Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19259 del 17/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 17/07/2019, (ud. 03/04/2019, dep. 17/07/2019), n.19259

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 9073-2014 proposto da:

M.F., + ALTRI OMESSI, elettivamente domiciliati in

ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato

GIOVANNI ANGELOZZI, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

UNICREDIT BANCA DI ROMA S.P.A., in persona del legale rappresentante

pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso

lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e difende

unitamente agli avvocati FRANCESCO GIAMMARIA, TIZIANA SERRANI;

– controricorrente –

e contro

FONDO QUIESCENZA PERSONALE EX CASSA RISPARMIO ROMA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 7341/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 05/10/2013 R.G.N. 9583/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/04/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso;

udito l’Avvocato GIOVANNI ANGELOZZI;

udito l’Avvocato TIZIANA SERRANI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il giudice del lavoro del Tribunale di Roma rigettò la domanda degli odierni ricorrenti volta alla condanna della Unicredit Banca di Roma al pagamento delle somme indicate a titolo di riscatto ai sensi del D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 10, comma 1, lett. c.

Impugnata tale sentenza dagli ex dipendenti del predetto istituto di credito, i quali avevano precisato di essere cessati dal rapporto senza aver maturato il diritto a pensione, la Corte d’appello di Roma (sentenza del 5.10.2013) ha respinto il gravame dopo aver osservato che il Fondo di previdenza e quiescenza in esame era “a prestazione definita”, con la conseguenza che il metodo applicato era quello “a ripartizione” senza alcun contributo a carico del lavoratore, posto che i trattamenti pensionistici venivano erogati grazie ai contributi dei lavoratori attivi, per cui esso era differente dal metodo c.d. a “capitalizzazione” che configurava, invece, assetti pensionistici tali che ognuno dei lavoratori costituiva per sè una posizione pensionistica idonea a garantirsi una futura rendita o un capitale al momento della pensione. In pratica, il metodo a “ripartizione” assolveva ad una funzione tipicamente solidaristica senza che fosse possibile individuare la quota parte di ogni singolo iscritto al Fondo.

Per la cassazione della sentenza ricorrono gli ex dipendenti di cui in epigrafe con due motivi.

Resiste con controricorso la Unicredit s.p.a che deposita anche memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 124 del 1993, artt. 10, 11 e 18 e degli artt. 2117 e 2123 c.c. in relazione al D.Lgs. n. 252 del 2005, art. 14 nonchè l’errata considerazione di un fatto, decisivo per il giudizio, discusso dalle parti nelle pregresse fasi processuali, relativo alla possibilità, per gli iscritti ai Fondi a “prestazione definita”, di esercitare il diritto di riscatto o di trasferimento della posizione individuale determinabile mediante calcolo attuariale, ovvero computabile attraverso la quantificazione della riserva matematica corrispondente all’ammontare della rendita prevedibile al momento dell’obbligatoria iscrizione di ciascun ricorrente al Fondo (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5).

2. Col secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 10, comma 1, in relazione agli artt. 1345,1346,1418 e 1925 c.c., ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

3. In pratica, i ricorrenti sostengono che è pacifico che essi non beneficiano – a seguito dell’entrata in vigore della L. n. 67 del 1988 che ha soppresso i tetti retributivi pensionabili attraverso l’introduzione dei coefficienti di rendimento decrescenti – dell’integrazione delle prestazioni loro erogate dall’Inps, per cui è venuto meno nei loro confronti lo scopo stesso del Fondo ex CRR. Tuttavia, a loro giudizio, è egualmente possibile determinare la posizione individuale, portata dalla contribuzione versata dall’azienda in favore di ogni singolo socio, attraverso il calcolo attuariale da essi esposto, non contestato specificamente dall’Unicredit, ovvero mediante acquisizione di consulenza tecnica contabile, richiesta in via istruttoria da controparte.

4. Osserva la Corte che per ragioni di connessione i due motivi possono essere trattati congiuntamente.

Va, anzitutto, ricordato che il D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124 prevedeva all’art. 10, comma 1, che ove fossero venuti meno i requisiti di partecipazione alla forma pensionistica complementare, lo statuto del fondo pensione avrebbe dovuto consentire le seguenti opzioni: a) trasferimento presso altro fondo pensione complementare, cui il lavoratore accedeva in relazione alla nuova attività; b) trasferimento ad uno dei fondi di cui all’art. 9 (fondi pensione aperti); c) riscatto della posizione individuale.

