Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19321 del 18/07/2019

Cassazione civile sez. trib., 18/07/2019, (ud. 09/05/2019, dep. 18/07/2019), n.19321

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27567-2012 proposto da:

COMUNE LUCCA in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA VIA DEL VIMINALE N. 43, presso lo studio

dell’avvocato RAFFAELLA CHIUMMIENTO, che lo rappresenta e difende

giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

CGIL CAMERA LAVORO DI LUCCA, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO

VITTORIO EMANUELE II 18, presso lo STUDIO GREZ E ASSOCIATI,

rappresentato e difeso dall’avvocato MAURO GIOVANNELLI giusta delega

a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 70/2012 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE,

depositata il 19/04/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/05/2019 dal Consigliere Dott. DE MASI ORONZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GIACALONE GIOVANNI che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato CHIUMMIENTO che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato D’ADDARIO per delega

dell’Avvocato GIOVANNELLI che si riporta agli atti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con l’impugnata sentenza n. 70, depositata il 19/4/2012, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana ha respinto l’appello del Comune di Lucca e confermato la decisione della Commissione Tributaria Provinciale della stessa città, che aveva annullato gli avvisi di accertamento ICI, anni 2003 e 2004, emessi dall’ente impositore nei confronti della contribuente CGIL – Camera del Lavoro di Lucca.

La CTR ha stabilito che l’attività svolta dalle Camere del Lavoro può essere considerata di natura non commerciale, per cui rientra nell’ambito di applicazione dell’esenzione dall’imposta, come previsto dal D.L. n. 203 del 2005, convertito nella L. n. 248 del 2005, e dal D.L. n. 223 del 2006, convertito nella L. n. 248 del 2006, essendo state le attività propriamente amministrative e contabili contrattualmente demandate a soggetto esterno avente sede in (OMISSIS) e che, pertanto, gli immobili di proprietà, secondo quanto richiesto dalla disciplina regolamentare, ai sensi del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. i), sono esenti ICI.

Contro la sentenza della CTR il Comune di Lucca propone ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, illustrati con memoria, cui la contribuente resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso il Comune di Lucca censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, lett. i), in quanto il giudice di secondo grado ha erroneamente ritenuto applicabile l’esenzione sancita dalla norma, senza che ne sussistono le condizioni, giacchè l’esenzione ICI può essere riconosciuta soltanto alla duplice condizione che si tratti di immobili di proprietà di uno dei soggetti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 87, comma 1, lett. c), e che gli stessi siano esclusivamente destinati ad attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive, nonchè quelle di cui alla L. n. 222 del 1985, art. 16, lett. a), condizioni che devono coesistere entrambe ai fini dell’esenzione medesima, non potendosi applicare, se non per il futuro, la norma contenuta nel D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 39, conv. con mod. in L. n. 248 del 2006, entrato in vigore il 4/7/2006.

La censura è infondata.

La sentenza della CTR, dopo aver premesso che l’esenzione ICI può essere riconosciuta soltanto se gli immobili sono di proprietà di uno dei soggetti di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 87, comma 1, lett. c), e sono esclusivamente destinati ad attività assistenziali, previdenziali, ecc. ecc., non potendosi applicare la norma contenuta al D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 39, conv. con mod. in L. 4 agosto 2006, n. 248, per cui “L’esenzione disposta dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 7,comma 1, lett. i), si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera che non abbiano esclusivamente natura commerciale”, afferma che non v’è dubbio che “la Camera del lavoro rientri fra i soggetti che in relazione all’attività che svolgono possono beneficiare dell’esenzione”, “trattandosi di ente che sicuramente non ha per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciale”, atteso che le attività svolte (…) nell’immobile cui si riferisce l’imposta (…) descritte ed elencate dalla ricorrente” concernono “l’assistenza di lavoratori, pensionati, emigrati ed immigrati”, “consulenza gratuita” agli iscritti, ed informazioni ai disoccupati “con funzioni di sostegno e orientamento al lavoro”.

