Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19367 del 18/07/2019

Cassazione civile sez. un., 18/07/2019, (ud. 07/05/2019, dep. 18/07/2019), n.19367

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Presidente di sez. –

Dott. DI IASI Camilla – Presidente di sez. –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2641-2019 proposto da:

A.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RONCIGLIONE

3, presso lo studio dell’avvocato FABIO GULLOTTA, rappresentato e

difeso dall’avvocato EMANUELE PRINCIPI;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI MILANO, CONSIGLIO

DISTRETTUALE DI DISCIPLINA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI MILANO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 170/2018 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE,

depositata il 13/12/2018;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/05/2019 dal Consigliere Dott. MARIA ACIERNO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale MATERA

Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Emanuele Principi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Il ricorrente è stato condannato in via definitiva per il reato di cui all’art. 609 bis e art. 61 c.p., n. 11 alla pena di quattro anni di reclusione. In virtù di tali fatti di rilevanza penale ha subito anche condanna disciplinare in primo grado confermata dal Consiglio Nazionale Forense (d’ora in avanti CNF), consistente nella radiazione. In particolare, al ricorrente è stata contestata la violazione dell’art. 9 del Codice deontologico forense, essendo venuto meno ai suoi doveri di dignità, probità e decoro nell’esercizio dell’attività professionale per aver costretto la parte offesa (sua cliente) ad atti sessuali con violenza approfittando dell’assenza temporanea degli altri collaboratori di studio, all’interno del suo ufficio, condotta meglio descritta nel capo d’incolpazione contenuto nel provvedimento impugnato a pag. 2, ed aver desistito solo per l’arrivo di terzi nello studio stesso.

2. Il CNF, a sostegno della decisione ha rilevato che la sentenza penale definitiva ha costituito giudicato in relazione all’accertamento del fatto, attesa la perfetta coincidenza tra l’imputazione penale e l’addebito disciplinare. Pertanto, coerentemente con tali premesse e del tutto condivisibilmente, è stata rigettata l’istanza di audizione di un teste che avrebbe dovuto fornire una diversa dinamica dei fatti. L’autonomia del giudizio disciplinare riguarda la valutazione dei fatti non l’accertamento degli stessi quando siano coperti da giudicato. Non si ravvisa, pertanto, la violazione dell’art. 54 Legge Professionale. Ha, inoltre, escluso che la sanzione applicata potesse ritenersi eccessiva attesa la estrema gravità degli addebiti e la piena idoneità dei fatti accertati a compromettere l’immagine che la classe forense deve mantenere al fine di assicurare la propria funzione sociale con responsabilità, precisando che l’entità della stessa non è stata frutto di un mero calcolo matematico ma conseguenza della complessiva e concreta valutazione dei fatti.

3. Avverso tale pronuncia è stato proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi preceduti da istanza di sospensione dell’esecutorietà della pronuncia impugnata. Il ricorrente ha anche depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

4. L’istanza di sospensione dell’esecutorietà della pronuncia impugnata, pur astrattamente ammissibile L. n. 247 del 2012, ex art. 36, n. 7 (S.U. 6967 del 2017) risulta assorbita dalla decisione, non ravvisandosi più un autonomo interesse al suo esame.

5. Preliminarmente deve escludersi l’ammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Consiglio Distrettuale di Disciplina ed il Consiglio Nazionale Forense, secondo il costante orientamento di questa Corte (Cass. 16993 del 2017) così massimato: “Nel giudizio di legittimità avverso le decisioni disciplinari del Consiglio Nazionale Forense, come regolato dalla L. n. 247 del 2012, non assume la qualità di parte il Consiglio distrettuale di disciplina, trattandosi di soggetto che riveste una funzione amministrativa di natura giustiziale, caratterizzata da elementi di terzietà, ma priva di potere autonomo di sorveglianza sugli iscritti all’Ordine, sicchè, da un lato, non può essere in lite con questi ultimi, pena la perdita della sua imparzialità, e dall’altro, non è portatore di alcun interesse ad agire/resistere in giudizio; parimenti, il Consiglio Nazionale Forense, che è un giudice speciale, non può essere evocato dinanzi alle Sezioni Unite sui ricorsi avverso le sue sentenze”.

6. Nel primo motivo si denuncia la scorretta composizione del CNF che ha pronunciato in sede giurisdizionale deducendo la violazione del D.P.R. n. 37 del 2012, art. 8, comma 8 e della L. n. 247 del 2012, art. 61, comma 1, perchè il Collegio decidente non avrebbe avuto composizione soltanto giurisdizionale ovvero non ci sarebbe stata, distinzione tra componenti giurisdizionali ed amministrativi dello stesso organo in violazione del principio della terzietà.

