Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19263 del 17/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 17/07/2019, (ud. 09/05/2019, dep. 17/07/2019), n.19263

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10075-2018 proposto da:

FCA ITALY S.P.A. (già FIAT GROUP AUTOMOBILES S.P.A.), in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELE DE

LUCA TAMAJO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati

ITALICO PERLINI, GAETANO CAPPUCCI;

– ricorrente –

contro

C.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CENTURIPE 33,

presso lo studio dell’avvocato MATTEO BARREA, rappresentato e difeso

dall’avvocato SANDRO SALERA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 456/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 01/02/2018 R.G.N. 3552/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/05/2019 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE ALBERTO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ITALICO PERLINI;

udito l’Avvocato CORIOLANO CUOZZO per delega Avvocato Sandro Salera.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 456/2018, rigettava il reclamo proposto L. n. 92 del 2012, ex art. 1,comma 58, da Fiat Chrysler Automobiles Italy (FCA Italy) avverso la sentenza del Tribunale di Cassino che aveva respinto l’opposizione di essa reclamante e confermato l’ordinanza con cui era stato annullato, per insussistenza della giusta causa, il licenziamento intimato a C.R. ed era stata applicata la c.d. reintegrazione attenuata di cui all’art. 18 stat. lav., comma 4 come modificato dalla predetta L. n. 92 del 2012.

2. Il C. era stato sottoposto a misura coercitiva della libertà personale consistente nell’obbligo di dimora nel corso di un procedimento penale volto all’accertamento del reato di organizzazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti.

3. La Corte di appello affermava che:

– la società reclamante era pervenuta alla contestazione disciplinare “sulla base di tale misura coercitiva e dell’indagine svolta, di cui FCA era venuta a conoscenza a seguito di alcuni articoli di cronaca locale” e che, “nonostante il reato contestato al C. si possa indubbiamente definire odioso, andando a minare le basi della convivenza civile”, non era possibile riscontrare alcuno specifico addebito di responsabilità in capo al dipendente, non potendo a tal fine essere sufficiente il coinvolgimento nell’operazione antidroga come pure la sottoposizione a misura cautelare, in difetto di prova da parte della reclamante in merito alla messa in pericolo della sicurezza dell’attività produttiva o del discredito sociale che la condotta avrebbe gettato sulla società;

– nulla era stato riferito circa un preciso capo di imputazione contestato al C., tenuto conto che grava sul datore di lavoro l’onere di motivare la sussistenza di una “effettiva incidenza della condotta criminosa…sullo svolgimento del rapporto di lavoro”, “non essendo sufficiente, a tal scopo, l’indicazione della potenziale lesività della condotta stessa”; neppure è sufficiente il solo fatto di avere indicato il coinvolgimento del C. in un’indagine penale, peraltro a carico di più persone, e la sua conseguente temporanea sottoposizione alla misura dell’obbligo di dimora;

– la contrattazione collettiva di riferimento prevede la sanzione disciplinare del licenziamento per motivi giudiziari solo nel caso di sentenza di condanna passata in giudicato, rendendo comunque possibili, negli altri casi, sanzioni disciplinari diverse;

– correttamente il primo giudice aveva applicato la tutela di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4 in quanto i fatti addebitati non erano di per sè idonei ad assumere rilievo disciplinare in difetto della dimostrazione di una effettiva commissione da parte dell’indagato e dovendo quindi ritenersi integrata l’ipotesi della insussistenza del fatto contestato, per la quale è prevista la suddetta tutela.

4. Per la cassazione di tale sentenza FCA s.p.a. ha proposo ricorso affidato a due motivi. Il C. ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia violazione dell’art. 2119 c.c. e L. n. 604 del 1966, art. 1 nonchè dell’art. 32, titolo III, lett. A) punto g) del CCNL di settore, nonchè vizio di motivazione per avere la sentenza contraddittoriamente affermato che il reato contestato al C. era “odioso andando a minare le basi della convivenza civile” per poi ritenere, peraltro in modo meramente assertivo, che lo stesso non potesse incidere sul vincolo di fiducia tra datore di lavoro e dipendente.

Rileva come anche fatti extralavorativi ben possano integrare, secondo la giurisprudenza di legittimità, gli estremi della giusta causa di recesso.

Deduce che la sussistenza della condotta contestata era desumibile dall’ordinanza ex art. 292 c.p.p., allegata al fascicolo di primo grado di parte ricorrente, da cui era possibile evincere in modo inequivocabile il reato ascritto al C., l’appartenenza del ricorrente ad un sodalizio criminoso, la natura non episodica e la dimostrazione di numerosi episodi di spaccio, anche attraverso le intercettazioni telefoniche citate nella stessa ordinanza, ben potendo tali elementi integrare la giusta causa di recesso, da ritenere dunque provata.

