Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19346 del 07/07/2021

Cassazione civile sez. III, 07/07/2021, (ud. 11/02/2021, dep. 07/07/2021), n.19346

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – rel. Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 176-2019 proposto da:

P.M., e CAR CENTER REFINISH SAS, elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA OVIDIO 36, presso lo studio dell’avvocato

ROBERTO MANCINI, rappresentati e difesi dall’avvocato SALVATORE

INSINNA;

– ricorrenti –

contro

AQUILEIA CAPITAL SERVICES SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

SAVOIA 72, presso lo studio dell’avvocato GIANLUCA MORIANI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNI BATTISTA

CAMPEIS;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 534/2018 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 05/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

11/02/2021 dal Consigliere Dott. DANILO SESTINI;

lette le conclusioni del P.M. in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. FRESA MARIO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

la società Car Center Refinish sas e P.M. proposero opposizione avverso il decreto, emesso a istanza della Hypo Alpe Adria Leasing s.r.l., che ingiungeva loro di pagare la somma di 41.930,84 Euro (oltre accessori) a titolo di canoni di leasing;

il Tribunale di Udine rigettò l’opposizione e confermò il decreto ingiuntivo;

la Corte di Appello di Trieste ha confermato integralmente la sentenza di primo grado;

hanno proposto ricorso per cassazione il P. e la Car Center Refinish s.a.s., affidandosi a cinque motivi; ha resistito, con controricorso, l’intimata Aquileia Capital Services s.r.l. (già Hypo Alpe Adria Leasing s.r.l.);

il P.M. ha rassegnato conclusioni scritte, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

il primo motivo denuncia la violazione e/o la errata applicazione DEL D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 8 e censura la sentenza impugnata per non avere ritenuto che il procedimento di mediazione svolto in primo grado fosse viziato (e comportasse quindi la mancata integrazione della condizione di procedibilità) per il fatto che allo stesso non aveva partecipato la parte personalmente, ma esclusivamente un sostituto del difensore, peraltro privo di procura speciale;

al riguardo, la Corte di Appello ha affermato che il D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 8 non prevede l’obbligatoria presenza personale della parte o la necessità di una procura speciale per il difensore e ha quindi concluso che “la procedura di mediazione è stata svolta (fatto non contestato) sia pure con esito negativo, e pertanto si è maturata la condizione di procedibilità”;

in punto di partecipazione della parte alla mediazione, va ribadito che “nel procedimento di mediazione obbligatoria disciplinato dal D.Lgs. n. 28 del 2010, quale condizione di procedibilità per le controversie nelle materie indicate dall’art. 5, comma 1 bis medesimo decreto (come introdotto dal D.L. n. 69 del 2013, conv., con modif., in L. n. 98 del 2013), è necessaria la comparizione personale delle parti, assistite dal difensore, pur potendo le stesse farsi sostituire da un loro rappresentante sostanziale, dotato di apposita procura, in ipotesi coincidente con lo stesso difensore che le assiste. La condizione di procedibilità può ritenersi, inoltre, realizzata qualora una o entrambe le parti comunichino al termine del primo incontro davanti al mediatore la propria indisponibilità a procedere oltre” (Cass. n. 8473/2019);

va anche precisato che – come ribadito da Cass. n. 25155/2020 – il preventivo esperimento del procedimento di mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda, ma l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza;

nello specifico procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, in cui l’onere di promuovere la procedura di mediazione è a carico della parte opposta (cfr. Cass., S.U. n. 19596/2020), l’eccezione di improcedibilità deve essere sollevata dalla parte opponente;

tanto premesso, deve ritenersi che la parte che deduca, in sede di legittimità, un vizio concernente la procedibilità del giudizio conseguente al mancato (o irrituale) espletamento della mediazione prevista dal D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 1 bis debba anche dedurre che l’improcedibilità è stata tempestivamente eccepita o rilevata d’ufficio, non potendosi altrimenti procedere allo scrutinio della questione;

nello specifico, i ricorrenti non hanno dedotto che l’eccezione sia stata sollevata tempestivamente (nè che vi stato rilievo d’ufficio), avendo soltanto dato atto (a pag. 5) che “nelle more, veniva dato corso alla mediazione delegata, che – tuttavia – non sortiva alcun effetto, attesa la mancata presenza della parte convenuta opposta”;

ne consegue che – come rilevato dal P.M. – il ricorso difetta di autosufficienza in ordine alla tempestività dell’eccezione o del rilievo officioso della improcedibilità e che il motivo risulta pertanto inammissibile;

il secondo motivo deduce genericamente “violazione e/o errata applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3” e censura la sentenza per avere valorizzato la definitività di un precedente decreto ingiuntivo (il n. 1862/2012) in quanto relativo a prestazioni diverse (credito maturato sino al mese di luglio 2012) rispetto a quelle oggetto del presente giudizio (credito successivo al luglio 2012), concludendo che la risoluzione intimata dalla concedente “ai sensi dell’art. 1456 c.c. non può ritenersi legittima”;

