Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1929 del 28/01/2020

Cassazione civile sez. III, 28/01/2020, (ud. 06/11/2019, dep. 28/01/2020), n.1929

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3402/2018 proposto da:

S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NICOLA

RICCIOTTI 11, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO IMPROTA,

rappresentato e difeso dall’avvocato GLAUCO BASSETTO;

– ricorrente –

contro

C.C., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

SERGIO PIZZUTO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1584/2017 della CORTE D’APPELLO di CATANIA;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/11/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Catania, con sentenza in data 25.9.2017 n. 1584 ha dichiarato inammissibile, per decorso del termine lungo di decadenza ex art. 327 c.p.c. (sei mesi: nel testo modificato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 17, applicabile ratione temporis ai sensi dell’art. 58, comma 1, della predetta legge), l’atto di citazione in appello proposto da S.G., mediante deposito in Cancelleria in data 10.2.2017, avverso la sentenza n. 5471/2016 del Tribunale di Catania, resa in causa celebrata con il rito locatizio ex art. 447 bis c.p.c., e pubblicata alla udienza 6.7.2016, dopo la discussione orale, mediante lettura contestuale del dispositivo e della motivazione.

Avverso la sentenza di appello, notificata in forma telematica in data 13.11.2017, è stato proposto da S.G. ricorso per cassazione affidato a due motivi.

Resiste con controricorso C.C..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorrente ha dedotto due motivi con i quali censura la sentenza di appello per “vizio di violazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Con il primo rileva che la Corte territoriale sarebbe caduta in errore nella lettura della sentenza resa a verbale di udienza del 6.7.2016, in quanto, alla pag. 2 della sentenza (trascritta nel ricorso, pag. 3-4) era affermato che “…le parti discutono la causa ed al termine della udienza viene letto il dispositivo, esponendo le ragioni di fatto e di diritto della decisione…”, sicchè, dovendo attribuirsi una diversa rilevanza alle espressioni verbali “leggere” ed “esporre”, il Giudice di appello doveva trarne la conseguenza che alla udienza si era letto soltanto il dispositivo, atteso che non vi era neppure prova che il documento-sentenza (corredato anche della motivazione) fosse stato allegato al verbale di udienza.

Con il secondo motivo deduce che la mera lettura del dispositivo alla udienza 6.7.2016, non consentiva il decorso del termine lungo per impugnare, da individuarsi invece nella successiva data 11.7.2016 in cui la sentenza era stata pubblicata dal Cancelliere, data alla quale risultava l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico con attribuzione del relativo numero identificativo “5172/2016”. Pertanto qualora si fossero ravvisate due distinte date di deposito doveva trovare applicazione il principio di prevalenza della data di inserimento della sentenza nel registro cronologico, come stabilito dalle SS.UU. nelle sentenze in data 1.8.2012 n. 13794 ed in data 22.9.2016 n. 18569.

Il primo motivo è inammissibile, ai sensi dell’art. 360 bis, comma 1, n. 1) c.p.c. in quanto volto affermare, senza introdurre nuovi elementi di critica, una tesi in contrasto con i principi di diritto enunciati da questa Corte in relazione alla interpretazione degli artt. 429 e 430 c.p.c..

Il ricorrente, infatti, non pone in discussione – non contesta in fatto – che il Giudice di primo grado abbia dato “lettura” del dispositivo ed “esposto” le ragioni in fatto e diritto della decisione, ma intende piuttosto riferire a tali espressioni lessicali – che si rinvengono peraltro nello stesso testo normativo dell’art. 429 c.p.c., comma 1: “….pronuncia sentenza con cui definisce il giudizio dando lettura del dispositivo e della esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione..” – una diversa portata semantica, sicchè, secondo la tesi prospettata, la mera “esposizione” non coinciderebbe con la “lettura”, attività quest’ultima alla quale soltanto -se estesa anche alle ragioni della motivazione – potrebbe essere esclusivamente riferito l’effetto perfezionativo della “pubblicità legale” della sentenza.

