Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19370 del 07/07/2021

Cassazione civile sez. III, 07/07/2021, (ud. 05/05/2021, dep. 07/07/2021), n.19370

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15352-2019 proposto da:

A.E.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CICERONE, 44, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CORBYONS, che

lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ELENA LENZINI,

CLAUDIA LENZINI;

– ricorrente –

contro

(OMISSIS) S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t.,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E.Q. VISCONTI, 103, presso lo

studio dell’avvocato MASSIMO DELLAGO, che lo rappresenta e difende

unitamente agli avvocati FILIPPO MARTINI, MARCO RODOLFI;

– controricorrente –

nonchè contro

G.E., F.A., UNIPOL SAI ASSICURAZIONI S.P.A.;

– intimati –

nonchè nei confronti:

S.S.M., GA.AN., ASSICURATORI DEL LLOYDS’S DI

LONDRA, GI.MA., T.P., ASSOCIAZIONE

PROFESSIONALE C. M. SE.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1721/2018 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata l’8/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/05/2021 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ALESSANDRO PEPE, che ha concluso per l’inammissibilità o il rigetto

del ricorso;

udito l’Avvocato GIOVANNI CORBYONS;

udito l’Avvocato MASSIMO DELLAGO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – G.E. ed A.E.L., in proprio e in qualità di eredi di A.A.A., convennero in giudizio, dinanzi al Tribunale di Bergamo, gli “(OMISSIS) s.r.l.” (già “(OMISSIS) s.r.l.” e di seguito anche solo “(OMISSIS)”) per ottenere la condanna al risarcimento dei danni patiti, iure proprio e iure hereditatis, in ragione di errati interventi medico-chirurgici culminati nell’arresto cardiocircolatorio causativo dell’exitus del congiunto, occorso il (OMISSIS).

1.1. – Con sentenza del 24 maggio 2016, il Tribunale di Bergamo – nel contraddittorio con (OMISSIS), nonchè con i medici S.M.S., Ga.An. e F.A. (chiamati in causa dalla struttura sanitaria) e le compagnie assicuratrici Unipol Sai Assicurazioni S.p.A. e Assicuratori dei Lloyd’s of London (a loro volta chiamate in causa dai sanitari) – condannò (OMISSIS) al pagamento, rispettivamente, in favore di G.E. ed A.E.L., della medesima somma di Euro 1.120.363,14, oltre accessori, rigettando le domande proposte sia da (OMISSIS), che da A.E.L. nei confronti dei sanitari.

2. – Avverso tale decisione proponeva gravame (OMISSIS) volto a censurare unicamente il riconoscimento del danno non patrimoniale sofferto iure hereditatis dagli eredi dell’ A., nonchè del danno patrimoniale da perdita delle utilità economiche.

2.1. – Con sentenza n. 1721/2018, resa pubblica l’8 novembre 2018, la Corte d’Appello di Brescia – nel contraddittorio con gli appellati costituiti G.E. ed A.E.L., nonchè F.A. ed Unipol Sai Assicurazioni S.p.A. e gli appellati contumaci S.M.S., Ga.An., Assicuratori Lloyd’s of London e T.P., nonchè la “Associazione professionale C. M. Se. Avvocati associati” e Gi.Ma. (questi ultimi quali cessionari dei crediti riconosciuti dalla sentenza di primo grado) -, in parziale accoglimento del gravame, condannava (OMISSIS) al pagamento, a titolo risarcitorio, della somma di Euro 1.026.018,63, oltre accessori, in favore di G.E. e della somma di Euro 377.500,00, oltre accessori, in favore di A.E.L..

