Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19344 del 10/09/2010

Cassazione civile sez. lav., 10/09/2010, (ud. 22/06/2010, dep. 10/09/2010), n.19344

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – rel. Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 29152-2006 proposto da:

S.G., già elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

LAURENTINA 640, presso lo studio dell’avvocato OLIVIERI MARIA

CONCETTA, rappresentato e difeso dagli avvocati DI BONAVENTURA MIRCO,

SCIPIONI ANTONELLA e da ultimo domiciliato d’ufficio presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– ricorrente –

contro

D.B.C.;

– intimato –

e sul ricorso 34973-2006 proposto da:

D.B.C., in qualità di titolare dell’omonima ditta,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo

studio dell’avvocato BENITO PIERO PANARITI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato DEL PAGGIO LUCIO, giusta delega in

calce al ricorso;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

S.G., già elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

LAURENTINA 640, presso lo studio dell’avvocato OLIVIERI MARIA

CONCETTA, rappresentato e difeso dagli avvocati DI BONAVENTURA MIRCO,

SCIPIONI ANTONELLA e da ultimo domiciliato d’ufficio presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 797/2005 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 27/10/2005 R.G.N. 177/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/06/2010 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FOGLIA;

udito l’Avvocato DI EUGENIO SAIRA per delega;

udito l’Avvocato DEL PAGGIO LUCIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso del 5.3.2005, D.B.C., titolare di una ditta edile proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Teramo che lo aveva condannato a versare al dipendente S. G. 142.418,84 Euro a titolo di risarcimento dei danni biologico e morale derivanti dall’infortunio da quest’ultimo subito il (OMISSIS).

Secondo il ricorrente l’infortunio si era verificato per esclusiva responsabilità del dipendente.

Quest’ultimo, costituitosi in giudizio, contestava la fondatezza dell’appello e a sua volta chiedeva – con appello incidentale – che la controparte venisse condannata a corrispondergli 425.544,47 Euro, per il danno biologico da invalidità permanente.

Il D.B., deduceva l’inammissibilità dell’appello incidentale e ne chiedeva il rigetto.

Con sentenza del 27 ottobre 2005 la Corte di appello di L’Aquila affermava che l’appellante non aveva rispettato le norme in materia di sicurezza sul lavoro, e che non erano condivisibili le deduzioni circa il danno morale. Ne conseguiva il rigetto dell’appello principale.

Identica sorte meritava l’impugnazione incidentale diretta a censurare la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva limitato l’entità del danno biologico per inabilità permanente risarcibile alla somma di L. 212.250.000: tale era, in effetti, l’esatto ammontare indicato dallo stesso dipendente infortunato.

Senza contare che il Pretore di Teramo, nella sentenza non definitiva n. 379/96, aveva quantificato il petitum nello stesso importo, e tale capo della domanda non aveva formato oggetto di impugnazione da parte del lavoratore.

Contro quest’ultima decisione ricorre il S. con tre motivi, cui replica il D.B. con controricorso e ricorso incidentale, e quindi nuovamente il S. con controricorso e ricorso incidentale. Il D.B. ha depositato memoria illustrativa in prossimità dell’udienza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va preliminarmente disposta ex art. 335 c.p.c., la riunione al ricorso principale, del ricorso incidentale in quanto formulati contro la medesima sentenza.

Il ricorrente chiede l’accoglimento del ricorso e la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio ad altro giudice.

1) Con il primo motivo del ricorso il S. – denunciando la violazione e/o errata interpretazione ed applicazione degli artt. 414, 420, 343 e 345: la Corte di appello, nel rigettare l’appello incidentale – sostiene che nella correzione dell’errore materiale, relativo all’ammontare del danno biologico per inabilità permanente (L. 2.125.0000 in luogo di L. 212.250.000), sia configurabile una mutatio libelli, che, come tale impediva al Tribunale di attribuire beni della vita diversi o maggiori rispetto a quelli richiesti.

In tal modo – secondo il ricorrente – il Giudice di appello non avrebbe riconosciuto il risarcimento dell’intero danno patito nell’ammontare quantificato in primo grado.

2) col secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 277 e 414 c.p.c.): la sentenza di secondo grado deve considerarsi viziata (error in procedendo) nella parte in cui il Giudice aveva provveduto alla qualificazione della domanda non già sulla base dei fatti dedotti, delle richieste avanzate, bensì sulla base della mera correzione di errore materiale, con illegittima obliterazione di ogni altra indagine.