L’affermazione, che tiene conto del fatto che gli istituti di patronato non svolgono propriamente attività sindacale o politica, ma assistono i lavoratori e i pensionati nelle pratiche amministrative e giudiziarie, ricevendo sovvenzionamenti in relazione al lavoro svolto, senza scopo lucrativo, si conclude nel senso che “la contribuente ha chiaramente illustrato il fondamento anche legislativo della propria attività di natura non commerciale” e che ha dimostrato la sussistenza dei presupposti della esenzione dall’imposta.

La sentenza di appello, dunque, che si basa sulla ritenuta estraneità dell’attività della Camera del Lavoro a quelle commerciali (tra le medesime parti, Cass. n. 10085/2014).

Con il secondo motivo censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deducendo omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in quanto il giudice di secondo grado ha affermato, senza la necessaria prova da parte del contribuente, la sussistenza dei due requisiti sopra visti, uno oggettivo l’altro soggettivo, richiesti dalla costante giurisprudenza, non avendo provveduto ad accertare in concreto le modalità di utilizzo dell’immobile, occorrendo viceversa verificare, al di là delle risultanze documentali, se l’attività assistenziale, pur rientrante astrattamente tra quelle esenti, sia stata svolta senza i caratteri propri di un’attività commerciale.

La censura si appalesa inammissibile prima che infondata.

Le argomentazioni sviluppate dal ricorrente appaiono intese ad ottenere una inammissibile revisione del giudizio di merito, pretendendo di far prevalere la propria interpretazione dei fatti su quella espressa dal giudicante, cui è rimessa la valutazione del materiale probatorio acquisito agli atti di causa, non avendo il Comune neppure allegato la risultanze probatorie, di rilievo decisivo, il cui esame sarebbe stato trascurato o addirittura omesso, non potendosi risolvere il vizio dedotto, come correttamente evidenziato dal giudice di secondo grado, nella formulazione di meri dubbi o congetture circa la natura dei patronati e la strumentalità dell’utilizzo degli immobili rispetto all’esercizio delle attività protette.

E’ appena il caso di ricordare che, secondo questa Corte (Cass. n. 14795/2015; n. 10754/2017), “il D.L. n. 203 del 2005, art. 7, comma 2 bis (introdotto dalla L. di conversione n. 248 del 2005), che ha esteso l’esenzione disposta dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, comma 1, lett. i), alle attività indicate nella medesima lettera a prescindere dalla natura eventualmente commerciale delle stesse, e il D.L. n. 223 del 2006, art. 39, convertito nella L. n. 248 del 2006, che ha sostituito l’art. 7, comma 2 bis, cit., estendendo l’esenzione alle attività che non abbiano esclusivamente natura commerciale, non si applicano retroattivamente, trattandosi di disposizioni che hanno carattere innovativo e non interpretativo”.

Con il terzo motivo di ricorso censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, in quanto il giudice di secondo grado ha erroneamente qualificato l’attività della Camera del Lavoro come di natura assistenza, anzichè servizi, sul presupposto dell’assenza di una finalità di lucro, di per sè insufficiente a escludere l’utilizzo dell’immobile sul modello imprenditoriale della prestazioni di servizi ancorchè collegata all’attività sindacale volta alla tutela dei diritti di lavoratori e pensionati.

La censura è inammissibile perchè non coglie la ratio decidendi dell’impugnata sentenza, la quale non è affatto fondato l’affermazione della natura assistenziale dell’attività della Camera di Lavoro, in quanto la CTR ha accertato che le attività commerciali erano del tutto estranee alla Camera del Lavoro, per essere state demandate a soggetto esterno, un centro servizi con sede in diverso Comune, come dimostrato dalle fatture prodotte in giudizio, circostanza che, secondo il giudice di merito, esclude la sussistenza di un’attività “esclusivamente” commerciale, che avrebbe potuto contrastare con il carattere assistenziale, ai fini ICI, dell’attività della Camera del Lavoro.