3.1. – La Corte territoriale, rigettate le preliminari eccezioni di inammissibilità dell’appello avanzate G.E. ed A.E.L. (condivise da F.A.) per asserita genericità dell’impugnazione in violazione dell’art. 342 c.p.c., nel merito, per quanto ancora rileva in questa sede, osservava che: a) in riferimento al danno non patrimoniale sofferto iure hereditatis dagli attori, per un verso, non trovava riscontro, in base alle risultanze della c.t.u., che il de cuius dopo esser stato operato in data (OMISSIS) non avesse più ripreso conoscenza e, per altro verso, in forza delle medesime risultanze, non era condivisibile quanto ritenuto dal primo giudice che lo stesso congiunto deceduto avesse “effettivamente percepito la gravità del suo male ed il rischio di perdita della vita…per ogni giorno che è intercorso dalla prima operazione fino alla morte”, giacchè “in sostanza il tempo in cui effettivamente l’ A. ha potuto percepire il proprio stato di prossima morte può essere limitato a giorni 10 dal 26 settembre al 5 ottobre”, con la conseguenza che “solo questi dieci giorni possono essere valutati al fine di determinare l’entità del risarcimento connesso alla percezione della fine della vita” del de cuius; a.1) “il danno per questa voce (deve) calcolarsi in Euro 25.000 ovviamente da dividersi per ciascuno degli eredi” per aver la sentenza del primo giudice, “senza una specifica contestazione dell’appellante, liquidato l’importo di Euro 2.500 al giorno”; b) in riferimento al danno patrimoniale: b.1) era corretta, anzitutto, la liquidazione del risarcimento in favore di G.E. della somma, destinata al suo mantenimento, di Euro 42.500, “ovvero una somma pari a poco meno di un terzo del reddito netto percepito dal defunto (inferiore a quella destinata a sè medesimo di Euro 47.285), essendo “fatto del tutto connaturale alla normalità dei casi ipotizzare che il defunto avrebbe certamente dedicato al mantenimento della moglie per tutta la durata della sua vita una quota di reddito del tutto paragonabile a quella che avrebbe dedicato al proprio mantenimento”; b.2) era, invece, fondato l’appello “nella parte in cui assume che il defunto avrebbe destinato anche al figlio una somma uguale a quella destinata alla moglie”, in quanto “presunzione che non trova alcun fondamento oggettivo”, là dove, invece, era ragionevole ritenere che “un padre dotato di elevato reddito (potesse) destinare al figlio, anche autonomo sotto il profilo economico, (…) a titolo di aiuto ed integrazione del reddito”, una somma non eccedente Euro 1.000,00 al mese e, quindi, di Euro 12.000,00 all’anno; b.3) “in mancanza di prova rigorosa si deve ritenere che le elargizioni sarebbero cessate una volta che il figlio avesse raggiunto i 43 anni e quindi il (OMISSIS). Non vi sono elementi di nessun genere che possano pensare che il reddito del defunto sarebbe stato destinato anche in minima parte al figlio una volta raggiunta una età in cui il reddito stesso sarebbe diminuito e maggiori sarebbero lAtati i bisogni propri e della moglie”.

4. – Avverso tale sentenza ricorre per cassazione A.E.L., affidando le sorti dell’impugnazione a tre motivi, illustrati da memoria.

Resiste con controricorso (OMISSIS) Ospedalieri s.r.l.

Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli intimati G.E., F.A., S.M.S., Ga.An., Unipol Sai Assicurazioni S.p.A., Assicuratori Lloyd’s of London, T.P., “Associazione professionale C. M. Se. Avvocati associati” e Gi.Ma..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. per non aver la Corte d’Appello accolto l’eccezione di inammissibilità, sollevata sin dalla comparsa di costituzione e risposta in appello, del gravame interposto da (OMISSIS), siccome solo genericamente deducente in riferimento ad entrambi i motivi di impugnazione, in quanto da considerarsi “gravemente lacunoso”. Il gravame, infatti, non conterrebbe nè “l’indicazione delle parti, del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche che vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado”, nè “l’indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata”, bensì formulerebbe soltanto contestazioni generiche, non sussumibili in argomentazioni volte ad incrinare il decisum del primo giudice.

1.2. – Il motivo è infondato in tutta la sua articolazione.

1.3. – Quando, con il ricorso per cassazione, venga dedotto un “error in procedendo”, il sindacato del giudice di legittimità investe direttamente l’invalidità denunciata, mediante l’accesso diretto agli atti sui quali il ricorso è fondato, indipendentemente dalla sufficienza e logicità della eventuale motivazione esibita al riguardo, posto che, in tali casi la Corte di cassazione è giudice del fatto (Cass. 30 luglio 2015, n. 16164; Cass. 21 aprile 2016, n. 8069; Cass., 13 agosto 2018, n. 20716).

