Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19366 del 18/07/2019

Cassazione civile sez. un., 18/07/2019, (ud. 18/12/2018, dep. 18/07/2019), n.19366

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Primo Presidente f.f. –

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente di sez. –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. SCALDAFEERRI Andrea – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13396-2017 proposto da:

FALLIMENTO (OMISSIS) S.P.A., in persona del curatore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 21/23, presso

lo studio dell’avvocato CARLO BOURSIER NIUTTA, rappresentato e

difeso dall’avvocato SETTIMIO DI SALVO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE DOGANE E DEI MONOPOLI, in persona del

Direttore pro tempore, COMMISSARIO AD ACTA L. N. 289 DEL 2002, EX

ART. 86 in persona del Commissario pro tempore, elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 50/2017 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE

PUBBLICHE, depositata il 16/03/2017;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

18/12/2018 dal Consigliere Dott. MILENA FALASCHI.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Con sentenza n. 50 del 16 marzo 2017 il Tribunale Superiore delle acque pubbliche respingeva l’appello proposto dal Fallimento (OMISSIS) s.p.a. nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze, dell’Agenzia del Demanio e del Commissario ad acta L. n. 289 del 2002, ex art. 86 nonchè del Ministero dello sviluppo economico, rimasto contumace, avverso la sentenza n. 1105 del 2016 emessa dal Tribunale regionale delle acque pubbliche presso la Corte d’Appello di Napoli che aveva rigettato la domanda proposta dal medesimo appellante (con ricorso del 25/26 giugno 2013, in riassunzione dell’originario giudizio introdotto dinanzi al Tar Campania), con la quale aveva chiesto pronunciarsi declaratoria di perdita della qualità di bene demaniale dell’intera particella n. (OMISSIS) di mq 19.450, già integrante l’alveo del fiume (OMISSIS), per averla occupata e trasformata irreversibilmente fin dal 1988 nell’ambito della realizzazione di opere infrastrutturali a servizio di opificio sito nel nucleo industriale del Comune di Calitri, cui seguiva l’ammissione della società (OMISSIS) ai contributi D.L. n. 8 del 1987, ex art. 8 conv. con mod. in L. n. 120 del 1987, con D.P.C.M. 26 luglio 1988, n. 553 e con assegnazione alla stessa della medesima particella per il prezzo di Lire 200.000.000, come da decreto di approvazione del collaudo da parte del Ministero dell’industria, commercio e artigianato del 21.12.2000; contributo revocato in conseguenza del fallimento della predetta società; tuttavia disposta ed espletata procedura arbitrale, questa si concludeva con lodo traslativo in favore della società fallita del lotto in questione; trasferimento perfezionatosi con provvedimento n. 459 del 25.07.2008 del Commissario ad acta L. n. 289 del 2002, ex art. 86; ciò nonostante l’Agenzia del demanio, con provvedimento del 22.12.2011, ribadiva che la particella n. (OMISSIS) apparteneva al demanio dello Stato – ramo idrico, per cui il Commissario ad acta annullava in via cautelativa il decreto di acquisizione con Det. 28 novembre 2011, n. 1012, impugnata dal ricorrente davanti al TAR Campania che dichiarava il proprio difetto di giurisdizione, cui seguiva il giudizio de quo.

Osservava il Tribunale Superiore che abbandonata la tesi della (in)validità del lodo traslativo quale titolo di trasferimento della proprietà (stante la statuizione dei primi giudici dell’impossibilità di trasferimento di un diritto reale da parte di chi non era proprietario), non provato il passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale di Avellino dedotta sul punto, la questione centrale della controversia riguardava la configurabilità o meno di una valida sdemanializzazione di fatto di porzione di alveo di fiume per irreversibile immutazione dovuta alla realizzazione di opere di infrastrutture al servizio di interventi straordinari gestiti dal competente Ministero e previsti dalla disciplina per la ricostruzione dopo gli interventi sismici in Irpinia e Basilicata del 1980/1981, su cui sarebbe anche intervenuto un nulla osta del competente Provveditorato alle opere pubbliche.

