Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1933 del 28/01/2020

Cassazione civile sez. III, 28/01/2020, (ud. 13/11/2019, dep. 28/01/2020), n.1933

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

S.G.L., S.L., nella qualità di

amministratore di sostegno di S.Z.M., domiciliati

ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentati e difesi dall’avvocato BIAGIO MAURIZIO LA VENUTA;

– ricorrente –

contro

F.A.M.;

– intimata –

Avverso la sentenza n. 933/2018 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 10/05/2018;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

13/11/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Palermo, con sentenza in data 10.5.2018 n. 933, ha rigettato la impugnazione proposta da S.G., S.L. e S.Z.M., quali erede di F.L., e confermato la decisione di prime cure che aveva ritenuto infondata la opposizione proposta dalla F. avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dalla sorella F.A.M., che le ingiungeva di corrispondere la somma di e 15.640,12 oltre interessi, pari alla quota di 1/3 spettante alla creditrice sulle somme depositate nel libretto nominativo di deposito bancario a risparmio e sul buono fruttifero, cointestati, con facoltà di firma disgiunta, alle due sorelle ed alla zia R.D.C., deceduta a marzo del 2007.

Osservavano i Giudici di appello che la cointestazione e la espressa previsione della facoltà di firma disgiunta, legittimavano la prova presuntiva che il rapporto obbligatorio instaurato dalle cointestatarie con la banca fosse caratterizzato dalla solidarietà attiva, e che la opponente non aveva fornito idonea prova contraria intesa a dimostrare la esclusiva pertinenza delle somme alla zia che l’aveva poi intestata erede universale.

La sentenza di appello è stata impugnata per cassazione dagli eredi di F.L. con ricorso affidato a quattro motivi.

Non ha svolto difese la intimata alla quale il ricorso è stata notificato a mezzo PEC in data 9.7.2018 presso gli indirizzi elettronici dei due difensori R.A.M. e A.F..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo si censura la sentenza per violazione dei criteri di formazione della prova critica (artt. 2727 e 2729 c.c.; art. 115 c.p.c.) con riferimento all’art. 1298 c.c., ed in relazione al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Assumono i ricorrenti che la Corte palermitana non ha indicato l’iter logico che avrebbe portato ad escludere la prova contraria alla presunzione juris tantum di solidarietà, avendo omesso di considerare nell’insieme tutti gli elementi indiziari forniti. La critica è seguita alla riproduzione in forma di elenco di tutti gli elementi indiziari, nonchè del contenuto delle dichiarazioni testimoniali assunte nel giudizio di merito

Con il secondo motivo svolgono la medesima critica ma sotto il profilo del vizio di omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sostenendo che la Corte territoriale non aveva valutato correttamente la dichiarazione resa dal teste S.L., nè i documenti prodotti in giudizio, altrimenti avrebbe concluso per la certa appartenenza delle somme a R.D.C..

Con il terzo motivo deducono la violazione degli artt. 116 e 210 c.p.c., in quanto la mancata ottemperanza alla notifica dell’ordine di esibizione rivolto alla banca, non poteva andare a scapito della parte che tale ordine aveva richiesto e comunque risultando dalle prove orali acquisite la dimostrazione che parte delle somme corrispondevano alla indennità di accompagnamento della R..

I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, attenendo tutti alla valutazione del materiale probatorio, sono inammissibili in quanto:

a) attraverso il vizio di errore nell’attività di giudizio introducono invece la censura di errore di fatto;

b) non rispondono ai requisiti prescritti per la deduzione del vizio di legittimità contemplato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

I ricorrenti, proponendo una diversa lettura delle dichiarazioni del teste assunto nel corso della istruttoria e ritenendo logicamente insufficiente la selezione delle prove ritenute decisive dalla Corte territoriale, intendono ottenere un ulteriore giudizio di merito avanti questa Corte, omettendo di considerare che le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non le consente di procedere ad un “novum judicium” riesaminando e valutando autonomamente il merito della causa, non atteggiandosi il giudizio di legittimità come un terzo grado di giudizio (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1317 del 26/01/2004; id. Sez. 5, Sentenza n. 25332 del 28/11/2014).

