Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19306 del 10/09/2010

Cassazione civile sez. III, 10/09/2010, (ud. 08/07/2010, dep. 10/09/2010), n.19306

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIFONE Francesco – Presidente –

Dott. PETTI Giovanni Battista – Consigliere –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere –

Dott. AMATUCCI Alfonso – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

LOCAFIT LOCAZIONE MACCHINARI INDUSTRIALI S.P.A. (OMISSIS)

società appartenente al gruppo bancario B.N.L. in persona del suo

Amministratore Delegato e legale rappresentante, Dott. M.

L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 30, presso

lo studio dell’avvocato CAMICI GIAMMARIA, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati CAMOZZI FEDERICO, CANDIANI LUCA

giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.M.L. (OMISSIS), D.L.R.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE

TRASTEVERE 40, presso lo studio dell’avvocato DI STEFANO PIETRO, che

li rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

I.E. (OMISSIS), EMIL IMPIANTISTICA S.R.L.

(OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 66/2005 della CORTE D’APPELLO di MILANO, 3^

SEZIONE CIVILE, emessa il 12/10/2004, depositata il 20/01/2005,

R.G.N. 63/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/07/2010 dal Consigliere Dott. ALFONSO AMATUCCI;

udito l’Avvocato LUCA CANDIANI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA Raffaele che ha concluso per il rigetto.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Locafit-Locazione Macchinari Industriali s.p.a. (in seguito Locafit), acquistati su richiesta di Emil Impiantistica s.r.l. (d’ora innanzi Emil) alcuni macchinari al prezzo di L. 123.760.000 (ma è talora indicato il diverso importo di L. 104.000.000), con contratto del 3.10.1990 glieli consegnò in locazione finanziaria. Rubata parte dei beni, il canone periodico fu convenzionalmente diminuito.

L’adempimento delle obbligazioni dell’utilizzatrice fu garantito da D.L.R., B.M.L. ed I.E..

Il contratto fu risolto ex art. 1456 c.c. a seguito dell’inadempimento dell’utilizzatrice e dell’infruttuosa richiesta di pagamento rivolta ai garanti.

La concedente Locafit ottenne dunque dal presidente del tribunale di Milano decreto ingiuntivo di pagamento della somma di L. 18.125.877, pari alla differenza tra il credito complessivo per canoni non pagati e quanto già domandato in separata sede ai fideiussori, che avevano rilasciato effetti cambiari.

Gli ingiunti proposero opposizione con atto di citazione notificato il 14.4.1995, cui resistette Locafit, che domandò anche il risarcimento del danno che aveva subito per la risoluzione del contratto, detratto quanto realizzato dalla f vendita dei beni concessi in leasing. Con sentenza parziale n. 10736/01 e con sentenza definitiva n. 8247/02 l’opposizione fu rigettata e gli opponenti vennero condannati al pagamento di ulteriori L. 5.292.005 per il titolo sopra indicato.

2.- La decisione è stata totalmente riformata dalla corte d’appello di Milano che, con sentenza n. 66/05, ha revocato il decreto ingiuntivo, respinto la domanda (definita “riconvenzionale”) dell’opposta Locafit e l’ha condannata al pagamento nei confronti dell’utilizzatrice Emil di Euro 51.130 (pari a L. 99.000.000).

Ha ritenuto la corte territoriale:

– che si verteva in ipotesi di leasing traslativo, i cui effetti risolutivi per inadempimento dell’utilizzatore erano regolati dall’art. 1526 c.c., analogicamente applicabile, integrante una norma imperativa, con conseguente nullità della difforme clausola pattizia, che prevedeva il diritto del concedente di trattenere le rate maturate sino allo scioglimento del contratto;