Occorre soggiungere, poi, che l’esercizio del predetto potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, in forza dei principi di specificità e localizzazione processuale di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 e n. 6 (Cass., 29 settembre 2017, n. 22880; Cass. 23 dicembre 2020, n. 29495).

Ai fini, peraltro, della valutazione della doglianza rimessa a questa Corte, giova ricordare che l’art. 342 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, va interpretato nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (tra le molte, Cass., S.U., 16 novembre 2017, n. 27199).

1.4. – Nella specie, il ricorrente ha adempiuto all’anzidetto onere di specificazione, là dove ha indicato, e trascritto nel corpo del primo motivo di ricorso (cfr. in particolare p. 1.1. dei “Motivi della decisione”), localizzandoli, gli snodi del gravame interposto da (OMISSIS) in cui si rinvengono le censure indirizzate avverso la decisione dei primo giudice in punto di liquidazione del danno non patrimoniale, nonchè del danno patrimoniale, sofferti iure hereditatis.

1.5. – Censure, queste, che devono ritenersi improntate a specificità, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., per aver (OMISSIS), per un verso, contestato la “errata, ingiusta ed omessa motivazione in ordine alla liquidazione del danno non patrimoniale lamentato dal sig. A.E.L. e dalla sig.ra G.E. iure hereditario” (cfr. pag. 6 e ss. dell’atto d’appello interposto), non avendo questi ultimi “allegato alcuna circostanza idonea ad avvalorare e dimostrare nè che il sig. A.A.A. abbia avuto consapevolezza dell’exitus, nè, tantomeno, la “sofferenza morale” dallo stesso patita nei momenti antecedenti il decesso”, circostanza, questa, “che avrebbe dovuto portare il giudice di prime cure a non riconoscere il danno subito iure hereditatis” (pag. 9).

1.5.1. – Per altro verso, e dunque sul versante della contestazione del riconoscimento del danno patrimoniale lamentato dagli eredi dell’ A., (OMISSIS) ha dedotto – con argomentazioni adeguate rispetto al paradigma di cui all’art. 342 c.p.c., come interpretato dalla citata sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte – la “errata motivazione in ordine al riconoscimento ed alla liquidazione del danno patrimoniale da perdita delle utilità economiche asseritamente” (pag. 9), sulla scorta del rilievo per cui “le argomentazioni adottate dal Giudice di prime cure appaiono errate in primo luogo nella parte in cui è stata sic et simpliciter, ed in mancanza di un principio di prova, ritenuta sussistente la circostanza che il sig. A.A.A. effettuasse stabilmente elargizioni in favore dei propri congiunti. Al di là degli obblighi di contribuzione di cui agli artt. 143 e 147 c.c., infatti, sarebbe stato onere delle parti istanti dimostrare che nel contesto familiare in discussione vi era una pratica di vita improntata a regole etico-sociali di solidarietà e costume tali da rendere ragionevolmente presumibile un tale apporto patrimoniale continuativo, ulteriore appunto a quello derivante dagli obblighi di contribuzione imposti dalla legge” (pag. 15).

2. – Con il secondo motivo, è lamentato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e controverso, ma altresì assenza di motivazione, “in relazione alla ridotta quantificazione del danno cd. catastrofale o danno morale terminale”, per aver la Corte d’Appello disatteso gli esiti dell’espletata consulenza tecnica d’ufficio nel punto in cui, omettendo di indicare le ragioni poste a fondamento dello scostamento dai predetti esiti, “ha ridotto la quantificazione del danno riconosciuto agli eredi dalla sentenza di primo grado sulla base di una asserita percezione di prossima morte limitata a giorni dieci da parte del sig. A.A.A.”.

2.1. – Il motivo è inammissibile in tutta la sua articolazione.

2.1.1. – E’ inammissibile, anzitutto, là dove deduce l’omesso esame di fatto decisivo e controverso per il giudizio.

L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella vigente formulazione (introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012), applicabile ratione temporis (per esser stato, nella specie, l’atto di citazione in appello notificato nel luglio 2016), tipizza nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo.