I due motivi – esaminati congiuntamente in quanto logicamente connessi – debbono ritenersi infondati considerando che alle esposte censure la sentenza di appello offre una risposta condivisibile, nella parte in cui, respingendo l’appello incidentale del S., osserva che l’importo di L. 212.250.000 corrispondeva esattamente a quanto precisato dal S. all’udienza del 10 gennaio 1996, con l’ulteriore rilievo che il Pretore di Teramo, nel decidere sull’eccezione di nullità del ricorso introduttivo, aveva già quantificato il petitum nel medesimo importo, e tale capo della sentenza non aveva costituito oggetto di gravame da parte del lavoratore. I primi due motivi di ricorso vanno, dunque, respinti.

3) col terzo motivo, il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 42, 100 e 339 c.p.c., nonchè l’omessa e/o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia:

la Corte territoriale aveva ritenuta preclusa la possibilità di accedere alla riparazione integrale del danno accertato, come richiesto nel ricorso introduttivo e nelle conclusioni dell’appello incidentale, poichè “il Pretore di Teramo … aveva già quantificato il petitum nell’importo sopra specificato e tale capo di sentenza non aveva formato oggetto di impugnazione da parte del S.”.

Nella fattispecie, la mera correzione dell’errore di trascrizione da parte del Pretore di Teramo è priva di autonomia rispetto all’oggetto della tutela giudiziale (risarcimento del danno) atteso che lo stesso Pretore aveva posto chiaramente in relazione quell’elemento con l’oggetto immediato della tutela giurisdizionale, rappresentato dal complessivo atto introduttivo. Appare, quindi, evidente come il ricorrente non fosse tenuto ad impugnare tale capo di sentenza, nè la Corte territoriale ha offerto alcuna motivazione sul punto, così incorrendo nel vizio di difetto di motivazione.

Col proprio controricorso, il resistente deduce l’inammissibilità del gravame interposto dal S. per violazione dell’art. 366 bis c.p.c. (carenza del quesito di diritto).

La censura non può essere condivisa in quanto l’art. 366 bis c.p.c. (che ha introdotto l’obbligo di indicare i quesiti di diritto quale condizione di validità del ricorso per cassazione) è applicabile alla specie, del D.Lgs. n. 40 del 2006, ex art. 27, comma 2 solo allorquando la sentenza impugnata in cassazione sia stata pubblicata in data posteriore al 2 aprile 2006, e non – come la sentenza della Corte di appello di L’Aquila, pubblicata il 27 ottobre 2005.

Col ricorso incidentale il D.B. denuncia:

a)la violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. in relazione agli artt. 116 e 117 c.p.c. e art. 2697 c.c. – errata valutazione delle prove e delle regole di comune esperienza, insufficienza e contraddittoria motivazione: la Corte territoriale avrebbe gravemente errato nella valutazione del materiale probatorio acquisito e non avrebbe tenuto conto di alcuni dati di fatto rilevanti per il giudizio di responsabilità, quali:

– il S. era l’operaio anziano e provvedeva direttamente a distribuire il lavoro tra gli altri operai;

– nessuno gli aveva ordinato di disarmare il ponteggio: si trattò di una sua autonoma iniziativa assunta da solo, corrispondente ad una procedura mai praticata in precedenza.

Segue una lunga e dettagliatissima descrizione delle procedure di sicurezza praticate dal S. nel cantiere della ditta. Dettagli dei quali il giudice dell’ appello non avrebbe tenuto conto affatto, e dai quali è possibile dedurre che l’infortunio in esame costituì la conseguenza di “una serie concatenata di azioni non prevedibili, in quanto assolutamente abnormi, e quindi idonee ad interrompere ogni nesso causale dell’evento con la condotta del D.B.;

b) la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 113, 324 e 333 c.p.c. nonchè dei principi in tema di ultrapetizione; difetto e/o insufficienza della motivazione. Si sostiene che la sentenza di appello, pur avendo posto alla base della decisione la violazione di due norme centrali, l’art. 2087 c.c. e il D.P.R. n. 164 del 1956, art. 16 di quest’ultima, in particolare, non si assume alcun diretta incidenza sull’evento, nè si fa cenno nel dispositivo;

c) la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., degli artt. 16 e 30 del cit. D.P.R.: la sentenza d’appello non affronta i connotati della abnormità ed esorbitanza del comportamento dell’infortunato (rischio elettivo ecc.) rispetto all’infortunio;

d) violazione e falsa applicazione dell’art. 2059 c.c.: censurabile l’affermazione della sentenza di appello secondo cui la risarcibilità del danno morale deve ritenersi connessa non già ad una sentenza penale di condanna, bensì semplicemente con il riconoscimento – operato anche solamente in ambito civile – del fatto che la condotta dannosa integri gli estremi del reato penale.