– che, dunque, l’utilizzatrice era tenuta a restituire il bene ricevuto in leasing e la concedente a restituire le rate del corrispettivo già percepite, salvo il diritto all’equo compenso per l’uso della cosa, oltre al risarcimento del danno;

che la concedente aveva erogato L. 123.760.000 per l’acquisto dei beni e li aveva concessi in leasing per 4 anni per un corrispettivo complessivo di L. 135.470.100 comprensivo del prezzo d’opzione di L. 1.040.000, sicchè avrebbe realizzato un utile lordo di L. 11.710.000 se il contratto avesse avuto regolare esecuzione;

che per i 36 mesi di godimento da parte dell’utilizzatore l’equo compenso poteva determinarsi in L. 8.782.499:

che a tale somma andava aggiunta quella per risarcimento del danno derivante dalla risoluzione per inadempimento dell’utilizzatrice, prevista in misura pari all’importo dei canoni successivi alla data della risoluzione con clausola penale bensì valida, ma che andava tuttavia ricondotta ad equità e determinata in venti punti percentuali del corrispettivo pattuito, e dunque in L. 27.094.000;

– che, poichè a fronte di un credito così liquidato in L. 35.876.499, la concedente aveva ricevuto l’importo di L. 126.187.869, doveva restituire, previa compensazione, la somma di L. 99.000.000.

3.- Avverso la sentenza ricorre per cassazione Locafit, affidandosi a cinque motivi illustrati anche da memoria. Si rappresenta in ricorso che con l’ I., uno dei garanti di Emil, era intervenuta transazione nelle more della emissione della sentenza d’appello.

Resistono con controricorso il B. ed il L..

L’utilizzatrice Emil non ha svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Col primo motivo sono denunciate violazione e falsa applicazione degli artt. 183 e 184 c.p.c. (nel testo anteriore alla riforma introdotta con L. n. 353 del 1990) e omessa motivazione sulla inammissibilità per tardività sia della domanda dell’utilizzatore di restituzione dei corrispettivi versati in corso di rapporto sia dell’eccezione relativa alla qualificazione del contratto come leasing traslativo e fondata su diversi presupposti di fatto.

Si afferma che le questioni di cui sopra, integranti una mutatio libelli, erano state introdotte a seguito della prima udienza, dopo il deposito della comparsa di risposta e di una memoria illustrativa da parte della concedente, che aveva sempre espressamente rifiutato il contraddittorio.

Nell’atto di opposizione, infatti, si domandava che fosse revocato il decreto ingiuntivo per insussistenza della pretesa creditoria e, in subordine, che dalla domanda proposta in via monitoria fossero comunque assolti i fideiussori, mentre la domanda restitutoria, le statuizioni ex art. 1526 c.c. e la riduzione della penale erano state domandate solo successivamente, riproposte in sede di precisazione delle conclusioni e riformulate innanzi alla corte d’appello, che non aveva tenuto in alcun conto i rilievi svolti sul punto dalla appellata in comparsa conclusionale.

1.1.- Oppongono i controricorrenti che le domande erano state formulate dagli opponenti fideiussori con memoria difensiva a seguito della “riconvenzionale” spiegata in comparsa di risposta dalla opposta, che non aveva rifiutato il contraddittorio e s’era anzi difesa nel merito e che non aveva comunque proposto appello incidentale sul punto.

1.2.- Va osservato quanto segue.

L’opponente, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, è convenuto in senso sostanziale.

Ne consegue che ogni deduzione volta, con l’atto di citazione in opposizione, a paralizzare la pretesa creditoria del ricorrente in sede monitoria (attore in senso sostanziale) integra una difesa o un’eccezione, mentre ogni richiesta che ecceda il suddetto ambito e miri a conseguire un risultato favorevole ulteriore rispetto al rigetto dell’avversa domanda (proposta in sede monitoria) costituisce una domanda riconvenzionale.

Alla stregua della formulazione dell’art. 184 c.p.c., antecedente alla riforma del 1990, la richiesta di risoluzione del contratto ex art. 1526 c.c., avanzata dall’opponente in memoria rappresentava un’eccezione consentita anche dopo la prima udienza nei limiti in cui era volta al rigetto della domanda del concedente (non potendosi considerare “nuova”, e come tale preclusa dopo la prima udienza, nel senso di mancanza di connessione logico-giuridica con quelle in precedenza formulate), mentre integrava una riconvenzionale quanto alla richiesta di “liquidare, in favore della società opponente ed a carico dell’opposta, l’eventuale credito residuo”. In tali limiti la richiesta era inammissibile ex art. 167 c.p.c., in quanto avrebbe dovuto essere proposta a pena di inammissibilità con la comparsa di risposta e, dunque, con l’atto di opposizione.