Premesso che dalla sentenza di prime cure – al cui esame questa Corte ha diretto accesso in considerazione della natura processuale del vizio di legittimità fatto valere-ogni dubbio viene fugato dalla espressa dichiarazione, in calce al testo integrale della sentenza, “letta in udienza 6 luglio 2016”, osserva il Collegio che l’ipotesi, formulata dal ricorrente, di una diversa portata semantica tra “lettura” della motivazione ed “esposizione” delle ragioni in fatto e diritto della decisione, deve ritenersi totalmente destituita di qualsiasi fondamento testuale, logico e sistematico, alla stregua dei seguenti criteri ermeneutici delle norme di diritto:

– testuale: posto che la norma dell’art. 429 c.p.c., comma 1, cui ha fatto espresso riferimento il Giudice di prime cure, pone come complemento oggetto del predicato verbale “leggere” sia il “dispositivo” che la “esposizione delle ragioni” della decisione, sicchè se la “esposizione” è oggetto del “leggere”, non può allora assumere valenza di predicato verbale autonomo individuante una attività ulteriore e distinta rispetto alla “lettura” la quale, pertanto, presuppone cronologicamente la esposizione delle ragioni in fatto e diritto, e dunque la esistenza della sentenza – riprodotta a verbale o comunque in atto separato allegato a verbale perchè ne faccia parte integrante – completa in tutti i sui elementi prescritti a pena di invalidità (art. 132 c.p.c.).

– logico: perchè, anche a volere scindere nella proposizione normativa i predicati verbali “esporre” o “leggere”, non pare dubbio che entrambi riflettano attività che producono lo stesso identico effetto esternativo-comunicativo, in forma verbale, degli elementi fattuali ritenuti decisivi e delle argomentazioni in base alle quali si è pervenuti alla individuazione ed applicazione al caso controverso della regula juris;

– sistematico: perchè, secondo la tesi difensiva prospettata, all’ipotizzata distinta – attività “espositiva” delle ragioni della decisione non sarebbe ricollegabile alcun effetto giuridico processuale, in evidente contrasto con la “ratio legis” della norma, che riconduce l’effetto perfezionativo della pubblicazione della sentenza al conseguimento dello scopo di portare ad effettiva e legale conoscenza delle parti – tramite la enunciazione verbale del Giudice- il contenuto del dispositivo e della motivazione, risultato che viene raggiunto anche dalla “esposizione” del contenuto delle ragioni poste a fondamento della decisione, laddove “leggere i motivi esposti” (nel verbale di udienza o nell’atto allegato), od “esporre verbalmente i motivi” (riportati nel verbale di udienza o nell’atto allegato), conduce allo stesso risultato conoscitivo, risolvendosi pertanto la differenza lessicale esclusivamente nell’utilizzo di una diversa terminologia della medesima attività enunciativa – partecipativa, avente un mero carattere sinonimico.

Dovendo ritenersi coincidenti, pertanto, tanto l’attività – enunciativa, quanto il risultato di conoscenza legale, sottesi alle differenti espressioni lessicali, l’assunto difensivo posto a fondamento della censura, senza apportare nuove ragioni in diritto volte ad una rimeditazione della problematica sottesa alla interpretazione dell’art. 429 c.p.c., si palesa contrario – ed è perciò inammissibile ex art. 360 bis c.p.c. – al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “In materia di controversie soggette al rito del lavoro, l’art. 429 c.p.c., comma 1, come modificato dal D.L. n. 112 del 2008, art. 53, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 133 del 2008, applicabile “ratione temporis” – prevede che il giudice all’udienza di discussione decide la causa e procede alla lettura del dispositivo e delle ragioni in fatto e diritto della decisione, sicchè, in analogia con lo schema dell’art. 281 sexies c.p.c., il termine “lungo” per proporre l’impugnazione, ex art. 327 c.p.c., decorre dalla data della pronuncia, che equivale, unitamente alla sottoscrizione del relativo verbale da parte del giudice, alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall’art. 133 c.p.c., con esonero, quindi, della cancelleria dalla comunicazione della sentenza; viceversa, nella residuale ipotesi di particolare complessità della controversia, in cui il giudice fissi un termine non superiore a sessanta giorni per il deposito della sentenza, ai sensi dell’art. 430 c.p.c., il termine decorrerà dalla comunicazione alle parti dell’avvenuto deposito da parte del cancelliere” (cfr. Corte cass. Sez. L -, Sentenza n. 13617 del 30/05/2017, concernente il rito speciale del lavoro; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 14724 del 07/06/2018, con riferimento al rito speciale locatizio. Vedi, quanto alla analoga disposizione dell’art. 281 sexies c.p.c.: Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22659 del 08/11/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 17311 del 31/08/2015).