La nuova formulazione del testo normativo, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012: D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3, cit.), ha, infatti, limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado, per vizio di motivazione, alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, escludendo il sindacato sulla inadeguatezza del percorso logico posto a fondamento della decisione e condotto alla stregua di elementi extratestuali, limitandolo alla verifica del requisito essenziale di validità ex art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), inteso come “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, secondo la interpretazione fornita da questa Corte: l’ambito in cui opera il vizio motivazionale deve individuarsi, pertanto, esclusivamente nella omessa rilevazione e considerazione da parte del Giudice di merito di un “fatto storico”, principale o secondario, ritualmente verificato in giudizio e di carattere “decisivo” in quanto idoneo ad immutare l’esito della decisione (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016).

Esula del tutto, quindi, dal predetto vizio di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualsiasi contestazione volta a criticare il “convincimento” che il Giudice di merito si è formato, ex art. 116 c.p.c., commi 1 e 2, in esito all’esame del materiale probatorio ed al conseguente giudizio di prevalenza degli elementi di fatto, operato mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016 che, puntualmente, afferma come il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove “non legali” da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Occorre opportunamente precisare, in proposito, che non è – evidentemente – consentito riproporre sotto altra forma paradigmatica, attraverso la denuncia del combinato disposto dall’art. 116 c.p.c., e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la medesima censura diretta a veicolare quegli stessi “vizi di logicità” che la norma ha inteso esplicitamente eliminare dall’attuale testo normativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), atteso che – indipendentemente dal carattere manifestamente elusivo della riforma processuale riconoscibile in tale operazione – la denuncia di asserita violazione del corretto esercizio del principio del “libero convincimento” ex art. 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento delle risultanze istruttorie, riservato in via esclusiva al Giudice di merito, ed in quanto tale è insindacabile in sede di legittimità: deve ritenersi, infatti, assolutamente pacifico in giurisprudenza che la denuncia di violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, e dell’art. 116 c.p.c., solo apparentemente veicola un vizio di “violazione o falsa applicazione di norme di diritto” (processuali), traducendosi, invece, nella denuncia di “un errore di fatto” che deve essere fatta valere attraverso il corretto paradigma normativo del vizio motivazionale, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 2707 del 12/02/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 12912 del 13/07/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 19064 del 05/09/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 15107 del 17/06/2013), essendo esclusa, in ogni caso, una nuova rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità (cfr. (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5024 del 28/03/2012; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014).

Ineludibile corollario della precedente affermazione è che la censura di violazione delle norme processuali predette non può legittimare, evidentemente, una “trasformazione” del precedente vizio di motivazione per “insufficienza od incompletezza logica” – non più sindacabile in sede di legittimità – in un vizio di “errore di diritto” (attinente alla attività processuale), sì che il primo possa in tal modo ritornare ad essere sindacabile avanti la Corte sotto le apparenti, diverse, spoglie della violazione di norma di diritto, non essendo in ogni caso autonomamente censurabili -attraverso la denuncia della violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, e art. 116 – asseriti errori di “convincimento” attinenti alla preminente rilevanza attribuita a talune “questioni” od alle stesse “argomentazioni” nelle quali si estrinseca l’esercizio del potere discrezionale di apprezzamento delle prove (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21152 del 08/10/2014), comportando una tale censura pur sempre l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione ai fini istruttori, che non trova accesso nel giudizio di cassazione (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 21439 del 21/10/2015).

Nella specie alcun fatto storico decisivo, che la Corte territoriale ha del tutto omesso di considerare, è stato allegato dai ricorrenti, tale non essendo all’evidenza la prova testimoniale in quanto: a) la prova orale, quale fatto storico in sè, si identifica nella comparizione del teste alla udienza e nella sua condotta dichiarativa; b) il contenuto della prova orale, appartiene al materiale istruttorio oggetto della valutazione selettiva – quanto a rilevanza circa il fatto da dimostrare – e ponderativa – quanto a valenza dimostrativa, rispetto al complesso delle altre prove -, e nella specie risulta espressamente indagato dal Giudice di appello che ha fornito anche le ragioni per le quali non ha ritenuto tale prova dirimente.