Nè potrebbe comunque rilevare, in senso limitativo, l’elencazione delle ipotesi di giusta causa contemplate dalla contrattazione collettiva, dovendo pur sempre il giudice verificare, stante l’inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quelle previsioni siano conformi alla nozione di giusta causa ex art. 2119 c.c..

2. Con il secondo motivo denuncia violazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, commi 4 e 5, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1 e vizio di motivazione in ordine alla circostanza per cui i fatti contestati non sarebbero di per sè idonei ad assumere rilievo disciplinare.

Deduce che nel contesto della nuova normativa non può ritenersi la “insussistenza del fatto”, ai fini della tutela di cui all’art. 18, comma 4 novellato, laddove la materialità del fatto, nella sua realtà fenomenica, sia accertata, esulando da tale valutazione l’accertamento della proporzionalità.

Ripercorre il contenuto del primo motivo di reclamo con cui la società FCA aveva denunciato che la sussistenza del fatto era integrata dagli elementi desumibili dall’ordinanza ex art. 292 c.p.p., da cui era possibile ricostruire i tratti salienti del reato addebitato, l’inserimento in una organizzazione criminale e la serie degli episodi di spaccio accertati, susseguitisi per un cospicuo lasso di tempo, nonchè le modalità organizzative di perpetrazione degli stessi. Dunque, il giudice di merito aveva trascurato di considerare che la prova dei fatti era insita nelle stesse indagini condotte dall’autorità giudiziaria, che avevano dimostrato come il ricorrente fosse coinvolto in una associazione dedita allo spaccio di stupefacenti.

3. Il primo motivo di ricorso merita accoglimento per le ragioni che seguono, restando assorbito nel relativo accoglimento l’esame del secondo.

4. Innanzitutto, contraddittoriamente la sentenza, pur dando atto che il reato contestato al C. era “odioso andando a minare le basi della convivenza civile”, ha poi ritenuto che lo stesso non potesse incidere sul vincolo di fiducia tra datore e dipendente per non avere il datore di lavoro esplicitato le ragioni di tale lesione.

4.1. La giusta causa di licenziamento è una nozione che la legge configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modello generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama; tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e censurabile in cassazione nei limiti del vizio di motivazione. Pertanto, la sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa secondo standards conformi ai valori dell’ordinamento, che trovino conferma nella realtà sociale, è sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla pertinenza e non coerenza del giudizio operato, quali specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico affidato alla Cassazione (Cass. n. 31115 del 2018). E’ dunque praticabile il sindacato di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nei casi in cui gli standards valutativi, sulla cui base è stata definita la controversia, finiscano per collidere con i principi costituzionali, con quelli generali dell’ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come diritto vivente (Cass. n. 7305 del 2018).

4.2. In tale contesto, è censurabile in diritto l’affermazione secondo cui una condotta, astrattamente ritenuta incoerente con gli standards conformi ai valori dell’ordinamento desumibili dalla coscienza sociale, possa non esserlo laddove il datore di lavoro non ne abbia chiarito in giudizio l’incidenza lesiva nel rapporto di lavoro. Tenuto conto che anche fatti extralavorativi possono costituire giusta causa di licenziamento (cfr., tra le altre, Cass. n. 2168 del 2013, n. 3136 del 2015), occorre pur sempre indagare in ordine alle modalità concrete del fatto e ad ogni altra circostanza rilevante in relazione alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonchè alla portata soggettiva del fatto stesso.

5. Quanto poi all’assenza di un accertamento definitivo della colpevolezza in sede penale, va osservato che il principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva sancito dall’art. 27 Cost., comma 2, concerne le garanzie relative all’attuazione della pretesa punitiva dello Stato, e non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna, non essendo a ciò di ostacolo neppure la circostanza che il contratto collettivo di lavoro preveda la più grave sanzione disciplinare solo qualora intervenga una sentenza definitiva di condanna (Cass. n. 29825 del 2008; conf. Cass. n. 13955 del 2014 e 18513 del 2016).

5.1. In presenza di comportamenti del lavoratore che possano integrare gli estremi del reato, qualora i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, il datore di lavoro può esercitare la facoltà di recesso senza che sia necessario attendere la sentenza definitiva di condanna. Dunque, lo stabilire se nel fatto commesso dal dipendente ricorrano o no gli estremi di una giusta causa di licenziamento ha carattere autonomo rispetto al giudizio che del medesimo fatto debba darsi a fini penali (v. fra le altre Cass. n. 12163 del 1997).