Con il quarto motivo censura la sentenza deducendo l’illegittimità costituzionale della normativa di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, lett. i), D.L. n. 203 del 2005, art. 7, comma 2 bis, aggiunto alla legge di conversione n. 2448 del 2005, modificato dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 133, ed infine sostituito dal D.L. n. 223 del 2006, art. 39, conv. con mod. dalla L. n. 248 del 2006, art. 1, in relazione al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 87, comma 1, lett. c) e alla L. n. 222 del 1985, art. 16, lett. a), per violazione dell’art. 3 Cost. (principio di eguaglianza) e dell’art. 53 Cost. (principio di capacità contributiva)”, in quanto l’esonero dal generale regime impositivo si rivelerebbe manifestamente irragionevole.

Con il quinto motivo censura la sentenza deducendo l’illegittimità costituzionale della normativa di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, lett. i), D.L. n. 203 del 2005, art. 7, comma 2 bis, aggiunto alla L. di conversione n. 2448 del 2005, modificato dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 133, ed infine sostituito dal D.L. n. 223 del 2006, art. 39, conv. con mod. dalla L. n. 248 del 2006, art. 1, in relazione al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 87, comma 1, lett. c) e alla L. n. 222 del 1985, art. 16, lett. a), per violazione dell’art. 23 Cost. (principio della riserva di legge in materia fiscale), in quanto non è vero che il potere impositivo in discorso nel caso di specie si fondava su un regolamento comunale, come sostenuto dalla Camera del Lavoro, invece che sulla legge, perchè il potere riconosciuto ai Comuni di restringere o ampliare la portata delle esenzioni dell’imposta, incidendo sui presupposti impositivi, violerebbe la riserva di legge in materia.

Con il sesto motivo censura la sentenza deducendo l’illegittimità costituzionale della normativa di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 7, lett. i), comma 2 bis, del D.L. n. 203 del 2005, art. 7, aggiunto alla legge di conversione n. 2448 del 2005, e modificato dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 133, e infine sostituito dal D.L. n. 223 del 2006, art. 39, conv. con mod. dalla L. n. 248 del 2006, art. 1, in relazione al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 87, comma 1, lett. c) e alla L. n. 222 del 1985, art. 16, lett. a), e in relazione alla L. n. 662 del 1996, art. 3, commi 143 e 149, per violazione degli artt. 76 e 77 Cost. (eccesso di delega) per eccesso di delega, perchè con la L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 143, il Governo era stato delegato a semplificare e razionalizzare gli adempimenti dei contribuenti e regolamentare le fonti delle entrate locali, per quanto attiene alle fattispecie imponibili ed ai soggetti passivi, ma non anche a dettare deroghe all’applicazione dell’ICI.

Le suesposte censure, scrutinabili congiuntamente, vanno disattese alla luce delle considerazioni svolte da questa Corte, con la sentenza n. 10085/2014, pronunciata tra le medesime parti, secondo cui, quanto al primo profilo d’illegittimità, “L’eccezione è manifestamente infondata, giacchè appartiene alla discrezionalità del legislatore stabilire che taluni peculiari soggetti, che svolgono attività di utilità sociale, possano esser esentati da imposte che renderebbero più difficoltoso l’esercizio della loro funzione di generale.”, quanto al secondo profilo, “L’eccezione è irrilevante nel presente giudizio, laddove non si fa affatto questione dell’eccesso di delega in esponente.”, e, quanto all’ultimo profilo dedotto, “L’eccezione è manifestamente infondata, atteso che qui non è questione di legge delegata. Qui, diversamente, è questione di D.L. n. 223 cit. convertito in L. n. 248 cit.”.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 2.000,00 a titolo di compenso, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15 per cento ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2019

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