La censura, è manifestamente infondata alla luce dell’orientamento delle S.U. contenuto nella recente pronuncia n. 2084 del 2019, che merita piena condivisione, così massimata: “In tema di giudizi disciplinari innanzi al Consiglio nazionale forense, i quali hanno natura giurisdizionale, in quanto si svolgono dinanzi ad un giudice speciale istituito dal D.Lgs.Lgt. n. 382 del 1944, art. 21 (tuttora operante, giusta la previsione della VI disposizione transitoria della Costituzione), la spettanza al Consiglio – in attesa della costituzione, al suo interno, di un’apposita sezione disciplinare L. n. 247 del 2012, ex art. 61, comma 1, – di funzioni amministrative accanto a quelle propriamente giurisdizionali, non ne menoma l’indipendenza quale organo giudicante, atteso che non è la mera coesistenza delle due funzioni ad incidere sull’autonomia ed imparzialità di quest’ultimo nè, tantomeno, sulla natura giurisdizionale dei suoi poteri, quanto, piuttosto, il fatto che quelle amministrative siano affidate all’organo giurisdizionale in una posizione gerarchicamente subordinata, essendo in tale ipotesi (non riscontrabile nella specie) immanente il rischio che il potere dell’organo superiore indirettamente si estenda anche alle funzioni giurisdizionali”.

7. Nel secondo motivo viene censurata la violazione della L. n. 247 del 2012, art. 54 perchè non è stato rispettato nella decisione assunta il principio dell’autonomia della valutazione disciplinare rispetto al giudicato penale. Nella specie, il mancato rispetto del principio si è realizzato in particolare nel ripensamento relativo all’audizione dei testimoni (non sentiti nel processo penale regolato dal rito abbreviato) da parte del Consiglio distrettuale forense, in un primo tempo ammessi e successivamente esclusi per accettazione acritica delle decisioni del giudice penale.

La censura è manifestamente infondata. La valutazione del rilievo disciplinare dei fatti coperti da giudicato è stata svolta in modo del tutto autonomo nella pronuncia impugnata. I fatti accertati in sede penale sono stati qualificati come estremamente gravi e profondamente lesivi dell’immagine della classe forense, con giudizio insindacabile in quanto attinente al merito e sufficientemente motivato. Il rilievo secondo il quale l’incolpazione riguarda i medesimi fatti accertati in sede penale non impone nè consente, proprio in virtù della forza del giudicato, di riaprire l’istruzione probatoria su ciò che è stato oggetto di accertamento penale. La pronuncia impugnata si è, di conseguenza, del tutto legittimamente, limitata ad esprimere la propria valutazione in ordine al peso ed all’entità dei fatti non più riesaminabili, infliggendo con giudizio sindacabile la sanzione ritenuta corrispondente alla gravità delle condotte accertate. Il procedimento seguito dal Consiglio Nazionale Forense è del tutto coerente con i principi elaborati dalle Sezioni Unite di questa Corte. Il giudicato penale fa stato quanto all’accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso; lo stesso però, non esplica alcuna efficacia in ordine alla valutazione sulla rilevanza del fatto e sulla personalità del suo autore sotto il profilo deontologico, essendo tale apprezzamento riservato al giudice disciplinare. (Cass. 18701 del 2012; 15120 del 2013).

8. Nel terzo motivo viene dedotta la violazione dell’art. 21 codice deontologico in relazione all’eccessiva gravità della sanzione inflitta, ritenuta del tutto appiattita sul giudicato penale.

La censura è inammissibile perchè sostanzialmente rivolta ad un rivalutazione del merito del giudizio di congruità della sanzione inflitta. Al riguardo deve rilevarsi che l’adeguatezza della sanzione irrogata non può essere oggetto del controllo di legittimità, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza. (S.U.20344 del 2018). Nella specie tale limite non è stato affatto oltrepassato con riferimento ai fatti contestati e definitivamente accertati, risultando la motivazione del tutto coerente in relazione alla correlazione tra tali fatti e la sanzione in concreto inflitta, oltre ad essere specificamente giustificata in funzione della responsabilità sociale dell’ufficio forense.

9. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Non si deve procedure alla statuizione sulle spese processuali in mancanza di difese della parte intimata.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti del Consiglio Distrettuale di Disciplina e del Consiglio Nazionale Forense.

Rigetta il ricorso proposto nei confronti del Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano.

Sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 7 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2019

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