Proseguiva affermando che la stessa descrizione astratta delle opere eseguite metteva in evidenza come la modificazione fosse consistita nella realizzazione di canali ed altre infrastrutture volti a rendere compatibile l’insediamento con la contigua sponda fluviale e quindi di opere di adeguamento dell’alveo fluviale alla nuova realtà produttiva. Del resto per giurisprudenza consolidata nel concetto di demanio idrico fluviale andavano ricompresi gli immobili che assumevano natura di pertinenza del medesimo demanio per opera dell’uomo, in quanto destinati in permanenza al servizio del bene principale per assicurarne un più alto grado di protezione dagli andamenti irregolari del regime del corso d’acqua e dalle sue piene. Tanto in armonia col principio di esclusione della c.d. sdemanializzazione tacita anche prima della riforma del 1994, che l’aveva espressamente vietata.

Aggiungeva che nella specie l’immutazione operata era stata giustificata da una ragione di tutela idraulica per adeguare le preesistenti condizioni di sponde e di alveo alle nuove esigenze di stabilità e solidità degli insediamenti produttivi da realizzarsi nelle immediate vicinanze.

Avverso la sentenza del TSAP il fallimento della (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui hanno resistito con unico controricorso il Ministero dell’economia e delle finanze, l’Agenzia delle dogane e dei monopoli ed il Commissario ad acta, rimasto intimato il Ministero dello sviluppo economico.

Il ricorrente ha depositato anche memoria ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 825,826,827,828,829,830 e 831 c.p.c., nonchè dell’art. 2909 c.c. in ragione dell’equiparazione del lodo alla sentenza. In particolare, ad avviso del fallimento erroneamente il Tribunale superiore delle acque pubbliche avrebbe ritenuto abbandonata la questione della efficacia di cosa giudicata del lodo del 2003, che disponeva il trasferimento anche della particella (OMISSIS), senza che fosse stato impugnato dal Ministero delle attività produttive.

Il motivo è inammissibile giacchè con esso non è attinta l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.

E invero la motivazione della sentenza impugnata in questa sede rende evidente che la ratio decidendi non è quella ipotizzata dal ricorrente, avendo il TSAP espressamente considerato l’abbandono di ogni contestazione della tesi dell’invalidità del lodo traslativo “quale valido titolo di trasferimento di proprietà”, per mancata impugnazione sul punto della decisione dei primi giudici, mentre l’argomento relativo al giudicato attiene al contenuto della pronuncia del Tribunale di Avellino, puntualizzando di aver esaminato la rilevanza di entrambi i giudizi dedotti a sostegno della tesi dell’utile cessione della particella in questione.

Non risulta, pertanto, che il TSAP abbia speso oltre all’affermazione della presunzione di rinuncia all’eccezione, non accolta in primo grado, di validità del lodo quale titolo per l’attribuzione della particella (per non provenire l’atto dal Ministero cui è riconosciuta la titolarità del bene demaniale), anche l’argomento della carenza di efficacia di giudicato del lodo medesimo per mancata impugnazione da parte del Ministero competente all’erogazione delle provvidenze previste dalla disciplina di cui alla L. n. 219 del 1981; in sostanza, ha evidenziato la inesistenza di un qualsiasi altro valido atto o provvedimento costituente titolo con finalità di trasferimento del bene medesimo.