Il secondo motivo è invece infondato.

Il ricorrente deduce che la sentenza del Tribunale si presenterebbe con una duplice data di deposito, posto che accanto alla data del verbale di udienza risulta apposta anche la data 11.7.2016 (repert. N. 5172/2016 del 11/07/2016), sicchè la Corte territoriale avrebbe violato i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte nelle sentenze n. 13794/2012 e n. 18569/2016, secondo cui l’equivoco ingenerato dalla irrituale apposizione della doppia data non può ricadere sulla parte incolpevole, dovendo aversi riferimento ai fini del dies a quo di decorrenza del termine di impugnazione alla data di “pubblicazione” che avviene con l’inserimento della sentenza nel registro cronologico degli atti tenuto dalla Cancelleria.

Premesso che la censura va riqualificata in relazione al vizio di violazione di norma processuale (art. 327 c.p.c.), con la conseguenza che non è dato scindere nell’esame del motivo di ricorso la critica attinente alla valutazione del fatto processuale dalla verifica della difformità dell’attività esercitata dal Giudice rispetto al modello della norma processuale (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 8077 del 22/05/2012), osserva il Collegio che nella specie – come peraltro riferito dallo stesso ricorrente – non si riscontrano due date diverse di “deposito” della sentenza, con attestazioni in calce sottoscritte dal Cancelliere (art. 133 c.p.c., comma 2), ma accanto al verbale di udienza cui è allegata la sentenza sottoscritta dal Giudice in data 6.7.2016 – che deve intendersi pertanto “pubblicata” lo stesso giorno, ai sensi dell’art. 429 c.p.c., comma 1, – vi è l’apposizione del numero cronologico (5172/2016) relativo all’inserimento del provvedimento nel “registro delle sentenze e degli altri provvedimenti emessi e pubblicati”, effettuato alla successiva data dell’11.7.2016. Tale annotazione, essendo priva di timbro e sottoscrizione del funzionario di Cancelleria, neppure è riconducibile astrattamente ad un atto di “attestazione” emesso ai sensi dell’art. 57 c.p.c., e art. 133 c.p.c., comma 2, (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12986 del 23/06/2016), come correttamente rilevato dal Giudice di appello.

Conseguentemente, non emergono dalla sentenza due distinte date di “deposito” e di “pubblicazione”, e dunque deve aversi riguardo esclusivamente alla data della udienza 6.7.2016, in cui è stata data formale conoscenza alle parti del contenuto del dispositivo e delle ragioni della decisione. Inconferenti debbono, quindi, essere ritenuti i richiami ai precedenti giurisprudenziali sopra indicati, in quanto nella fattispecie in esame non ricorrono i presupposti della oggettiva incertezza sulla data di pubblicazione della sentenza, determinata dalla scissione temporale tra l’attività di deposito rimessa al Giudice e la successiva attestazione di detta attività da parte del funzionario di Cancelleria, mediante apposizione del timbro datario e della sottoscrizione, con attribuzione del numero cronologico ed inserimento della sentenza nel relativo registro, attività quest’ultima che soltanto rendeva conoscibile alle parti l’avvenuto deposito della sentenza (nella fattispecie esaminata da SSUU n. 13794/2012 la sentenza del Giudice di Pace recava due distinte date e due sottoscrizioni del funzionario di Cancelleria; nella fattispecie esaminata da SSUU n. 18569/2016 è stato rimesso al Giudice del rinvio l’accertamento in fatto della eventuale discrasia cronologica tra l’inserimento della sentenza nel registro di Cancelleria e la data di attestazione del deposito).