Deve a questo punto stabilirsi se il giudice di primo grado abbia esaminato nel merito la domanda riconvenzionale, così implicitamente ritenendola ammissibile: in tal caso la concedente, vittoriosa in primo grado, avrebbe dovuto proporre appello incidentale per dolersene. Ma tanto va escluso, giacchè il giudice di primo grado s’è limitato a rilevare, ai soli fini del rigetto dell’opposizione e dunque dell’accoglimento della domanda proposta dalla concedente col ricorso per decreto ingiuntivo, che la regolamentazione pattizia prevaleva su quella di legge, senza analizzare neppure implicitamente se l’applicazione dell’art. 1526 c.c., potesse dar luogo all’accoglimento della riconvenzionale. Sulla riconvenzionale non v’era stata, quindi, pronuncia implicita, sicchè legittimamente e fondatamente (quanto, appunto, alla sola riconvenzionale) la concedente appellata ha riproposto la questione in appello ex art. 346 c.p.c..

Da tali rilievi discende che il giudice d’appello non avrebbe potuto emettere una sentenza di condanna della concedente (che aveva decisamente rifiutato il contraddittorio in primo grado e riprospettato la questione in appello) alla restituzione, ma avrebbe potuto esaminare solo se la domanda della concedente stessa, attrice in senso sostanziale, fosse da accogliere o no.

La sentenza va pertanto cassata senza rinvio nella parte in cui ha condannato la concedente Locafit, in questa sede ricorrente, alla restituzione.

Lo scrutinio degli ulteriori motivi di ricorso va conseguentemente condotto esclusivamente in relazione all’interesse di Locafit ad ottenere quanto domandato in sede monitoria, essendo preclusa, per le ragioni dette, una sentenza di condanna a favore dell’utilizzatrice Emil.

2.- Col secondo motivo sono dedotte violazione e falsa applicazione dell’art. 1458 c.c., comma 1, e art. 1526 c.c. e motivazione insufficiente e contraddittoria circa la ritenuta applicabilità alla locazione finanziaria della disciplina in tema di vendita con riserva di proprietà.

Sono, in particolare, poste diffusamente in rilievo la diversità della natura e delle esigenze sottese a tale istituto rispetto al leasing, sostenendosi che gli scopi perseguiti dalla giurisprudenza, che ha fatto ricorso all’applicazione analogica dell’art. 1526 c.c. per evitare che il concedente tragga dall’inadempimento dell’utilizzatore utilitates maggiori di quelle che gli sarebbero derivate dal suo adempimento, sono realizzabili mediante l’applicazione degli artt. 1227 e 2041 c.c..

Si auspica conclusivamente che, a coronamento del percorso di razionalizzazione già avviato nelle più recenti pronunce (è fatto riferimento a Cass., n. 574/05, nonchè a Cass., nn. 9162/01, 4208/01, 5623/88, 8766/87, 3023/86, 6390/83, oltre che a giurisprudenza di merito e dottrina), “la Suprema Corte raccolga gli spunti offerti dagli studiosi più avveduti, dagli operatori del settore, dalle esperienze degli altri ordinamenti giuridici e dalle ultime riforme, riconducendo finalmente la disciplina della materia ad uno schema unitario e coerente”.

2.1.- Col terzo motivo la sentenza è censurata per violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c. e per motivazione illogica, insufficiente e in contrasto con le risultanze istruttorie circa la qualificazione del contratto di cui è causa come leasing traslativo.

Vi si afferma che, essendo documentalmente provato che, a fronte di un esborso di L. 104.000.000, la concedente aveva ricavato dalla rivendita dei beni L. 20.000.000, era del tutto arbitraria l’affermazione della corte d’appello – sulla quale era stata fondata la qualificazione della fattispecie come leasing traslativo – che i beni concessi in leasing erano “per tecnologia e destinazione, destinati ad un’utilizzazione conveniente anche dopo il periodo di durata del rapporto”.

