Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19321 del 21/08/2013


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Civile Sent. Sez. 1 Num. 19321 Anno 2013
Presidente: SALVAGO SALVATORE
Relatore: BISOGNI GIACINTO

Ud. 28/02/13
SENTENZA
sul ricorso proposto da:

Nicolò Licata, elett.te dom.to in Roma, via Piave 52,
c/o studio avv.to Renato Carcione, rappresentato e
difeso dall’avv.to Ferdinando Mazzarella per mandato in
calce al ricorso;
Lef 9CL “Y3″Tilg

Gtl’Aft
– ricorrente contro

Giacomo Licata;

– intimato –

35e- ._
2013

avverso la sentenza n. 75/2006 della Corte d’appello di
Palermo emessa il 18 novembre 2005 e depositata il 31
gennaio 2006, R.G. n. 1185/1999;

1

Data pubblicazione: 21/08/2013

sentito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. Federico Sorrentino che ha concluso per
il rigetto del ricorso;

Rilevato che:
1. Giacomo Licata ha chiesto al Tribunale di Palermo

con il fratello Nicola. Ha dedotto che, a partire
dal 1962, aveva esercitato attività commerciale
in comune con il fratello e da essa erano
derivati i mazzi finanziari per acquistare
immobili intestati fiduciariamente al solo Nicole,
dopo il 1977. Ha chiesto di liquidare la sua
quota e di disporre la divisione dei beni
immobili e di tutti gli altri beni comuni.
2. La domanda è stata contestata da Nicolò Licata
che ha rivendicato l’esclusiva titolarità
dell’impresa, sia pure svolta in regime di
impresa familiare, e l’esclusiva proprietà degli
immobili acquistati a suo nome.
3. Il Tribunale di Palermo ha accolto la domanda
dichiarando l’esistenza della società di fatto,
accertando la giusta causa del recesso da parte
dell’attore e dichiarando il diritto alla
liquidazione della quota e allo scioglimento
della

comunione

sugli

immobili

ritenuti

appartenenti a entrambi i fratelli Licata.
4. Nicolò Licata ha appellato la sentenza e
proposto, contemporaneamente, regolamento di
2

di accertare l’esistenza di una società di fatto

competenza avverso la sentenza non definitiva del
4 luglio 1992, rilevando che il fratello aveva
svolto attività di lavoro dipendente presso
l’impresa familiare e quindi avrebbe dovuto
proporre la sua domanda al giudice del lavoro.
Entrambi i mezzi di impugnazione sono stati
decisioni confermate in sede

di

legittimità.
5. Con sentenza del 24 novembre 1997 il Tribunale di
Palermo ha approvato il progetto di divisione
degli immobili cointestati e con ordinanza ex
art. 186 quater c.p.c. del 7 settembre 1999 ha
condannato Nicolò Licata al pagamento della somma
di 3.375.000.000 di lire, oltre interessi a
decorrere dal 15 maggio 1990, riconoscendo in
tale misura il valore della quota societaria da
liquidare in favore di Giacomo Licata a seguito
del suo recesso, avvenuto nella predetta data del
15 maggio 1990, dalla società di fatto con il
fratello Nicolò.
6. La Corte di appello di Palermo, con sentenza
depositata il 31 gennaio 2006, ha accolto
parzialmente l’appello di Nicolò Licata riducendo
la sua condanna a 615.522,60 euro e condannandolo
al pagamento della metà delle spese del giudizio
di appello.
7. Ricorre per cassazione Nicola Licata affidandosi
a quattro motivi di ricorso: a) violazione e
falsa applicazione dell’art. 2289 cc nonché degli