Occorre, infatti, considerare che l’arresto del 2016 ha dovuto tenere conto della pronuncia della Corte costituzionale n. 3 del 2015 secondo, cui costituisce “parte integrante del diritto di difesa, infatti, che i soggetti interessati abbiano tempestiva conoscenza degli atti oggetto di una possibile impugnazione, in modo che siano utilizzabili nella loro interezza i termini di decadenza previsti per l’esperimento del gravame”, e pertanto, in caso di patologica anomalia nello schema procedimentale dell’art. 133 c.p.c. – determinata da una scissione cronologica tra attività di deposito rimessa al Giudice ed attività volte a perfezionare la pubblicazione, risultante dalla apposizione in calce alla sentenza di una data di deposito differente dalla data di pubblicazione, occorre avere riguardo esclusivamente al momento in cui la sentenza, con la registrazione, è stata effettivamente resa ostensibile alle parti, in quanto “è solo con il compimento di queste operazioni che può dirsi realizzata quella “pubblicità”, prevista dalla norma, che rende possibile a chiunque l’acquisizione della conoscenza dei dati che ne costituiscono l’oggetto, possibilità che si traduce nella titolarità da parte dei potenziali interessati di puntuali situazioni giuridiche e in particolare del potere di prendere visione degli atti pubblicati e di estrarne copia”.

Orbene i principi enunciati dalla Corte costituzionale e ripresi nelle pronuncia di legittimità del 2016 hanno ad oggetto lo schema normativo di cui all’art. 133 c.p.c., e dunque non rilevano nella fattispecie in esame in cui tale schema è espressamente derogato, venendo a rilevare la successiva attività dell’apposizione del numero cronologico e dell’inserimento della sentenza nel registro della Cancelleria esclusivamente sul piano amministrativo, rimanendo del tutto separata ed esterna alla “pubblicazione”, ossia alla conoscenza legale del provvedimento, che deve ritenersi perfezionata già al momento della lettura del dispositivo e delle ragioni in fatto e diritto della decisione, alla stregua del principio – enunciato in relazione all’art. 281 sexies c.p.c., ma riferibile alla medesima ipotesi contemplata dall’art. 429 c.p.c., comma 1 – secondo cui “La sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., integralmente letta in udienza e sottoscritta dal giudice con la sottoscrizione del verbale che la contiene, deve ritenersi pubblicata e non può essere dichiarata nulla nel caso in cui il cancelliere non abbia dato atto del deposito in cancelleria e non vi abbia apposto la data e la firma immediatamente dopo l’udienza. Invero, la previsione normativa dell’immediato deposito in cancelleria del provvedimento è finalizzata a consentire, da un lato, al cancelliere il suo inserimento nell’elenco cronologico delle sentenze, con l’attribuzione del relativo numero identificativo, e, dall’altro, alle parti di chiederne il rilascio di copia, eventualmente, in forma esecutiva.” (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 11176 del 29/05/2015; id. Sez. 2 -, Sentenza n. 22519 del 24/09/2018).

Pertanto è conforme a diritto la decisione della Corte d’appello che ha dichiarato inammissibile l’atto di appello, proposto nelle forme dell’atti di citazione anzichè con ricorso – come richiesto dalla natura speciale del rito locatizio ex art. 447 bis c.p.c. – in quanto, se pure convertibile l’atto di citazione in appello nella forma del ricorso in base al principio di conservazione degli atti giuridici, tuttavia il deposito in Cancelleria dell’atto (10.2.2017) era intervenuto in data successiva a quella di scadenza del termine lungo semestrale ex art. 327 c.p.c., decorrente dal 6.7.2016 data di pubblicazione della sentenza impugnata.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato alle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2020

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