di cui al primo comma dell’art. 97 Cost.
Come questa S.C. ha già avuto modo di notare in analogo precedente (v. Cass.
15.6.10 n. 14350) l’incipit del cit. art. 36 co. 5 0 d.lgs. n. 165/01 (“In ogni caso…”) è
categorico e non consente eccezioni là dove afferma che nell’area del lavoro
pubblico non può operare il principio della trasformazione dei rapporti a termine in
rapporti a tempo indeterminato. Se sono state violate norme imperative che
regolano i lavori a tempo determinato il lavoratore potrà, se del caso, chiedere il
risarcimento dei danni subiti e le amministrazioni avranno l’obbligo di recuperare le
somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili se vi è stato dolo
o colpa grave. Ma il lavoratore non potrà, per questa via, instaurare con
l’amministrazione un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Si noti che la disposizione contenuta nel cit. art. 36 cit. non fa altro che riproporre
un principio preesistente e più volte affermato dalla giurisprudenza del Consiglio di
Stato (riguardo a rapporti di impiego all’epoca rientranti nella sua giurisdizione: cfr,
ad esempio, Cons. Stato 28.4.94 n. 614).

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Belli c. AUSL Frosinone

A ciò si aggiunga che la giurisprudenza di questa S.C. — cui va data continuità — è
costante nello statuire che, in tema di assunzioni temporanee alle dipendenze di
pubbliche amministrazioni, anche per i rapporti di lavoro di diritto privato da esse

instaurati valgono le discipline specifiche che escludono la costituzione di rapporti
di lavoro a tempo indeterminato (ribadite in sede di disciplina generale dal cit. art.
36 d.lgs n. 165/2001), senza che trovi applicazione la legge n. 230/62, atteso che
l’art. 97 Cost., che pone la regola dell’accesso al lavoro nelle pubbliche
amministrazioni mediante concorso, ha riguardo non già alla natura giuridica del
rapporto, ma a quella dei soggetti, salvo che una fonte normativa non disponga
diversamente in casi eccezionali, con il limite della non manifesta irragionevolezza
della discrezionalità del legislatore (cfr. Cass. 30.6.11 n. 14435; Cass. 22.8.06 n.
18276; Cass. 24.2.05 n. 3833).
La Corte cost., nel delineare le differenze tra la normativa pubblica e quella
privata, ha rilevato che il principio fondamentale in materia di instaurazione del
rapporto di impiego alle dipendenze della pubblica amministrazione è quello estraneo alla disciplina del lavoro privato — dell’accesso mediante concorso,
enunciato dall’art. 97 co. 3° Cost.
Tale ultima norma, posta a presidio delle esigenze del buon andamento e della
imparzialità della amministrazione, ha reso doverosa la scelta del legislatore di
ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione dei
lavoratori conseguenze esclusivamente risarcitorie in luogo della conversione in
rapporto a tempo indeterminato (prevista, invece, per il lavoro alle dipendenze di
privati).
Proprio la delineata distinzione tra il regime sanzionatorio del settore pubblico e
di quello privato è stata più volte rimarcata dalla giurisprudenza della CGUE (cfr.,
ex aliis, sentenza 1°.10.2010, causa C-3/10, Affatato).
Dunque, il motivo è infondato nella parte in cui lamenta la mancata conversione
del rapporto a termine in uno a tempo indeterminato.
Il motivo è, invece, fondato nei sensi appresso chiariti nella parte in cui investe il
profilo del risarcimento del danno, nel senso che nel caso di specie va applicato
d’ufficio (anche riguardo a rapporto intercorso con una pubblica amministrazione)
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l’art. 32 legge 4.11.10 n. 183, che al co. 5° così dispone: “Nei casi di conversione
del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al
risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura

compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della
legge 15 luglio 1966, n. 604.”.
Il successivo co. 7° stabilisce che “Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano
applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in
vigore della presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai
soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa
alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative
eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’articolo 421 del codice di
procedura civile”.
Secondo costante insegnamento di questa S.C. (cfr., ex aliis, Cass. 26.7.11 n.
16266), nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto una
nuova disciplina del rapporto controverso può applicarsi purché pertinente rispetto
alle questioni poste in ricorso, atteso che i principi generali dell’ordinamento in
materia di processo per cassazione richiedono che il motivo di impugnazione, con
cui è investito, anche indirettamente, il tema coinvolto nella disciplina
sopravvenuta, sia ammissibile secondo la disciplina sua propria. Ne consegue che,
essendo sicuramente ammissibile il motivo di ricorso nella parte in cui coinvolge il
quantum del risarcimento spettante per effetto dell’illegittima apposizione del
termine, può applicarsi d’ufficio il cit. ius superveniens anche nel presente giudizio
di legittimità, come questa S.C. (v., ex aliis, Cass. 2.3.12 n. 3305) ha già avuto
modo di statuire, con indirizzo cui va data continuità.
Invero, per quanto il tenore testuale del co. 5° del cit. art. 32 — riferendosi alla
fissazione di un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative
eccezioni e all’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. – evochi
attività proprie della sede di merito e non di quella di legittimità, nondimeno
escludere il giudizio di cassazione dalla sfera di operatività della norma in discorso
equivarrebbe a discriminare irragionevolmente tra loro situazioni, pur analoghe, in
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base alla circostanza – del tutto fortuita – della pendenza della lite in una fase
piuttosto che in un’altra, assoggettando le parti del rapporto di lavoro ad un regime
risarcitorio diverso a seconda che i processi pendano in primo o secondo grado
oppure innanzi a questa S.C.

E poiché una discriminazione di siffatto tipo è stata già dichiarata
costituzionalmente illegittima da Corte cost. n. 214/09 con riferimento alla
circostanza, accidentale, della pendenza di una lite (in quella occasione si trattava
dell’art. 4 bis d.lgs. 6.9.2001 n. 368, introdotto dall’art. 21, comma 1 bis, d.l.
25.6.2008 n. 112, convertito, con modificazioni, in legge 6.8.2008 n. 133), a fortiori
lo sarebbe se, all’interno della medesima ipotesi fattuale (pendenza della lite), si
operasse un’ulteriore irragionevole distinzione (lesiva, quanto meno, dell’art. 3
Cost.) fra processi pendenti in sede di merito e altri innanzi ai giudici della
legittimità.
Né la doverosa interpretazione costituzionalmente conforme incontra, nel caso di
specie, il limite di un insuperabile contrario tenore letterale della norma.
In proposito si muova dalla rilievo che il riferimento alla fissazione di un termine
per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni e all’esercizio
dei poteri istruttori d’ufficio ex art. 421 c.p.c. è contenuto nel secondo periodo del
comma 7°, in chiave all’affermazione, che si legge nel primo periodo dello stesso
comma, di applicabilità delle disposizioni di cui ai commi 5° e 6° a tutti i giudizi
pendenti alla data di entrata in vigore della legge.
In tal modo il legislatore, piuttosto che segnalare all’interprete un’incompatibilità
del giudizio di legittimità rispetto ad attività proprie del merito, si è limitato a
disciplinare gli effetti della norma una volta ripristinata la sede di merito mediante
cassazione con rinvio conseguente, appunto, all’applicazione dello ius superveniens
sancita nel primo periodo del comma.
In altre parole, il legislatore ha solo ricordato (sempre in ipotesi di previa
applicazione in sede di legittimità dell’art. 32 co. 5° cit.) che il giudice del rinvio
può ovviare al divieto di nuove istanze di prova mediante uso dei poteri istruttori
d’ufficio, esercitabili anche in appello nei limiti di cui all’art. 437 co. 2°, secondo
periodo, c.p.c.
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RG. n. 30216/07
Ud. 18.6.13
Belli c. AUSL Frosinone