3

respinti con

artt. 2221, 2281, 1350 n. 9 e 1810 cc; b) omessa
e in ogni caso insufficiente e contraddittoria
motivazione su un fatto decisivo; c) violazione e
falsa applicazione (sotto altro aspetto)
dell’art. 2289 cc nonché dell’art. 2697

cc;

d)

omessa e in ogni caso insufficiente motivazione

8. Non svolge difese Giacomo Licata.
Ritenuto che:
9. Con il primo motivo di ricorso Nicolò Licata
afferma che la Corte di appello ha errato nel
computare nell’attivo sociale il valore del
godimento degli immobili di sua proprietà in uso
alla società. In assenza di altri titoli
negoziali o reali la Corte di appello avrebbe
dovuto, secondo il ricorrente, attribuire il
godimento di tali immobili a un rapporto di
comodato revocabile ad nutum dal concedente. Di
conseguenza niente del trascorso godimento degli
immobili poteva residuare all’attivo della
società al momento della liquidazione della quota
dato che tale utilità si era consumata e non vi
era, per altro verso, alcuna garanzia della sua
disponibilità in futuro sicché l’iscrizione
all’attivo, ai fini del calcolo del valore della
quota del socio receduto, era il frutto di una
erronea valutazione della Corte di appello in
contrasto con le stesse conclusioni del C.T.U.

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su un fatto decisivo.

10. Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente
lamenta che la Corte di appello abbia fornito, a
sostegno della decisione già criticata con il
precedente motivo di ricorso, una motivazione
illogica in quanto, pur non avendo avuto dubbio
alcuno nel riconoscere la proprietà esclusiva

Licata e pur avendo riscontrato che la società
non aveva pagato alcun canone o compenso per
l’utilizzo degli immobili, ha ritenuto che il
socio non proprietario avesse diritto a percepire
il valore del godimento degli immobili.
11. I due motivi che possono essere esaminati
congiuntamente per la loro evidente connessione
logico-giuridica sono fondati. La rilevazione di
un valore derivante dalla detenzione gratuita
degli immobili appartenenti a Nicolò Licata
presupponeva un titolo idoneo a proiettare nel
tempo futuro tale utilità al fine di
quantificarne, al netto dai costi, l’incidenza
sull’attivo della società. Ciò evidentemente non
è se si ritiene, come sembra emergere dalla
motivazione, che il titolo della detenzione era
il comodato gratuito e senza determinazione di
durata perché tale godimento è revocabile ad
nutum dal proprietario concedente e non consente
quindi una proiezione nel tempo futuro necessaria
a una quantificazione del suo valore. Né appare
logico attribuire un valore al comodato con

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degli immobili in questione da parte di Nicolò

riferimento al godimento dei locali avvenuto nel
passato perché tale utilità si è consumata e non
può concorrere quindi a determinare l’attivo
della società all’attualità come occorre invece
fare per liquidare la quota del socio che intende
recedere dalla partecipazione alla società.

13. Con il terzo motivo il ricorrente
violazione degli artt. 2289 e 2697

deduce
c.c.

la

e fa

rilevare che la Corte di appello, nel confermare
la decisione del Tribunale, che aveva incluso nel
patrimonio netto aziendale, invece che al passivo
dello stato patrimoniale, alcuni finanziamenti da
lui effettuati alla società, appostati in
bilancio

con

la

dizione

“titolare

c/anticipazione”, ha, in primo luogo, disatteso
il dato formale di bilancio emergente dalla
consulenza tecnica contabile. Ha, inoltre,
invertito

l’onere

della

prova

ponendo

erroneamente a suo carico la dimostrazione
dell’effettiva

provenienza

dei

versamenti

confluiti nel conto mentre sarebbe dovuto gravare
su Giacomo Licata l’onere di dimostrare la non
veridicità dell’appostazione in bilancio che
attestava come quei versamenti costituissero
anticipazioni del socio in conto di futuro
aumento del capitale e non denaro della società.
14. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia il
vizio di motivazione perché ritiene che la Corte

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12. Sono invece infondati i successivi motivi.