E’ utile soggiungere, in relazione al vizio in discussione, che le Sezioni Unite, nella sentenza n. 8053/2014, hanno inoltre precisato che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice anche senza dare conto di tutte le risultanze probatorie (tra le più recenti, Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415), dovendo la nozione di fatto decisivo congiungersi ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non riconducibile a questioni o argomentazioni (tra le altre, Cass. 6 settembre 2019, n. 22397).

Ne consegue, con riguardo alle modalità di deduzione del relativo motivo di ricorso, che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extra-testuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti nonchè la sua “decisività”.

La censura, nella specie, non indica affatto un “fatto storico” decisivo, il cui esame sia stato omesso nella valutazione resa dal secondo giudice, poichè la consulenza tecnica d’ufficio (c.t.u.), di per sè, non è suscettibile di esser sussunta nella nozione di “fatto storico” di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quale accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo, ossia a quella sequela di atti ed attività disciplinate dal codice di rito che, dunque, viene a caratterizzare diversa natura e portata del “fatto processuale”, il quale segna il differente ambito del vizio deducibile, in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 La c.t.u. è, pertanto, un atto processuale che svolge funzione di ausilio del giudice nella valutazione dei fatti e degli elementi acquisiti (consulenza c.d. deducente) ovvero, in determinati casi (come in ambito di responsabilità sanitaria), assurge a fonte di prova dell’accertamento dei fatti (consulenza c.d. percipiente). Ne consegue che la c.t.u. costituisce l’elemento istruttorio da cui è possibile trarre il “fatto storico”, rilevato e/o accertato dal consulente, il cui esame il giudice del merito abbia omesso e che la parte è tenuta ad indicare sufficientemente (tra le più recenti, Cass. 9 luglio 2019, n. 18328 in motivazione; Cass. 24 giugno 2020, n. 12387).

Appare, pertanto, evidente che la Corte d’Appello, investita del riesame sul riconoscimento del “danno biologico terminale” o “danno catastrofale”, ha ricostruito, rivalutandolo, in conformità all’espletato accertamento tecnico, l’intervallo di tempo occorso tra le lesioni e la percezione del paziente dell’avvicinamento del proprio fine vita, là dove ha precisato, ricostruendo la vicenda clinica del de cuius, che “in sostanza il tempo in cui effettivamente l’ A. ha potuto percepire il proprio stato di prossima morte può essere limitato a giorni 10 dal (OMISSIS). E solo questi dieci giorni possono essere valutati al fine di determinare l’entità del risarcimento connesso alla percezione della fine della vita” (pag. 10 della sentenza).

Di conseguenza, non avendo il ricorrente descritto quale “fatto storico” decisivo abbia omesso di esaminare la Corte territoriale, la doglianza, veicolata con il vizio in discussione, si riduce alla prospettazione di un vizio di motivazione non coerente con il paradigma attualmente vigente ai sensi del citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel cui ambito non è inquadrabile la censura concernente deficienze argomentative della decisione in punto di recepimento delle conclusioni della c.t.u., esigendo, piuttosto, l’indicazione delle circostanze secondo le quali quel recepimento, sulla base delle modalità con cui si è svolto, si sia tradotto nell’omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione fra le parti (Cass. 26 luglio 2017, n. 18391).

2.1.2. – Altresì inammissibile è l’ulteriore profilo di censura, che evoca “assenza di motivazione” del provvedimento impugnato.

Al riguardo, giova rammentare che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (tra le molte, Cass., S.U., n. 8053/2014).

Nella specie, la Corte d’Appello, come già rilevato, ha espresso la propria adesione alle risultanze della c.t.u., rendendo del tutto comprensibile la ratio decidendi posta a fondamento della statuizione di rivalutazione del quantum del danno non patrimoniale iure hereditatis controverso (cfr. p. 3.1. “Sintesi dei fatti”, da intendersi integralmente richiamata e pagg. 9 e 10 della sentenza).

Non è, pertanto, rinvenibile, nel percorso logico argomentativo fatto proprio dal secondo giudice, alcuna anomalia costituzionale che ridondi in violazione di legge, riducendosi la doglianza di parte ricorrente in critiche inammissibili, poichè rivolte alla sufficienza della motivazione medesima.