Se, ad es. vi è sentenza penale di condanna perchè patteggiata la pena, il giudice civile può procedere solo all’accertamento della responsabilità civile della parte con la conseguente impossibilità di una condanna al danno morale che, invece, può essere conseguenza di un reato accertato.

Le tesi sostenute nel ricorso incidentale trovano già una compiuta e coerente smentita nella sentenza della Corte territoriale nella quale si sottolinea come la tesi sostenuta dal D.B. (secondo cui gli operai avrebbero dovuto utilizzare una scala) è smentita sia dalle prove testimoniali, sia dal semplice fatto che, poichè i puntelli poggiavano sull’impalcatura all’uopo costruita, già nella fase della loro installazione, gli operai avevano necessariamente dovuto salire sulla impalcatura la quale, ciononostante non risultava fornita degli accorgimenti diretti a garantire la sicurezza dei lavoratori.

In definitiva – sottolinea la sentenza di appello – l’impresa del D. B. aveva costruito, senza rispettare le norme di sicurezza sul lavoro, una impalcatura destinata a fungere da base per i puntelli, e “non si vede come possa ritenersi che la condotta del S. (salito su quella impalcatura per smontare i puntelli) possa essere qualificata come abnorme o imprevedibile, posto che si è trattato della medesima condotta che gli operai avevano dovuto seguire inizialmente per montare i puntelli, e che era prassi – certamente conosciuta dal datore di lavoro – che altrettanto facessero quando dovevano procedere al loto smantellamento”.

Dalle considerazioni appena svolte discende la sicura applicabilità alla fattispecie del D.P.R. n. 164 del 1956, art. 16 nonchè dei successivi art. 30 ss del medesimo testo normativo (secondo cui “Nei lavori che sono eseguiti ad un’altezza superiore a 2 metri, devono essere adottate – seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose”), nè si vede su cosa si fondi la tesi del ricorrente incidentale secondo cui la manovra compiuta dal S. sarebbe stata inutile al fine di togliere i puntelli. Secondo la Corte territoriale, il solo fatto che i testimoni hanno confermato che quella era la manovra normalmente eseguita a quel fine, mostra l’inconsistenza delle deduzioni del D. B..

Neppure è condivisibile l’argomento per cui, non essendo in atti documenti attestanti le condizioni di salute del lavoratore in epoca precedente, neppure potrebbe procedersi ad in riscontro circa le effettive conseguenze dell’infortunio: è sufficiente precisare che l’assenza di documentazione relativa alle pregresse patologie sofferte dal S. attesta che simili malattie erano assenti, e, comunque il CTU aveva svolto anche considerazioni circa la riconducibilità all’infortunio per cui è causa delle patologie attualmente lamentate dall’infortunato.

La Corte territoriale, opportunamente aggiunge che “una indiretta, ma significativa conferma dell’esattezza della valutazione del CTU si trae dalla valutazione operata dall’INAIL in sede di riconoscimento dei postumi permanenti residuati dal sinistro in questione: mentre, infatti, il CTU di primo grado ha concluso per una inabilità pari a 75%, l’Istituto eroga al S. una rendita corrispondente ad una inabilità dell’85%.

Neppure le deduzioni reiterate nel ricorso incidentale proposto dal D.B., con riferimento al danno morale sono condivisibili: è sufficiente, in proposito, ricordare come la risarcibilità di un simile pregiudizio sia connessa non già con una sentenza penale di condanna, bensì semplicemente con il riconoscimento – eventualmente operato anche in sede civile) – del fatto che la condotta dannosa integri gli estremi del reato. E ciò è quanto si è verificato nella fattispecie in esame, caratterizzata dal fatto che il lavoratore ha riportato gravissime lesioni a causa della mancata predisposizione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie misure di sicurezza.

Deve concludersi, dunque, che le tesi esposte all’interno del ricorso incidentale non possono trovare ingresso, in quanto infondate e che, pertanto, la sentenza di appello impugnata non merita cassazione.

Il ragione della complessità delle questioni – anche di fatto – affrontate, appare equo disporre la compensazione integrale delle spese inerenti al presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa le spese del presente giudizio tra le parti.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2010

 

 

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