di appello abbia disatteso o interpretato
contraddittoriamente gli elementi acquisiti
nell’istruttoria dai quali risultava che il conto
“titolare c. anticipazioni” era stato costituito,
secondo la documentazione fornita dallo stesso
consulente di parte avversa, “con una serie di

ammontanti a complessivi 550.000.000 di lire”.
Secondo il ricorrente appare inoltre fuorviante
la considerazione che la Corte di appello compie
circa la pretesa incertezza della causale dei
versamenti (se effettuati come finanziamento o a
titolo di capitale) perché essa si basa, almeno
in parte, sulla circostanza per cui tali somme
furono destinate a capitale dopo il recesso di
Giacomo Licata e per volontà del fratello Nicolò.
Il che sta proprio a dimostrare, secondo
l’odierno ricorrente, che prima del recesso del
fratello tali somme non erano detenute dalla
società a titolo di capitale ma a titolo di
deposito e con il riconoscimento della loro
spettanza a colui che le aveva versate.
15. La Corte ritiene che entrambi i motivi siano
intesi a ottenere, almeno in parte, una
rivalutazione del merito della controversia, e
come tali debbano, per un verso, considerarsi
inammissibili. Sul punto della ascrivibilità o
meno al patrimonio sociale delle somme appostate
in bilancio con la dizione “titolare c./

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versamenti effettuati dal sig. Nicolò Licata

anticipazioni” la Corte di appello ha optato per
la prima ipotesi, quella della appartenenza al
patrimonio sociale, partendo dal rilievo, del
tutto condivisibile, secondo cui nelle società di
fatto i soci possono sì effettuare finanziamenti
in favore della società ma per ottenere il

deriva devono fornire una prova rigorosa della
destinazione dei versamenti alla finalità di
finanziamento della società. Nella specie, ha
rilevato la Corte territoriale, al di là della
generica e equivoca denominazione del conto
(titolare e. /anticipazioni), di per sé certamente
non indicativa di finanziamenti alla società,
l’istruttoria ha consentito di accertare che il
conto ha accolto sette versamenti effettuati da
Nicola Licata ma nessun elemento è emerso circa
la provenienza delle somme e la loro
destinazione. Quella dedotta dall’odierno
ricorrente, di finanziamento della società da
parte di uno dei soci, è smentita, secondo la
Corte di appello, sia dalla presenza nelle casse
della società di disponibilità elevate che non
giustificavano il ricorso al finanziamento da
parte dei soci sia dalla destinazione finale
delle somme, dopo il recesso di Giacomo Licata,
al patrimonio netto. Si tratta di valutazioni che
non appaiono affatto contraddittorie o illogiche
e che non sovvertono affatto i principi generali

8

riconoscimento del debito della società che ne

in materia di onere della prova. In un regime di
conduzione dell’impresa del tutto informale e che
celava l’esistenza di una società di fatto non
può che ritenersi presumibilmente che

2.

versamenti di somme di denaro da parte del
titolare dell’impresa altro non fossero che la

dell’attività svolta salva ovviamente la
possibilità di una prova contraria che non poteva
che essere vagliata secondo un filtro di
valutazione particolarmente rigoroso. Lo stesso
ricorrente del resto sembra smentire nelle sue
deduzioni la destinazione dei versamenti al
finanziamento della società laddove parla di
versamenti depositati presso la società in vista
di un possibile aumento del capitale.
16. Vanno pertanto accolti i primi due motivi di
ricorso e rigettati i successivi motivi con
cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla
Corte di appello di Palermo che rivaluterà la
questione della ascrivibilità o meno al
patrimonio sociale del valore d’uso degli
immobili di proprietà di Nicola Licata, destinati
allo svolgimento dell’attività aziendale, alla
luce delle considerazioni sopra svolte.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e secondo motivo di
ricorso rigetta il terzo e quarto motivo, cassa la
sentenza Impugnata e rinvia alla Corte di appello di

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destinazione al patrimonio sociale dei proventi

Palermo che, in diversa composizione, deciderà anche
sulle spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del

28 febbraio 2013.

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