il terzo motivo (rubricato genericamente come “violazione e/o errata applicazione di norme di diritto sull’errata applicazione del contratto di leasing finanziario”) censura la parte della sentenza che ha ritenuto che il giudice di primo grado avesse correttamente motivato sul fatto che sia il tasso degli interessi corrispettivi che quello degli interessi moratori non avevano superato la soglia dell’usura e svolge considerazioni sulla esorbitanza del guadagno che la concedente si proponeva di ricavare dall’operazione e sulla “sproporzione della penale contrattuale”;

entrambi i motivi sono inammissibili, giacchè, pur denunciando i vizi in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, non illustrano in alcun modo una errata ricognizione astratta di norme giuridiche, ma si limitano a contestare argomentazioni e conclusioni di merito della Corte, in quanto asseritamente erronee, sollecitando un sindacato di merito che è precluso in sede di legittimità;

col quarto motivo (“omessa valutazione di un fatto storico decisivo risultante dagli atti di causa ex art. 360 c.p.c., n. 5: omessa C.T.U. e difetto di motivazione ex art. 111 Cost.”), i ricorrenti censurano la sentenza per non avere ammesso la c.t.u. e le prove per testi affermando che “non risultano ammissibili o pertinenti le istanze istruttorie formulate da parte appellante, che hanno carattere esplorativo e non possono andare a supplire insufficienti allegazioni. Le istanze di prova testimoniale sono inoltre formulate in modo generico o che richiedono giudizi al teste e pertanto inammissibili”;

il motivo è infondato nella parte in cui denuncia una carenza di motivazione, atteso che – per quanto sopra trascritto – la Corte ha chiaramente indicato le ragioni del mancato accoglimento delle istanze istruttorie;

per il resto, il motivo risulta inammissibile per difetto di autosufficienza, dal momento che non risultano trascritti, nè i capitoli della prova per testi, nè l’istanza di ammissione della c.t.u. rispetto ai quali il motivo richiede di valutare -rispettivamente – l’ammissibilità e la natura non esplorativa;

va escluso, inoltre, che il mancato accoglimento di istanze istruttorie possa integrare l’ipotesi dell’omesso esame di fatti decisivi, potendo rilevare in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 soltanto sotto il profilo del radicale vizio di motivazione che, come detto, non ricorre tuttavia nel caso in esame;

il quinto motivo denuncia “omessa valutazione di un fatto storico decisivo risultante dagli atti di causa ex art. 360 c.p.c., n. 5: omessa valutazione di documenti agli atti e conseguente errata interpretazione di clausole del contratto per cui è causa”: i ricorrenti censurano la Corte per avere affermato che era corretto il rilievo della società appellata secondo cui gli appellanti non avevano censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui si affermava che gli opponenti non avevano provato di avere versato somme superiori ai 179.043,35 Euro indicati dalla società concedente, e per avere concluso che su tale punto della sentenza si era formato il giudicato interno, non risultando più possibile per gli appellanti sostenere di avere versato 242.710,77 Euro;

i ricorrenti rilevano che tale assunto contrasta con quanto affermato altrove dalla Corte di Appello e, trascritto uno stralcio dell’atto di citazione in appello, assumono che la sentenza di primo grado era stata censurata anche in relazione alla cifra effettivamente riscossa dalla società concedente, ribadendo, con richiamo ai documenti prodotti, che la somma versata superava i 242.000,00 Euro;

il motivo, che si diffonde sulla necessità di rivalutare i documenti comprovanti i versamenti effettuati, investe – a monte – il rilievo di giudicato interno compiuto dalla Corte in merito alla somma di cui il primo giudice aveva ritenuto provato il versamento;

al riguardo, deve considerarsi che:

la censura effettiva non si inscrive nell’ambito del vizio indicato in rubrica, giacchè lo stesso non risulta conformato in relazione all’erronea individuazione del giudicato interno;

anche a voler ritenere adeguatamente ed effettivamente censurato il rilievo del giudicato, il motivo risulta tuttavia inammissibile per difetto di autosufficienza: i ricorrenti si sono limitati a trascrivere l’atto di appello, omettendo però di trascrivere i passaggi rilevanti della sentenza di primo grado onde consentire a questa Corte di apprezzare, già in base alla lettura del ricorso, se, in relazione alle ragioni espresse dal Tribunale, i motivi di appello valessero ad escludere la formazione del giudicato sulla mancata prova di versamenti ulteriori rispetto all’importo di 179.042,35 Euro;

le spese di lite seguono la soccombenza;

sussistono le condizioni per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 4.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, al rimborso degli esborsi (liquidati in Euro 200,00) e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2021

 

 

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