Dovendo aggiungersi inoltre che, quanto alla decisività degli estratti conto inviati dalla banca volti ad attestare che l’importo di e 13.136,26 versato sul libretto in data 14.11.2005 corrispondeva ad arretrati della indennità di accompagnamento della R., è appena il caso di osservare che i ricorrenti neppure specificano, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), se e quando tali documenti sarebbe stati ritualmente acquisiti al processo, e dove possono essere rinvenuti nel fascicolo di merito (essendo del tutto equivoca la mera indicazione “doc 2 fascicolo resistente”, tenuto conto che la intimata non ha svolto difese, ed ancora più equivoca è la indicazione “all. 6 fasc. Cass.” che non fornisce alcuna specificazione del “quando” tali documenti siano stati prodotti nei precedenti gradi di giudizio), tanto più che l’asserita produzione documentale risulterebbe, invece, totalmente smentita dalla statuizione della Corte d’appello, secondo cui la opponente non aveva ottemperato a notificare alla banca l’ordine di esibizione ex art. 201 c.p.c., disposto dal Tribunale ed avente ad oggetto, appunto, “copia della documentazione relativa al versamento, sul deposito bancario a risparmio di Euro 13.136,26”, circostanza che ha indotto i Giudici di appello a valutare i complessivi indizi in senso negativo alla tesi sostenuta da F.L..

Anche la censura prospettata come violazione dei criteri legali di formazione della prova presuntiva appare del tutto divergente dai limiti di sindacabilità del vizio di “error juris” circoscritto alla verifica della asserita difformità del “modus procedendi” del Giudice, nella formazione della prova presuntiva, rispetto a quello predeterminato dalla legge.

Osserva il Collegio che il vizio di violazione di norma di diritto rimane circoscritto alla sola ipotesi in cui il Giudice di merito abbia fatto ricorso alla prova presuntiva semplice nei casi in cui la legge non consentiva l’utilizzo di tale prova ovvero richiedeva per la dimostrazione del fatto un diverso mezzo di prova, o ancora nei casi in cui il Giudice abbia ritenuto priva di efficacia presuntiva una prova legale.

La violazione dello schema normativo della presunzione semplice che dà luogo al vizio di violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., infatti, non concerne il convincimento finale che il Giudice trae dalla valutazione del complesso indiziario, ma la divergenza – nel procedimento di rilevazione e selezione dei fatti seguito dal Giudice – dai criteri di logica formale che presiedono alla “modalità di interrogazione” di tale materiale eterogeneo, che, come noto, debbono avere come riferimento la prova dei fatti principali costitutivi del diritto controverso e che si sviluppano attraverso: 1-la delimitazione del materiale di esame ai soli fatti “certi” che non risultino contraddetti da altri fatti (precisione); 2-l’esame atomistico di ciascun elemento indiziario (fatto secondario) e quindi l’esame globale del complesso indiziario unitariamente considerato in funzione della sua o della loro capacità dimostrativa (gravità); 3-la efficacia conoscitiva del fatto ignorato che il singolo indizio o complesso di indizi è idoneo a produrre, in base alla applicazione di criteri logici di tipo probabilistico-inferenziale tratti dai dati della esperienza (id quod plerumque accidit), ovvero da dati scientifici o statistici (inferenza cognitiva); 4-la controprova o verifica di consistenza, intesa come inidoneità dell’elemento o del complesso indiziario a fornire una diversa inferenza tale da condurre alla conoscenza di un altro fatto ignorato, che risulti alternativo ed incompatibile con quello precedentemente presunto (concludenza).

Appare dunque del tutto evidente come la verifica di conformità rispetto allo schema normativo indicato si ponga all’esterno rispetto al contenuto di merito della valutazione (nel che si estrinseca il “convincimento” del Giudice ex art. 116 c.p.c., comma 1), non essendo quindi sufficiente contestare le conclusioni raggiunte nella sentenza impugnata in ordine alla sussistenza o meno della prova dei fatti costitutivi della domanda o della eccezione, per assolvere al requisito di specificità del motivo con il quale si deduce il vizio di violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c..