Il complessivo rilievo esposto con la censura non è, dunque, idoneo a superare tale ratio decidendi, il cui effettivo contenuto è quello di cui alle pp. 7 e 8 della sentenza.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione della L. n. 219 del 1981, art. 32 per non avere la sentenza impugnata considerata la disciplina speciale di rango legislativo che governa la materia degli interventi industriali nelle zone della Campania e della Basilicata colpite dal sisma, sull’assunto del ricorrente secondo cui la legislazione speciale avrebbe impresso un vincolo di destinazione sulla particella in esame, di natura privatistica e finalizzata all’insediamento industriale, che prevarrebbe rispetto alla asserita proprietà demaniale della stessa. La norma di riferimento sarebbe proprio l’art. 32 invocato, richiamata dallo stesso D.M. Sviluppo Economico 25 luglio 20089, n. 459 tant’è che le domande di finanziamento per progetti industriali erano rimesse proprio alla valutazione dell’allora Ministero dell’industria che, quale organo dello Stato competente in materia, provvide inizialmente a trasferire la proprietà dell’area alla società fallita, in quanto la struttura ministeriale aveva a sua volta ricevuto “in dotazione” quelle parti di aree industriali che erano di proprietà pubblica e ne poteva disporre in ragione della legislazione speciale invocata. Dunque vi sarebbe stata una sdemanializzazione di siffatti beni, operata dalle norme di settore e dall’attività amministrativa che le stesse presupponevano.

Il motivo è infondato per le ragioni di seguito esposte.

La L. 14 maggio 1981, n. 219 (Conversione in legge del D.L. n. 19 marzo 1981, n. 75, recante ulteriori interventi in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del novembre 1980 e del febbraio 1981. Provvedimenti organici per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti), art. 32 (Aree da destinare agli impianti industriali) stabilisce che: “Le regioni Basilicata e Campania, entro 60 giorni dall’entrata in vigore della presente legge, per incentivare gli insediamenti industriali di media e piccola dimensione nonchè quelli commerciali di ambito sovracomunale, individuano le aree a tal fine destinate (comma 1). La individuazione di tali aree è effettuata, su proposta delle comunità montane interessate, con riferimento alle zone disastrate, in coerenza con gli indirizzi di assetto territoriale della regione e con lo obiettivo di assicurare l’occupazione degli abitanti di tali zone (comma 2). Per la progettazione ed attuazione di tutte le opere necessarie all’insediamento e ai servizi di impianti industriali, le comunità montane interessate provvedono con il fondo di cui all’art. 3 (comma 3). In tali aree le iniziative dirette alla realizzazione di nuovi stabilimenti industriali con investimenti fino a 20 miliardi e le cui domande siano presentate entro il 30 giugno 1982 agli istituti di credito a medio termine sono ammesse alle sole agevolazioni finanziarie previste dal precedente art. 21, (comma 4). Le agevolazioni sono concesse dal ministro della industria, del commercio e dell’artigianato, previa istruttoria tecnica degli istituti abilitati all’esercizio del credito industriale a medio e lungo termine (comma 5). Le domande devono indicare il termine entro il quale le iniziative saranno realizzate (comma 6). Trascorso detto termine, per ragioni non dipendenti da forza maggiore e ove la opera non abbia raggiunto il 90 per cento della sua realizzazione, sarà pronunciata la decadenza dei benefici concessi previa diffida all’interessato (comma 6)”.

La ratio di tali disposizioni emerge dalla piana lettura del testo: l’individuazione delle aree è finalizzata ad “incentivare gli insediamenti industriali di media e piccola dimensione, nonchè quelli commerciali di ambito sovracomunale” e ad “assicurare l’occupazione degli abitanti di tali zone (disastrate)” e la loro assegnazione è riservata ai soggetti idonei che promuovano, entri termini certi – da osservare a pena di decadenza dall’assegnazione dell’area, nonchè dai connessi benefici ed agevolazioni di carattere finanziario -, “le iniziative dirette alla realizzazione di nuovi stabilimenti industriali”. Si tratta, all’evidenza, di finalità squisitamente pubblicistiche per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti dagli eventi sismici degli anni 1980 e 1981, al raggiungimento delle quali sono espressamente condizionati i benefici e le agevolazioni previsti dalla legge.

