Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19265 del 16/09/2020

Cassazione civile sez. II, 16/09/2020, (ud. 06/02/2020, dep. 16/09/2020), n.19265

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20630/2019 proposto da:

R.S., rappresentato e difeso dall’Avvocato Massimo Gentili,

del Foro di Macerata con studio in Mascerata p.zza Mazzini 36;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), rappresentato e difeso ope legis

dall’Avvocatura Generale dello Stato, con sede in Roma via Dei

Portoghesi 12;

– resistente –

e contro

COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE

INTERNAZIONALE CROTONE;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Catanzaro, depositata il

21/05/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/02/2020 dal Consigliere Dott. Annamaria Casadonte.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– il presente giudizio trae origine dal ricorso proposto da R.S., cittadino del (OMISSIS), avverso il decreto del Tribunale di Catanzaro che, respingendo la sua opposizione, ha confermato il diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a), b) e c), nonchè del diritto al riconoscimento della protezione umanitaria;

– a sostegno delle domande il richiedente aveva allegato di provenire dal Bangladesh e, in particolare, dal distretto di (OMISSIS);

– inoltre, egli precisava di avere lasciato il suo paese nel 2012 e di essere giunto in Italia nell’ottobre 2015 in cerca di un’occupazione lavorativa che gli consentisse di provvedere al sostentamento della sua famiglia; aggiungeva, altresì, di avere ricevuto minacce di morte da una famiglia del villaggio che gli aveva prestato del danaro per curare il padre malato;

– il Tribunale di Catanzaro respingeva l’opposizione evidenziando come il racconto dei fatti che avevano determinato la partenza dal Paese fosse credibile, ma non era riconducibile ai presupposti che giustificassero nè il riconoscimento dello status di rifugiato nè la fattispecie della protezione sussisdiaria previste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), nè a quella della violenza indiscriminata di cui del citato art. 14, lett. c);

– il tribunale escludeva, altresì, la sussistenza di una specifica situazione di vulnerabilità che potesse giustificare il riconoscimento della protezione umanitaria;

– la cassazione del decreto impugnato è chiesta sulla base di quattro motivi;

– l’intimato Ministero si è costituito ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 1, seconda ipotesi.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, per avere il tribunale erroneamente escluso la sussistenza dei requisiti della protezione internazionale in ragione dell’arrivo del richiedente in Italia nel 2015 e nella formalizzazione della domanda solo in data 19 giugno 2017 ritenendo così dimostrata la ragione economica della partenza dal Bangladesh;

– la censura è infondata perchè non prospetta un’eventuale violazione dell’applicazione della norma richiamata ma si concentra nella contestazione dell’apprezzamento di merito fatto dal tribunale, la cui motivazione è sindacabile nei limiti ora consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma, n. 5, quale omesso esame di un fatto decisivo ovvero nei limiti della motivazione apparente, contraddittoria o mancante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (cfr. Cass. Sez. Un. 8053/2014);

– tale contestazione nel caso di specie è infondata poichè il ricorrente non ha allegato specifici elementi per illustrare le gravi conseguenze cui andrebbe incontro nel caso di rientro nel suo paese e tali da giustificare il riconoscimento dello status di rifugiato;

– con il secondo motivo si censura la violazione dell’art. 738 c.p.c., comma 3, art. 345 c.p.c., comma 3, art. 359 c.p.c. e dell’art. 184 c.p.c., per non avere proceduto all’audizione del richiedente al fine di valutare i fatti rilevanti, in adempimento del dovere di cooperazione, al fine dell’accertamento giudiziale demandatogli;

– la censura è infondata perchè all’udienza fissata dal tribunale il richiedente non è comparso e, pertanto, ha implicitamente rinunciato a fornire eventuali chiarimenti sui fatti allegati;

– con il terzo motivo si censura la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per non avere il tribunale tenuto in considerazione, anche in attuazione del principio di non refoulment, la condizione socio-politica del Bangladesh come desumibile dalle informazioni del sito (OMISSIS);

– il motivo è infondato perchè i rapporti COI predisposti dall’EASO e da altre fonti internazionali, specificamente richiamati (cfr. pag. 12 del decreto impugnato) sono stati esaminati ai fini dell’accertamento giudiziale delle condizioni socio-politiche del Bangladesh ed il tribunale ha motivatamente escluso sulla scorta delle loro risultanze che il Paese di provenienza del richiedente sia esposto alla violenza indiscriminata tale per cui per la sua sola presenza sul territorio un civile correrebbe un rischio effettivo di subire la minaccia grave di cui all’art. 14, lett. c);

– va, peraltro, osservato che la censura neppure specifica (cfr. pag. 5 del ricorso) il contenuto delle informazioni sul sito (OMISSIS) del deporrebbero in senso contrario all’apprezzamento di fatto svolto dal tribunale nel decreto impugnato;

– con il quarto motivo si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 comma 6, per avere il tribunale escluso la protezione umanitaria senza considerare il grado di integrazione lavorativa dimostrato dal richiedente nel paese di accoglienza;

– la censura è infondata perchè, come chiarito nella sentenza di questa Corte n. 4455/2018 in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza;

– in applicazione di tale principio la Suprema corte ha nella pronuncia richiamata cassato la sentenza impugnata che, in assenza di comparazione, aveva riconosciuto ad un cittadino gambiano presente in Italia da oltre tre anni il diritto al rilascio del permesso di soggiorno in ragione della raggiunta integrazione sociale e lavorativa in Italia allegando genericamente la violazione dei diritti umani nel Paese d’origine;

– nel caso di specie il suddetto principio è stato correttamente applicato e, come nel caso del cittadino gambiano, il tribunale ha ritenuto che l’allegata integrazione lavorativa del R. non sia di per sè sufficiente a giustificare il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari;

– l’esito sfavorevole di tutti i motivi giustifica il rigetto del ricorso;

– nulla va disposto sulle spese di lite atteso il mancato sostanziale svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato Ministero;

– ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 6 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2020

 

 

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