Orbene, i dubbi sulla possibilità di riscatto dei contributi in tema di previdenza complementare trovarono un avallo in alcune decisioni di questa Corte (Cass. sez. lav. n. 18266 del 30.7.2013 e n. 4369 del 23.2.2010) nelle quali si fece rilevare che il diritto al riscatto delle quote, previsto dal D.Lgs. n. 21 aprile 1993, n. 124, art. 10, lett. c), (in alternativa al trasferimento del capitale accumulato ad altro fondo chiuso o al trasferimento ad un fondo aperto) in favore degli iscritti a fondi preesistenti che avessero cessato il rapporto senza maturazione del diritto a pensione in epoca successiva all’entrata in vigore della legge, non trovava applicazione in riferimento a forme di previdenza integrativa basate su un sistema a ripartizione (nel senso che la misura della prestazione erogata non è calcolata in rapporto con l’insieme dei contributi versati nel tempo dal singolo lavoratore o per suo conto), non essendo nelle stesse configurabili posizioni individuali soggette a capitalizzazione, e non essendo detta disposizione inclusa tra quelle per le quali l’art. 18 D.Lgs. cit. prevede precisi termini di adeguamento nei confronti dei fondi preesistenti, ai quali era pertanto demandato il compito di riorganizzarsi secondo il principio della capitalizzazione anche attraverso adeguamenti statutari, tenendo conto delle proprie caratteristiche strutturali.

Si era, tuttavia, registrata una pronuncia di segno opposto (v. Cass. sez. lav. n. 7161 del 21.3.2013) in base alla quale si ritenne che dovevano considerarsi ammessi il riscatto o, in alternativa, la portabilità della posizione previdenziale, ai sensi del D.Lgs. n. 21 aprile 1993, n. 124, art. 10 (applicabile “ratione temporis”), da un fondo cd. “a prestazione definita” – preesistente alla riforma della previdenza complementare introdotta con il D.Lgs. n. 124 del 1993 e che si avvaleva, ai fini della determinazione delle risorse necessarie, del meccanismo della ripartizione – ad un fondo a capitalizzazione individuale, posto che anche nell’ambito dei fondi a ripartizione era enucleabile e quantificabile una posizione individuale, secondo le metodologie di calcolo elaborate dalla statistica e dalla matematica attuariale.

5. Da ultimo le Sezioni unite di questa Corte hanno risolto il predetto contrasto (Cass. Sez. Un. 477 del 14.1.2015) statuendo che “in tema di previdenza complementare, il D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, art. 10 nel consentire la portabilità della posizione individuale, ossia del trasferimento dei contributi maturati da un dipendente, cessato prima di aver conseguito il diritto alla pensione complementare, verso un fondo cui il medesimo acceda in relazione ad una nuova attività, si applica anche ai fondi pensionistici preesistenti all’entrata in vigore (15 novembre 1992) della Legge (delega) 23 ottobre 1992, n. 421, indipendentemente dalle loro caratteristiche strutturali e, quindi, non solo ai fondi a capitalizzazione individuale, ma anche a quelli a ripartizione o a capitalizzazione collettiva, trattandosi di soluzione coerente non solo con il dato letterale della norma, per l’assenza di espressioni idonee a fondare una differenziazione di trattamento, ma anche con la “ratio” dell’intervento, inteso ad assicurare, in conformità ai principi della legge delega, “i più elevati livelli di copertura previdenziale”.