Tali finalità sono state ribadite ed ulteriormente precisate con le disposizioni del D.Lgs. n. 30 marzo 1990, n. 76 (Testo unico delle leggi per gli interventi nei territori della Campania, Basilicata, Puglia e Calabria colpiti dagli eventi sismici del novembre 1980, del febbraio 1981 e del marzo 1982. Ecologia), in particolare – per quanto in questa sede rileva -, con l’art. 39, che disciplina lo “sviluppo industriale delle zone disastrate”.

Successivamente, con D.P.C.M. 6 marzo 1992 (Trasferimento in proprietà dei lotti delle aree infrastrutturate ai sensi del testo unico approvato con D.Lgs. 30 marzo 1990, n. 76, art. 39 alle imprese beneficiarle dei contributi dopo l’approvazione del collaudo finale) emanato per la “necessità di modificare e integrare le disposizioni contenute nelle convenzioni in ordine al trasferimento in proprietà delle aree su cui si sono collocati gli insediamenti industriali, per disciplinare la procedura di trasferimento, nonchè per consentire ai beneficiari l’immediato accesso al credito bancario e la possibilità di fruizione delle agevolazioni previste dalla L. 1 marzo 1986, n. 64” – è stato stabilito: “1. I lotti delle aree, infrastrutturate ai sensi del testo unico approvato con D.Lgs. n. 30 marzo 1990, n. 76, art. 39 provvisoriamente assegnati per la realizzazione di iniziative industriali, sono trasferiti in proprietà alle imprese beneficiarle dei contributi dopo l’approvazione del collaudo finale dell’iniziativa.

2. Il trasferimento è disposto con provvedimento del ministro per gli interventi straordinari nel mezzogiorno, su proposta dell’Agenzia per la promozione dello sviluppo del mezzogiorno che verifica la completa realizzazione dell’iniziativa e l’osservanza delle obbligazioni della concessione”.

E’ evidente che la disciplina è dettata per realizzare le finalità pubblicistiche di sviluppo dell’industria e dell’occupazione nei territori colpiti dagli eventi sismici, perseguite dal legislatore anche attraverso l’assegnazione provvisoria dell’area, caratterizzata – al pari dell’erogazione dei connessi contributi finanziari – dal vincolo di destinazione all’effettiva realizzazione di dette finalità, ma non conferisce alle Amministrazioni competenti anche un potere espresso nel senso della sdemanializzazione e conseguente riclassificazione di beni pubblici tra quelli patrimoniali.

Del resto, come è saldo orientamento di questa Corte Suprema, in materia di sovvenzioni da parte della Pubblica Amministrazione (quale è, appunto, il contributo L. n. 219 del 1981, ex art. 32 e 21 cui attiene la controversia che ne occupa), la posizione del privato nella fase procedimentale successiva al provvedimento attributivo del beneficio può assumere una diversa configurazione giuridica. Di interesse legittimo, nei riguardi del potere della Pubblica Amministrazione di ritirare in via di autotutela (attraverso provvedimenti definitivi di riesame o di secondo grado) il provvedimento attributivo del beneficio, per i suoi vizi di legittimità, ovvero per il suo contrasto, sin dall’origine, con il pubblico interesse. Di diritto soggettivo, nei riguardi sia della concreta erogazione del beneficio finanziario e sia della susseguente conservazione della disponibilità della somma percepita, di fronte alla contraria posizione assunta dalla Pubblica Amministrazione con provvedimenti variamente definiti (di revoca, di decadenza, di risoluzione) assunti in funzione dell’asserito inadempimento, da parte del beneficiario, della disciplina che regola il rapporto avente origine dal provvedimento attributivo del contributo. In particolare, la posizione di diritto soggettivo sussiste tanto nell’ipotesi in cui la regolamentazione del rapporto trovi la sua fonte immediata ed esclusiva nello stesso provvedimento di attribuzione del beneficio, ed abbia, così, natura convenzionale dato che consegue all’adesione del privato alle condizioni fissate dalla Pubblica Amministrazione (Cass., Sez. Un., 30 dicembre 1992 n. 13706), quanto, ed anche, nell’ipotesi che la stessa regolamentazione trovi la sua fonte immediata nella legge (v. Cass., Sez. Un., 10 agosto 1996 n. 7405).