3.- I due motivi possono essere congiuntamente esaminati per la connessione che li connota.

La Corte non ritiene allo stato di doversi discostare dall’impostazione consolidata in ordine alla qualificazione del leasing di godimento e del leasing traslativo: il primo, connotato dalla funzione di finanziamento rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuale alla scadenza del rapporto e a fronte di canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell’uso dei beni stessi, i quali esauriscono la loro funzione economica col godimento temporaneo da parte dell’utilizzatore; il secondo, caratterizzato da una pattuizione riferita a beni atti a conservare, a quella scadenza, un valore residuo superiore all’importo convenuto per l’opzione, dove i canoni scontano anche una quota del prezzo di previsione del successivo acquisto e dove la durata del contratto è predeterminata solo in funzione dell’ulteriore differito trasferimento del bene e della rateizzazione del prezzo d’acquisto. In quest’ultima ipotesi, in caso di inadempimento dell’utilizzatore, si applica in via analogica la disciplina della vendita con riserva della proprietà, per cui, ai sensi dell’art. 1526 cod. civ., l’utilizzatore ha diritto alla restituzione delle rate riscosse ed il concedente ha diritto ad un equo compenso per l’uso della cosa oltre al risarcimento del danno.

(cfr., ex multis, Cass., nn. 13418/2008 e 18195/2007).

Nè, in relazione al valore residuo del bene (rivenduto dalla concedente per L. 20.000.000) dopo 36 mesi, può ritenersi logicamente viziata la conclusione della corte territoriale che si vertesse in ipotesi di leasing traslativo alla luce delle risultanze di fatto esaminate e dei principi sopra enunciati, dei quali è stata fatta corretta applicazione.

Il motivi vanno dunque respinti.

4.- Col quarto motivo sono dedotte violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1526 c.c., nonchè motivazione illogica, insufficiente e in contrasto con le risultanze istruttorie circa la determinazione dell’equo compenso e del risarcimento del danno spettanti alla concedente a seguito della risoluzione del contratto di leasing. Si sostiene che, dovendosi ricostituire per il concedente la stessa situazione economica in cui si sarebbe trovato in caso di puntuale adempimento da parte dell’utilizzatore, nella specie era stata percepita dal concedente la somma di L. 85.861.507 per canoni (senza tener conto di quanto versato dall’assicuratore a seguito del furto parziale e che era stato considerato in sede di riduzione dei canoni), oltre a L. 20.000.000 ricavate dalla rivendita, sicchè la concedente aveva ottenuto un rientro complessivo di L. 105.861.507 a fronte di quello di L. 135.470.100 che avrebbe realizzato in caso di esito positivo dell’operazione, con una differenza a suo credito di poco meno di 30 milioni di lire.

Contro ogni criterio di intrinseca razionalità la concedente era stata invece condannata a versare alla parte inadempiente la somma di L. 99.000.000.

4.1.- Va preliminarmente ribadito che ogni questione relativa alla intervenuta condanna della concedente al versamento di somme a favore della utilizzatrice è definitivamente superata dall’accoglimento del primo motivo di ricorso, che definitivamente preclude qualsiasi statuizione in tal senso.

Le osservazioni che seguono vengono dunque svolte esclusivamente in funzione della determinazione dell’eventuale sussistenza, a favore della concedente, del credito fatto valere in sede monitoria; nonchè della somma ulteriore, pari all’equivalente in euro di L. 5.292.005, riconosciuta a suo favore dal giudice di primo grado, che aveva impropriamente qualificato “riconvenzionale” la relativa domanda, la cui inammissibilità era stata dagli attuali controricorrenti (fondatamente) prospettata in appello e che la corte territoriale ha implicitamente respinto (decidendo la causa nel merito), senza alcuna censura formulata in questa sede dai controricorrenti, che avrebbero dovuto dolersene con ricorso incidentale. Sulla questione relativa all’ammissibilità della domanda ulteriore svolta dalla opposta concedente a seguito dell’opposizione a decreto ingiuntivo si è dunque formato il giudicato.

Tanto chiarito, il motivo è fondato nei sensi di cui appresso.