6. In tale sentenza si è spiegato, in sintesi, quanto segue:- I sistemi si distinguono in relazione alla determinazione delle prestazioni pensionistiche, ripartendosi tra sistemi a prestazione definita e a contribuzione definita: nei primi (prestazione definita) la prestazione finale è fissa, mentre la contribuzione varia in ragione di calcoli demografici ed attuariali, che in proiezione futura determinano l’ammontare delle contribuzioni. Nei secondi (contribuzione definita) le contribuzioni da versare sono fisse mentre varia la prestazione finale che dipende dalla gestione finanziaria del fondo. Le riforme del ‘92 e del ‘95 hanno spostato il sistema pensionistico italiano, nel suo complesso, verso meccanismi a capitalizzazione. Tendenzialmente la pensione si forma in base alla contribuzione versata nel corso della vita lavorativa. La previdenza integrativa prima della riforma del ‘92-93 era in larga parte basata su fondi a ripartizione ed a prestazione definita. La riforma del ‘92 indirizzo anche il sistema della previdenza complementare verso modalità a capitalizzazione. Un ulteriore tratto caratterizzante di questo intervento sulla previdenza complementare fu l’affermazione del diritto alla portabilità della posizione previdenziale complementare da un fondo ad un’altro. Il D.Lgs. del ’93, art. 10 introdusse tale diritto (solo) per i lavoratori che a causa del venir meno del rapporto di lavoro avessero perso la possibilità di essere iscritti al fondo, senza aver ancora maturato il diritto alla pensione (c.d. portabilità occasionata). Interventi normativi successivi (L. n. 335 del 1995, D.Lgs. n. 47 del 2000) ampliarono tale possibilità riconoscendo la “facoltà” del lavoratore di chiedere il riscatto o il trasferimento da un fondo ad un altro a prescindere dal verificarsi di quella specifica occasione, ma semplicemente in presenza di un numero minimo di anni di adesione al fondo di provenienza, progressivamente ridotto dalle varie norme susseguitesi nel tempo (portabilità volontaria). Una riforma organica del sistema della previdenza complementare fa realizzata con il D.Lgs. 5 dicembre 2005, n. 252, che all’art. 14 disciplinò la materia della portabilità e riscattabilità dettando regole specifiche per la portabilità occasionata e per la portabilità volontaria. Nell’ipotesi di portabilità occasionata è previsto “il trasferimento ad altra forma pensionistica complementare alla quale il lavoratore acceda in relazione alla nuova attività” (comma 2, lett. a). Gli statuti possono stabilire le “modalità di esercizio” di tale diritto alla “portabilità delle posizioni individuali e della contribuzione” (comma 1), ma non possono comprimerlo. Il comma 6, disciplina la portabilità volontaria, sancendo che gli statuti devono consentire all’aderente di esercitare la “facoltà” di “trasferire l’intera posizione individuale maturata ad altra forma pensionistica” alla sola condizione che siano decorsi due anni dalla data di adesione al fondo. La norma specifica che gli statuti devono prevedere tale facoltà “esplicitamente”, che “non possono contenere clausole che risultino, anche in fatto, limitative del suddetto diritto alla portabilità dell’intera posizione individuale” e che non possono prevedere “costi” che disincentivino la portabilità. Il comma successivo prevede esenzioni fiscali per garantire la portabilità. La giurisprudenza, anche di legittimità, si è divisa nella interpretazione di queste normative.

7. Il punto di dissenso è l’applicabilità delle previsione dettata dal D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 10, ai fondi a ripartizione, o a capitalizzazione collettiva, ed a prestazione definita (si trattava di casi in cui la normativa applicabile era ancora quella del 1992-93). E’ fuori discussione che larga parte dei fondi preesistenti alla riforma fosse a ripartizione o a capitalizzazione collettiva. Di conseguenza quando il legislatore intervenne nel 1992-93, introducendo il principio della portabilità in caso di cessazione dei requisiti di partecipazione ai fondi, aveva presente che la nuova disciplina avrebbe impattato per lungo tempo ed in larga maggioranza su questo tipo di fondi. Pur necessariamente consapevole di ciò, non li escluse dall’immediata applicazione della nuova disciplina sulla riscattabilità e portabilità, nè operò distinzioni di sorta tra forme di previdenza complementare nel dettare la relativa normativa. Il D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 10, infatti, fa riferimento ai concetti omnicomprensivi di “forma pensionistica complementare” e di “fondi pensioni” senza operare distinzione alcuna. La distinzione che il legislatore non ha formulato è stata introdotta in alcune sentenze basandosi sul dato che la lett. c), nel prevedere la possibilità di riscatto, usa l’espressione “riscatto della posizione individuale”.

8. Si è ritenuto che nei fondi a ripartizione o a capitalizzazione collettiva manchi una posizione individuale e che pertanto il riscatto sia possibile solo nei fondi a capitalizzazione individuale. Il concetto, con ulteriore passaggio, è stato poi esteso anche alle ipotesi del trasferimento da un fondo ad un altro previste dalle lett. a) e b). In alcune declinazioni di questa tesi si aggiunge un’argomentazione di ordine sistematico, assumendo che nei fondi a ripartizione o a capitalizzazione collettiva sarebbe impossibile enucleare una posizione individuale, vi sarebbe incompatibilità ontologica tra portabilità e sistemi a ripartizione o capitalizzazione collettiva.