Chiarito – per quanto sopra esposto – che nella specie la pretesa posizione di diritto soggettivo vantata dal ricorrente non trova la sua fonte nella legge, la base di normazione di detto diritto potrebbe essere individuata nel provvedimento di nulla osta idraulico dell’8 aprile 1884 e del conseguente provvedimento di acquisizione coattiva del 2008, qualificato poi radicalmente nullo dal provvedimento del 2011, ma al riguardo correttamente il TSAP ha rilevato che dalla stessa descrizione astratta delle opere assentite ed eseguite sulla particella (OMISSIS) emerge che siano consistite nella realizzazione di canali ed altre infrastrutture volte a rendere compatibile l’insediamento produttivo con la contigua sponda fluviale e quindi si tratta di opere di adeguamento dell’alveo fluviale alla nuova realtà produttiva, onde rendere compatibile il corso di acqua, costituente caratteristica originaria del sito, con le nuove esigenze industriali.

Del resto per consolidata giurisprudenza gli alvei dei fiumi e dei torrenti, costituiti da quei tratti di terreno sui quali l’acqua scorre fino al limite delle piene normali, rientrano nell’ambito del demanio idrico, per cui le sponde o rive interne – ossia quelle zone soggette ad essere sommerse dalle piene ordinarie – sono comprese nel concetto di alveo e costituiscono quindi beni demaniali, a differenza delle sponde e rive esterne che, essendo soggette alle sole piene straordinarie, appartengono, invece, ai proprietari dei fondi rivieraschi, e sulle quali può pertanto insistere un manufatto occupato da persone.

Nella specie il Tribunale superiore delle acque ha ritenuto la demanialità della particella (OMISSIS) su cui erano state costruite le infrastrutture ed i canali in base alla corretta considerazione che del demanio idrico facciano parte anche gli immobili che per l’opera dell’uomo, cioè per sua destinazione, assumano natura di pertinenza di esso. E tale natura ha riconosciuto alla particella in questione sul rilievo che questa, pur non essendo permeata dalle acque di piena ordinaria, era inseparabile strutturalmente dall’alveo e poteva assolvere, con continuità e non per esigenze solo momentanee, la funzione protettiva in caso di piene straordinarie rispetto alla nuova realtà produttiva ivi realizzata. Inoltre ha esattamente rilevato che questo rapporto pertinenziale, il quale sussiste se la destinazione di un bene al servizio di un altro bene sia fatta per assicurare a quest’ultimo un più alto grado di protezione, permane fino al momento in cui l’Amministrazione pubblica manifesti la volontà di sottrarre la pertinenza alla sua funzione, volontà che nel caso concreto non era rivelata da alcun elemento, neanche dalla stabile immutazione dei luoghi, giacchè la presenza di tali infrastrutture hanno la funzione proprio di rendere compatibile la funzione protettiva della stabilità dell’argine con l’insediamento industriale.

In altri termini, facendo applicazione di siffatti principi, il TSAP ha ritenuto che le opere realizzate sulla particella de qua sono strutturalmente inseparabili dall’alveo sì da escludere una sdemanializzazione tacita o in via di fatto.

Con il terzo mezzo il ricorrente lamenta l’omesso esame dei comportamenti della p.a. che avrebbero condotto alla sdemanializzazione di fatto, nonchè omesso esame della circostanza che le opere realizzate sarebbero pertinenti all’opificio.

Anche l’ultima censura non può trovare accoglimento.