Al proposito occorre precisare che il livello di certezza richiesto dagli artt. 2727 e 2729 c.c., non può evidentemente essere quello – tipico dei fenomeni rilevati con metodo di verifica scientifica – della “necessità assoluta ed esclusiva” della derivazione causale: vertendosi, infatti, in tema di prova logica, il nesso di derivazione causale tra fatto noto e fatto ignorato non può che essere fondato su un giudizio probabilistico basato sull'”id quod plerumque accidit “, non potendo escludersi, quindi, che dallo stesso fatto noto possano derivare in ipotesi anche conseguenze diverse che, tuttavia, o verranno ad assumere rispetto al procedimento inferenziale “preferito” una collocazione meramente recessiva (situazione che si verifica qualora tali conseguenze, pur se possibili, risultino però in concreto verificabili in casi eccezionali o addirittura statisticamente mai rilevate, rimanendo in tal caso confinate nell’ambito delle mere ed astratte ipotesi), oppure verranno a collocarsi sullo stesso piano ed allo stesso grado di inferenza logica degli altri esiti, tutti quindi egualmente “probabili”, venendo allora in rilievo ai fini del controllo di legittimità del procedimento logico l’accertamento del carattere compatibile e non interferente di detti risultati con quello idoneo a fornire la prova del fatto ignorato (ossia dalla medesima premessa indiziaria possono derivarsi plurime presunzioni di diversi fatti ignorati che tuttavia si pongono tra essi in relazione di indifferenza e di non esclusione), o invece la oggettiva “inconciliabilità” di tali risultati, preclusiva della prova presuntiva del fatto ignorato, ipotesi che si verifica laddove sussista una pari plausibilità degli esiti oggettivamente discordanti ed incompatibili cui si perviene dalla medesima premessa indiziaria con il procedimento inferenziale.

Il ragionamento del Giudice di merito in ordine alla prova presuntiva dotata dei requisiti di cui all’art. 2729 c.c., è dunque censurabile in sede di legittimità soltanto “allorchè difetti la inferenza probabilistica, tutte le volte in cui sussistano inferenze probabilistiche plurime (ndr. che risultino tra loro logicamente inconciliabili in quanto poste in relazione di esclusione reciproca)…” (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 3281 del 02/03/2012).

Nella specie, una tale pluralità di inferenze oggettivamente incompatibili, ostativa alla prova del fatto ignorato tratta dal fatto noto, non è stata neppure allegata dalla parte ricorrente che non ha individuato alcuna conseguenza alternativa – fondata su una identica “normalità probabilistica” – assolutamente incompatibile con la ricostruzione del fatto operata dal Giudice di appello sulla base dei medesimi elementi indiziari.

Con il quarto motivo i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per vizio di nullità (violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), avendo omesso il Giudice di appello di statuire in ordine al secondo motivo di gravame con il quale veniva ad essere criticava la decisione del primo Giudice laddove era stato ripartito in parti eguali, tra le tre cointestatarie, il saldo del deposito e l’importo riscosso del buono fruttifero, mentre, essendo state riscosse le somme congiuntamente da F.L. e dalla R. (quando era ancora in vita), la domanda di restituzione proposta da F.A.M. nei confronti soltanto della sorella, avrebbe dovuto essere limitata soltanto alla metà di tale importo (1/3 di 1/2), e cioè alla sola quota del saldo ritirata dalla opponente, nulla essendo stato dimostrato dell’impiego delle somme che erano state ritirate dalla R..

Osserva il Collegio che la Corte d’appello non ha omesso di esaminare il secondo motivo di gravame, ma avendo rigettato il primo ha – se pure erroneamente – dichiarato “assorbito il secondo e quarto” motivo di appello (vedi in motivazione, pag. 12).

Orbene la tesi dei ricorrenti, pure se suggestiva, si fonda tuttavia sull’assunto indimostrato e smentito dall’accertamento compiuto dal Giudice di merito secondo cui, essendo ancora in vita la R., quando si è proceduto alla estinzione del deposito ed alla riscossione del buono fruttifero, le somme prelevate in banca (ndr materialmente da F.L.) sarebbero state divise al 50% tra F.L. e la R..

Tale prospettazione è stata ritenuta infondata nel suo presupposto fattuale dalla Corte d’appello che ha accertato come le somme fossero state prelevate da F.L. e come al tempo della chiusura dei rapporti l’importo depositato presentasse un saldo positivo di ammontare spettante pro quota ad 1/3 per ciascuna delle cointestatarie. Fermo quindi tale accertamento, meramente conseguenziale è la pronuncia di assorbimento del secondo motivo di gravame.

Infondata è pertanto la censura di omissione di pronuncia, in quanto i ricorrenti avrebbero dovuto contestare, invece, secondo i vizi di legittimità deducibili avanti a questa Corte, la statuizione fondata sul prelievo da parte di F.L. dell’intera somma depositata sul libretto e della riscossione dell’importo del titolo.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato.

Non deve provvedersi in ordine alla regolamentazione delle spese di lite in assenza di difese svolte dalla parte intimata.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 13 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2020

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