Entrambe le argomentazioni non sono condivisibili. L’argomento letterale confonde il concetto di “posizione previdenziale individuale” con quello di “conto individuale”. La “posizione previdenziale” individuale, come ha ben spiegato Cass. 17567/2002 è “ciò che risulta dai finanziamenti indicati nel precedente art. 8 medesimo D.Lgs., e cioè sia del lavoratore che del datore di lavoro”. Essa rappresenta il valore che, tenuto conto delle caratteristiche e della specifica disciplina di ciascuna forma pensionistica, il singolo iscritto ha maturato nel programma previdenziale, valore che è determinabile in relazione alla durata del periodo di iscrizione dell’interessato e dell’apporto contributivo. Il “conto” individuale è invece concetto attinente alla modalità di gestione del patrimonio del fondo. E’ una tecnica, tra le varie possibili, per la raccolta, contabilizzazione e gestione delle risorse del fondo.

Si tratta pertanto non solo di forme lessicali diverse (posizione, conto), ma di concetti distinti, attinenti a categorie concettuali non omogenee. Diversità di cui il legislatore mostra di essere consapevole laddove, nel dettare la disciplina fiscale (art. 14-quater medesimo decreto) utilizza il concetto di conto individuale del dipendente e mostra di aver ben presente la sua funzione tutta interna alla gestione del fondo.

9. Una specifica disciplina transitoria per le forme preesistenti a ripartizione viene poi prevista nelle norme finali (art. 18, commi 8 bis, ter, quater) con le quali il legislatore si è preoccupato di prevedere specifici correttivi idonei a contenere gli effetti negativi che i nuovi principi avrebbero potuto determinare sull’equilibrio gestionale dei fondi a ripartizione. Anche da ciò si desume che se invece nel sancire il principio della portabilità non ha operato differenziazioni e se la disciplina transitoria non solo non include l’art. 10, ma non prevede correttivi o una disciplina speciale differenziata sul riscatto e la portabilità dei fondi a ripartizione preesistenti ciò vuoi dire che il legislatore ha voluto enunciare la portabilità come principio generale al quale avrebbero dovuto adeguarsi tutti i fondi, quali che fossero le loro caratteristiche strutturali e quale che fosse l’epoca della loro costituzione. Anche l’argomento di ordine sistematico non è convincente. Si assume l’impossibilità tecnica di enucleare posizioni individuali nei fondi a ripartizione o a capitalizzazione collettiva per una sorta di incompatibilità ontologica tra principio di portabilità e fondi a ripartizione. In queste ipotesi vi è indubbiamente una difficoltà di enucleazione della posizione previdenziale individuale, ma non può parlarsi di impossibilità o di incompatibilità.

L’operazione, come si è messo in rilievo in precedenti decisioni di questa Corte pienamente condivisibili (in particolare Cass. 7161 del 2013), è tecnicamente possibile con l’applicazione di regole e metodi delle specializzazioni matematiche che si occupano dei problemi del settore assicurativo previdenziale. La posizione previdenziale, anche se non determinata, è determinabile.

10. Nè i termini della questione, come risolta con la summenzionata sentenza n. 477/2015 delle Sezioni Unite di questa Corte, possono essere mutati per effetto della sentenza n. 4684 del 9.3.2015 delle stesse Sezioni Unite, posto che in quest’ultima decisione si è risolto il diverso problema, per il periodo anteriore alla riforma di cui al D.Lgs. n. 21 aprile 1993, n. 124, dell’inclusione o meno dei versamenti eseguiti dal datore di lavoro nei fondi di previdenza complementare nella base di calcolo delle indennità collegate alla cessazione del rapporto di lavoro, pervenendosi alla conclusione che non vi rientrano data la loro natura previdenziale, non retributiva.

11. Pertanto, alla luce della sentenza delle Sezioni Unite n. 477 del 2015, il presente ricorso è fondato e, per tale ragione, lo stesso va accolto, con conseguente cassazione dell’impugnata sentenza e con rinvio della causa, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione che, nel riesaminare nel merito la domanda, si atterrà ai principi sopra espressi.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa l’impugnata sentenza e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 3 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2019

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