Quanto al denunciato vizio di omesso esame di un fatto decisivo, va preliminarmente rilevato che, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5 introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, ed applicabile ratione temporis nel presente giudizio (l’appello avverso la sentenza di primo grado è stato proposto dopo settembre 2012, data di entrata in vigore della legge di conversione del D.L. n. 83 del 2012), va valutata l’ammissibilità della doglianza.

In proposito il Collegio giudica opportuno sottolineare come nessun dubbio possa sussistere, riguardo al ricorso per cassazione avverso le sentenze emesse in grado di appello dal Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, in ordine all’applicabilità della regola, emergente dal combinato disposto dell’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5 secondo la quale la sentenza di appello che risulti fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della sentenza di primo grado (c.d.: “doppia conforme”) non è censurabile con il mezzo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

In questa sede è necessario esaminare la questione se anche nei ricorsi per cassazione avverso le sentenze pronunciate in grado di appello dal Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche trovi applicazione la regola secondo la quale la sentenza di appello fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della sentenza di primo grado (c.d. “doppia conforme”) non è censurabile in cassazione con il mezzo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

L’indicata questione è stata risolta da queste Sezioni Unite in senso affermativo (v. sentenza 21 settembre 2018 n. 22430).

La regola della non censurabilità della “doppia conforme” con il mezzo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 discende dal combinato disposto dell’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5. Il comma 5, infatti, estende (fuori dei casi di cui all’art. 348 bis c.p.c., comma 2, lett. “a”) anche alle sentenze d’appello che abbiano confermato la decisione di primo grado la regola dell’esclusione della ricorribilità per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 dettata dal comma 4 per le ordinanze di inammissibilità dell’appello ex art. 348 ter c.p.c., comma 1, fondate “sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata”; tale regola – ancorchè emergente da disposizioni contenute in un articolo rubricato “Pronuncia sull’inammissibilità dell’appello”, inserito in un capo dedicato alla disciplina dell’appello (capo II del titolo III del secondo libro del codice di rito) – concerne non il giudizio di appello ma il giudizio di cassazione. Questa Sezioni Unite, nella sentenza n. 8053/14, hanno infatti già avuto modo di rilevare, non senza sottolinearne la “non felice collocazione “topografica.””, che l’art. 348 ter c.p.c., comma 5 “attiene non all’appello, ma alle condizioni (e ai limiti) di ricorribilità per cassazione avverso una sentenza d’appello, che avrebbe avuto forse maggior senso prevedere come comma aggiuntivo all’art. 360 c.p.c..” (p. 11, pag. 12).

E’ dunque agevole concludere che detta regola opera nei giudizio di cassazione pur quando la sentenza gravata sia stata emessa in grado appello dal Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, alla stregua del consolidato insegnamento di queste Sezioni Unite che il ricorso alle medesime proposto avverso le sentenze del Tribunale Superiore delle Acque pubbliche è disciplinato dalle norme del vigente codice di procedura civile che regolamentano l’ordinario ricorso per cassazione, atteso che il rinvio operato dal R.D. n. 1775 del 1933, art. 202 alla disciplina del codice processuale del 1865 non deve intendersi come recettizio, ma come rinvio formale, ossia non alle specifiche norme richiamate, bensì al contenuto di esse come mutato nel tempo (Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2016 n. 26127).

Ciò posto, il motivo è da ritenere inammissibile contravvenendo al principio, cui questo Collegio aderisce, per cui nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5 il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 10 marzo 2014 n. 5528), adempimento non svolto nella specie, avendo la sentenza di TSAP esaminato le stesse ragioni poste a base del giudizio di primo grado in ordine alle questioni di fatto relative alle cause dell’asserita sdemanializzazione del particella (OMISSIS).

Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento, in favore delle Amministrazioni controricorrenti, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 6.000,00, oltre alle spese prenotate e prenotande a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 18 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2019

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