Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19353 del 07/07/2021

Cassazione civile sez. VI, 07/07/2021, (ud. 08/04/2021, dep. 07/07/2021), n.19353

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10316-2020 proposto da:

T.K., elettivamente domiciliato presso la cancelleria della

CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, rappresentato e difeso

dall’Avvocato MAURIZIO SOTTILE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende, ope legis;

– resistente –

avverso il decreto R.G. n. 10968/2018 del TRIBUNALE di BOLOGNA,

depositato il 29/02/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata dell’08/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. GIULIA

IOFRIDA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Bologna, con decreto n. cronol. 1411/2020, depositato il 29/2/2020, ha respinto la richiesta di T.K., cittadino del Senegal, di riconoscimento, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria ed umanitaria.

In particolare, i giudici di merito hanno sostenuto che: il racconto del richiedente (essere stato costretto a lasciare il Paese d’origine, sia per motivi famigliari, essendo insorti contrasti con i parenti della prima moglie del padre, i quali avevano ucciso, avvelenandola, la madre, seconda moglie del padre, sia per il timore di essere arrestato avendo egli lavorato come tagliatore di alberi, malgrado il divieto esistente in Senegal) non era credibile (soprattutto in merito al suo coinvolgimento nell’attività illecita di taglio degli alberi, stante la genericità delle dichiarazioni, non circostanziate nè contestualizzate), cosicchè non ricorrevano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b), mentre, quanto all’ipotesi di cui alla stessa L., art. 14, lett. c), la regione del Casamance, secondo le fonti aggiornate consultate, successivamente al 2015 ((OMISSIS), Amnesty International, 2017/018), non era interessata da conflitti armati interni o situazioni di violenza indiscriminata; neppure ricorrevano i presupposti per la chiesta protezione umanitaria, in difetto di personale vulnerabilità del richiedente (anche in relazione a quanto subito nel paese di transito, in Libia) o di un radicamento in Italia (non essendo peraltro sufficiente da solo il percorso di integrazione, linguistica e lavorativa, avviato). Avverso la suddetta pronuncia, T.K. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che dichiara di costituirsi al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione).

E’ stata disposta la trattazione con il rito camerale di cui all’art. 380-bis c.p.c., ritenuti ricorrenti i relativi presupposti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 2, 3, 4, 5, 6 e 14, artt. 8, 27, 2 e 3 CEDU, sia difetto di motivazione, travisamento dei fatti ed omesso esame di fatto decisivo, in relazione alla valutazione della situazione socio-politica del Senegal e della credibilità delle dichiarazioni del richiedente; b) con il secondo motivo, sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 e 14, sia l’omessa valutazione di fatti decisivi, in relazione al mancato riconoscimento della protezione sussidiaria, in rapporto alla condizione socio-politica del Senegal; c) con il terzo motivo, sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, sia l’omesso esame di fatti decisivi, anche in riferimento alla integrazione in Italia, in relazione al diniego della protezione umanitaria.

2. La prima censura è infondata.

Il decreto non risulta affetto da un vizio di radicale carenza di motivazione o motivazione apparente o intrinsecamente illogica.

Come osservato dalle S.U. di questa Corte (Cass. S.U. n. 22232/2016) “La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture” (conf. Cass. n. 16611/2018).

In realtà, il motivo sottende una censura di insufficienza motivazionale che non può essere più avanzata, in sede di legittimità, attesa la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5. Si tratta di una motivazione che non può considerarsi meramente apparente, avendo la Corte territoriale ampiamente articolato la decisione di diniego della protezione internazionale sotto tutti i profili richiesti.

3. Il secondo motivo è inammissibile, in quanto in ricorso si lamenta, del tutto genericamente, un mancato esame delle dichiarazioni rese dal richiedente e della situazione generale di instabilità politica del Paese d’origine e si deduce che la storia personale avrebbe dovuto comunque comportare l’accoglimento della chiesta protezione internazionale, per il solo fatto che il proprio Paese non sarebbe in grado di offrire protezione e che il richiedente verserebbe in caso di rientro in condizione serio pericolo.

In difetto di effettivo omesso esame di fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, deve rilevarsi che il Tribunale ha esaminato puntualmente sia le dichiarazioni rese dal richiedente, ritenute non credibili, sia la situazione del Paese d’origine.

Quanto alla verifica officiosa sulla situazione del Senegal in punto di sicurezza, il Tribunale ha attivato il potere di indagine, consultando fonti internazionali.

Invero, si è già chiarito che, in tema di protezione internazionale, la valutazione di non credibilità del racconto, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate (cfr. Cass. n. 27593/2018 e Cass. n. 29358/2018).

Il ricorrente deduce che vi sarebbe stata una “superficiale valutazione” dei rischi attualmente esistenti nel Paese d’origine.

Anche di recente (Cass. n. 11925/2020), si è affermato che “la valutazione di affidabilità del richiedente è il risultato di una procedimentalizzazione legale della decisione che deve essere svolta alla luce dei criteri specifici, indicati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, oltre che di quelli generali di ordine presuntivo, idonei ad illuminare circa la veridicità delle dichiarazioni rese; sicchè, il giudice è tenuto a sottoporre le dichiarazioni del richiedente, ove non suffragate da prove, non soltanto ad un controllo di coerenza interna ed esterna ma anche ad una verifica di credibilità razionale della concreta vicenda narrata a fondamento della domanda, i cui esiti in termini di inattendibilità costituiscono apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, se non nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Nella specie, tutti gli aspetti significativi della vicenda narrata dal richiedente sono stati esaminati e si è proceduto quindi ad un approfondimento istruttorio, affermandosi, con ampia motivazione, il giudizio di inattendibilità (a fronte di un racconto generico ed intriso di contraddizioni).

La doglianza è altresì inammissibile perchè mira a sostituire le proprie valutazioni con quella, svolta, sulla base di informazioni tratte da fonti attuali, insindacabilmente (al di fuori dei limiti dell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5).

5. Il terzo motivo è inammissibile.

Il ricorrente censura il rigetto della richiesta di protezione umanitaria, lamentando genericamente che il Tribunale non avrebbe vagliato la condizione di particolare vulnerabilità cui sarebbe esposto il richiedente, in caso di rientro nel Paese.

Ora il Tribunale ha ritenuto che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio nè integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nelle recenti sentenze n. 29459 e n. 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

Considerato dunque che le disposizioni in materia non si possono interpretare estensivamente e che il richiedente non allega alcun altra specifica situazione di vulnerabilità, nè indica alcun concreto elemento sulla sua integrazione nel nostro paese, pure tale censura va disattesa.

6. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 8 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2021

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