6. Quanto alla valutazione della gravità del comportamento del dipendente ai fini del giudizio sulla legittimità del licenziamento per giusta causa, essa deve essere compiuta alla stregua della ratio dell’art. 2119 c.c., e cioè tenendo conto dell’incidenza del fatto sul particolare rapporto fiduciario che lega il datore di lavoro al lavoratore, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione.

6.1. Pertanto, il giudice davanti al quale sia impugnato un licenziamento disciplinare intimato per giusta causa a seguito del coinvolgimento del lavoratore in un procedimento penale con l’imputazione di gravi reati potenzialmente incidenti sul rapporto fiduciario – ancorchè non commessi nello svolgimento del rapporto – deve accertare l’effettiva sussistenza dei fatti riconducibili alla contestazione, idonei ad evidenziare, per i loro profili soggettivi ed oggettivi, l’adeguato fondamento di una sanzione disciplinare espulsiva (cfr. Cass. n. 18513 del 2016).

7. Tutto ciò premesso, venendo alla disamina del nucleo essenziale della motivazione, che ha ritenuto “insussistente”, in quanto non provato, il fatto di cui alla contestazione disciplinare, deve osservarsi che la sentenza impugnata è conforme a diritto laddove ha affermato che non è sufficiente il mero dato dell’adozione di un provvedimento cautelare per ritenere dimostrata la giusta causa ex art. 2119 c.c., ma non lo è laddove ha limitato il proprio accertamento e la propria valutazione a tale mero riscontro formale.

7.1. Poichè a norma dell’art. 292 c.p.p. incombe sul giudice che emette un’ordinanza applicativa di una misura coercitiva personale l’obbligo di motivarla, ossia di esplicitare le esigenze cautelari e i gravi indizi di colpevolezza, il richiamo per relationem operato nel provvedimento di licenziamento all’ordinanza suddetta – prodotta agli atti del giudizio (come è pacifico) – faceva carico al giudice civile, chiamato a valutare la legittimità del provvedimento espulsivo, di esaminare il contenuto di tale ordinanza, onde stabilire se la stessa fornisse o meno elementi sufficienti a sostenere l’addebito disciplinare.

7.2. Secondo un principio più volte affermato da questa Corte, in tema di sanzioni disciplinari a carico del lavoratore subordinato, il canone della specificità, nella contestazione dell’addebito, non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, come accade nella formulazione dell’accusa nel processo penale, assolvendo esclusivamente alla funzione di consentire al lavoratore incolpato di esercitare pienamente il proprio diritto di difesa. Ne consegue la piena ammissibilità della contestazione per relationem, quando fatti e comportamenti richiamati, con riferimento alle accuse formulate in sede penale, siano a conoscenza dell’interessato, risultando rispettati, in tale ipotesi, i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio (Cass. n. 5115 del 2010). E’ parimenti ammissibile la contestazione per relationem mediante il richiamo agli atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore, per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell’interessato, risultando rispettati, anche in tale ipotesi, i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio (Cass. n. 10662 del 2014).

7.3. La possibilità che l’atto di recesso sia integrato per relationem vale dunque con riferimento ad atti e documenti già preventivamente comunicati al lavoratore destinatario dell’atto espulsivo ovvero già nella sua disponibilità o comunque riprodotti nel loro contenuto essenziale nell’atto di recesso e ciò all’evidente scopo di rispettare i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio (cfr. Cass. n. 15638 del 2018).

8. Per completezza, va aggiunto che, quanto all’ambito di espansione della cognizione giudiziale, ai fini dell’accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, il giudice del lavoro, ai fini della formazione del proprio convincimento in ordine alla sussistenza di una giusta causa di licenziamento, può valutare gli atti delle indagini preliminari e le intercettazioni telefoniche ivi assunte, anche ove sia mancato il vaglio critico del dibattimento, in quanto la parte può sempre contestare nel giudizio civile i fatti acquisiti in un procedimento penale (Cass. n. 5317 del 2017, n. 2168 del 2013 e n. 132 del 2008).

8.1. A ciò aggiungasi la possibilità, o meglio il potere-dovere del giudice del lavoro, ove si verta in situazione di semiplena probatio, di provvedere d’ufficio agli atti istruttori idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti, dovendo, quindi, motivare sulla mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi là dove sollecitato dalla parte ad integrare la lacuna istruttoria (Cass. n. 29006 del 2008).

9. Per tali assorbenti ragioni, la sentenza va cassata con rinvio alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, che provvederà al riesame del merito attenendosi ai principi sopra richiamati, statuendo anche sulle spese di legittimità.

10. Stante l’accoglimento del ricorso, non sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. Il raddoppio del contributo unificato, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,comma 17, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo, assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 9 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2019

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