Indubbiamente prima facie resta un’apparente distonia sistematica, considerato
che il divieto di novo in secondo grado contenuto nel primo periodo del cit. co . 2°
dell’art. 437 c.p.c. poco si amalgama con il richiamo alla possibilità di fissare alle
parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative

eccezioni, ove ad essere cassata sia (come normalmente avviene, fatti salvi
eventuali ricorsi per saltum) una sentenza di appello, oppure ove il processo penda
ancora in tale fase.
Ma piuttosto che intendere detto richiamo come improbabile deroga all’art. 437
c.p.c. o come divieto di applicazione del co. 5° dell’art. 32 ai giudizi pendenti in
appello o in cassazione (di problematica legittimità costituzionale, come si è detto),
è doveroso risolvere l’improprietà tecnica (nata dall’unificazione, in un solo
periodo, di tutti gli effetti dell’immediata applicazione dello ius superveniens che,
invece, meglio si sarebbe potuta articolare per ciascun grado del processo)
valorizzando l’inciso “ove necessario” e il valore disgiuntivo/inclusivo (di
operatore logico booleano

“Or”) della congiunzione che precede l’ultima

proposizione del comma 7° del cit. art. 32 (“ed esercita i poteri istruttori ai sensi
dell’articolo 421 del codice di procedura civile”).
L’inciso “ove necessario” dimostra che la possibilità di modifiche del petitum e di
esercizio dei poteri istruttori d’ufficio va modulata in ragione, appunto, dello stato e
del grado in cui si trova il processo e affidata all’opera razionalizzatrice
dell’interprete.
Pertanto, tali modifiche (di domande ed eccezioni) potranno eventualmente
rendersi necessarie solo in prime cure, se del caso anche con esercizio dei poteri
istruttori d’ufficio, mentre in appello — proprio grazie al valore disgiuntivo/inclusivo
della congiunzione che precede l’ultima proposizione del comma – resteranno
consentiti solo questi ultimi.
Ribadito, dunque, che il combinato disposto dei commi 5 e 7 del cit. art. 32 è
applicabile anche in sede di legittimità, deve applicarsi il principio di diritto,
analogo a quello già enunciato (oltre che nella citata sentenza Cass. 2.3.12 n. 3305
anche) da Cass. 5.6.2012 n. 9023 e da Cass. 29.2.2012 n. 3056 secondo cui in tema
di risarcimento del danno per i casi di conversione del contratto di lavoro a tempo
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RG. n. 30216/07
Ud. 18.6.13
Belli c. AUSL Frosinone

determinato, lo ius superveniens ex art. 32, commi 5 e 7, della legge n. 183 del 2010
configura, alla luce dell’interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte
costituzionale con sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale ex lege a carico del

liquidato dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dalla novella, a prescindere
dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno
effettivamente subito dal lavoratore (senza riguardo, quindi, ad eventuale aliunde
perceptum), trattandosi di indennità “forfetizzata” e “omnicomprensiva” per i danni
causati dalla nullità del termine.
Ne discende che, premessa l’irrilevanza nel caso di specie di ogni discorso sulla
costituzione in mora del datore di lavoro e sulla prova concreta d’un danno, al Belli
va comunque riconosciuta (solo) un’indennità da liquidare fra un minimo di 2,5 e
un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo
ai criteri indicati nell’art. 8 legge n. 604/66.

3- In conclusione, si rigetta il primo motivo di ricorso, si accoglie nei sensi di cui
sopra il secondo, con conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione
al motivo accolto e con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in
diversa composizione, che dovrà limitarsi a quantificare l’indennità dovuta al Belli
determinandola entro un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 legge n.
604/66.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie nei sensi di cui in motivazione il secondo
motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche
per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.
Così deciso in Roma, in data 18.6.13.

datore di lavoro che ha apposto il termine nullo; pertanto, l’importo dell’indennità è

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