Nella sentenza impugnata (a pagina 11, primo capoverso) si afferma apoditticamente che la concedente Locafit aveva ricevuto dall’utilizzatrice l’importo di L. 126.187.869. Locafit sostiene, invece, che dagli accertamenti compiuti dal c.t.u. la somma versata ascendeva a L. 83.773.969 (benchè, a pag. 35 del ricorso, dia atto di avere in realtà percepito la maggior somma di L. 85.861.507).

L’enorme differenza tra gli importi e l’assoluta mancanza di riferimenti, nel corpo della sentenza impugnata, ai dati fattuali in base ai quali è stato determinato il quantum versato dall’utilizzatrice impedisce ogni verifica di congruità dell’iter argomentativo della corte d’appello: non è neppure chiarito se, nella determinazione di quella somma (L. 126.187.869), sia stato o meno considerato il valore (che il ricorrente indica in L. 20.000.000 in relazione alla somma realizzata dalla vendita dei beni restituiti) che i beni effettivamente avevano al momento della restituzione.

Il giudice del rinvio, nel riapprezzare il fatto, si atterrà ai principi enunciati da questa Corte con sentenza n. 574/2005, che ha analiticamente chiarito quali siano le operazioni da compiere per determinare l’equo compenso ed il risarcimento del danno dovuti al concedente in caso di risoluzione del leasing traslativo per inadempimento dell’utilizzatore; tanto in vista dell’obiettivo di far conseguire al concedente utilità identiche (non maggiori, nè inferiori) a quelle che avrebbe tratto dall’operazione finanziaria in caso di puntuale adempimento da parte dell’utilizzatore.

In quell’occasione si è in particolare affermato – e va qui ribadito – che l’inadempimento dell’utilizzatore obbliga quest’ultimo al risarcimento del danno e alla corresponsione di un equo compenso alla controparte, in considerazione dell’utilizzazione del bene oggetto del contratto; che l’ammontare di tale equo compenso potrà legittimamente superare, nella sua concreta determinazione, il solo corrispettivo del temporaneo godimento del bene predetto, mentre, recuperati dal concedente (mediante il detto compenso) il capitale monetario impegnato nell’operazione ed il residuo valore del bene, il risarcimento del danno non si presta ad essere commisurato all’intera differenza necessaria per raggiungere il guadagno atteso, poichè, con l’anticipato recupero del bene e del suo valore, il concedente è di norma in grado di procurarsi, attraverso il reimpiego di quel valore, un proporzionale utile, che deve conseguentemente essere calcolato in detrazione rispetto alla somma che l’utilizzatore stesso avrebbe ancora dovuto corrispondere se il rapporto fosse proseguito (e, del danno così determinato, dovrà tenersi conto anche ai fini dell’esercizio del potere di riduzione dell’eventuale clausola penale che comporti un risarcimento eccessivo).

5.- Col quinto motivo la sentenza è, da ultimo, censurata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1372 e 1462 c.c., nonchè per omessa motivazione in ordine all’impegno di pagamento a semplice richiesta assunto dai garanti ed alla loro rinuncia ad opporre eccezioni attinenti al rapporto principale. Il giudice d’appello non ne aveva tenuto alcun conto (al contrario del giudice di prime cure), pur dandone atto alle pagine 5 e 6 della sentenza.

5.1.- Il motivo è infondato, essendo rimasta la questione assorbita dalla decisione assunta dalla corte d’appello, che aveva escluso la sussistenza del debito del debitore principale (l’utilizzatrice Emil) e, dunque, dei garanti. Potrà, dunque, essere riproposta in sede di rinvio.

6.- In conclusione, vanno accolti il primo ed il quarto motivo di ricorso e rigettati gli altri.

Al giudice del rinvio, che si designa nella stessa corte d’appello in diversa composizione e che è investito della sola questione relativa alla sussistenza ed alla determinazione dell’eventuale credito residuo della ricorrente Locafit, è rimessa anche la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE Accoglie il primo ed il quarto motivo di ricorso, rigetta il secondo, il terzo ed il quinto, cassa in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese, alla corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 8 luglio 2010.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2010

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