3. – Con il terzo motivo, è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 345 c.p.c., ossia delle “norme che regolano l’onere probatorio e delle norme che disciplinano le domande ammissibili nel giudizio di appello”, là dove il secondo giudice ha “erroneamente accolto la richiesta di riforma della sentenza del Tribunale di Bergamo in punto danno patrimoniale” disattendendo il principio per cui “in caso di morte di un congiunto, gli aventi diritto possono reclamare, nei limiti della vita probabile della vittima, il risarcimento del danno patrimoniale per la durata della loro vita presumibile”. In particolare, avendo esso A. rappresentato, sin dal primo grado di giudizio, i fatti a fondamento della pretesa risarcitoria (a) “la convivenza del padre con il figlio”; b) “la produzione da parte del sig. A.A. di importanti redditi derivanti dall’esercizio dell’attività imprenditoriale e dalle spiccate capacità personali del de cuius attività che, a causa del decesso, hanno avuto un grave tracollo”; c) “le aspettative di vita in relazione all’età”) e non essendo stati tali fatti contestati tempestivamente da (OMISSIS), sarebbe “incontestabile che l’attore ha provato il proprio diritto al risarcimento del danno patrimoniale e che, in ogni caso, per effetto della mancata contestazione da parte della convenuta, il diritto a tale risarcimento non potesse essere oggetto di alcuna diversa statuizione da parte del giudice d’appello come invece è avvenuto” in violazione dell’art. 345 c.p.c., in forza della quale norma avrebbero dovuto essere dichiarate inammissibili le contestazioni solo tardivamente proposte della parte convenuta.

3.3. – Il motivo è inammissibile in tutta la sua articolazione.

Le censure muovono, anzitutto, da una erronea commistione di due piani, quello delle allegazioni e quelle della prova dei fatti, così da evocare in modo non pertinente il principio di non contestazione, giacchè esso può operare (a fini probatori) in relazione a fatti, costitutivi, modificativi o estintivi del diritto azionato, ma non anche, come dedotto nella specie, rispetto a fattispecie giuridiche, come l’accertamento del diritto al risarcimento del danno, la cui verificazione spetta al giudice di merito (Cass. 19 agosto 2019, n. 21460). Anche a motivo di ciò, le doglianze stesse non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata.

Infatti, il giudice di secondo grado, lungi dal recepire un diverso piano probatorio rispetto a quello consolidatosi in primo grado – che, in base alla prospettazione del ricorrente, sarebbe stato frutto degli esiti della contestazione in sede di gravame dei fatti originariamente dedotti dall’attore a sostegno della pretesa di ristoro del danno patrimoniale -, ha costruito il proprio ragionamento decisorio proprio sulla scorta di quei fatti, come originariamente allegati (rapporto di parentela e convivenza con la vittima dell’illecito e valore dei redditi di quest’ultima: così ribaditi in ricorso, p. 28), che ha assunto a elementi (noti) del giudizio presuntivo sull’esistenza del danno patrimoniale futuro consistente nella perdita di utilità economiche derivante al congiunto (nella specie, il figlio superstite A.E.L.) dalla perdita della fonte di reddito collegata all’attività lavorativa della vittima dell’illecito (nella specie, il padre deceduto A.A.A.).

Giudizio, questo, che la Corte di merito ha operato in coerente applicazione del principio di dritto, consolidato, per cui detto danno patrimoniale futuro è da valutarsi con criteri probabilistici, in via presuntiva e con equo apprezzamento del caso concreto (e non del mero rapporto di genitorialità, ciò che condurrebbe ad un inammissibile riconoscimento di danno in re ipsa), da liquidarsi in via necessariamente equitativa (Cass., 1 marzo 2007, n. 4791; Cass., 3 aprile 2008, n. 8546; Cass., 19 novembre 2009, n. 24435, Cass., 20 novembre 2018, n. 29830; Cass., 20 febbraio 2020, n. 5099).

4. – Il ricorso va, dunque, rigettato e parte ricorrente condannata al pagamento, in favore di (OMISSIS) s.r.l., delle spese del giudizio di legittimità.

Non occorre provvedere alla regolamentazione di dette spese nei confronti degli intimati che non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 15.000,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per i ricorsi, a norma del citato art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte suprema di Cassazione, il 5 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2021

 

 

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