Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19258 del 16/09/2020

Cassazione civile sez. II, 16/09/2020, (ud. 21/01/2020, dep. 16/09/2020), n.19258

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19891/2019 proposto da:

K.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MUZIO CLEMENTI

51, presso lo studio dell’avvocato VALERIO SANTAGATA, rappresentato

e difeso dall’avvocato PAOLA URBINATI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 160/2019 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 28/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

21/01/2020 dal Consigliere Dott. CHIARA BESSO MARCHEIS.

 

Fatto

PREMESSO

che:

1. K.A. ha impugnato innanzi alla Corte d’appello di Brescia l’ordinanza con cui il Tribunale di Brescia aveva rigettato le sue domande di riconoscimento dello status di rifugiato e in subordine di protezione sussidiaria e in ulteriore subordine di protezione umanitaria. Il richiedente, cittadino del Senegal, aveva dichiarato di avere lasciato il proprio Paese d’origine a seguito delle minacce di morte e di punizioni corporali da parte del fratello maggiore, imam del villaggio, poste in essere dopo la nascita di un figlio illegittimo e il suo allontanamento dalla religione mussulmana. Il Tribunale di Brescia ha rigettato le domande, ritenendo vaga e non circostanziata la narrazione dei fatti del richiedente e comunque assenti i presupposti per il riconoscimento di una delle richieste forme di protezione.

2. Con sentenza n. 160 del 28 gennaio 2019 la Corte d’appello di Brescia ha rigettato l’impugnazione, confermando la pronuncia di primo grado. Il giudice d’appello ha respinto il primo motivo attinente la nullità dell’ordinanza impugnata per difetto di motivazione, poichè, pur ritenendo fondata la censura, ha affermato che da questa non ne deriva la nullità del provvedimento di prime cure, in quanto, in ossequio al principio di eterointegrazione, il vizio può essere sanato nel grado superiore; ha accolto il motivo con il quale l’appellante lamentava la valutazione di inattendibilità delle dichiarazioni da parte del primo giudice, ritenendo il racconto attendibile, ma ha rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, trattandosi di una persecuzione del tutto privata rispetto alla quale, poichè in Senegal vi è libertà di culto, l’appellante si sarebbe potuto rivolgere alle autorità statuali; inoltre, il giudice adito ha respinto la domanda di protezione sussidiaria, ritenendo non sussistente una situazione di violenza indiscriminata, derivante da conflitto armato interno o internazionale; infine, la Corte d’appello ha ritenuto non integrati i presupposti della concessione della protezione umanitaria, rilevando che “l’appellante si dilunga nell’esposizione di principi astratti senza riferire nulla di specifico in punto di vulnerabilità oggettiva” e soggettiva.

3. Avverso la sentenza di rigetto propone ricorso per cassazione K.A..

Resiste con controricorso il Ministero dell’interno chiedendo il rigetto dell’impugnazione.

Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Il ricorso è articolato in quattro motivi.

a) Il primo motivo contesta “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” per non avere la sentenza d’appello esaminato il fatto storico principale, ovvero che il ricorrente, nel momento in cui si è allontanato dalla religione musulmana per diventare cattolico, ha compiuto un atto di apostasia, potendo così subire una persecuzione rientrante in quelle di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, lett. b); in tali circostanze, come emergerebbe dal rapporto della commissione nazionale asilo del 30 ottobre 2017, predisposto dal Ministero degli affari esteri, sussisterebbe un atteggiamento di intolleranza e di violenza, che si concretizzerebbe in azioni di violenza e persecuzione poste in essere anche dalla stessa autorità del Senegal.

Il motivo è infondato. Il fatto storico dell’allontanamento del ricorrente dalla religione mussulmana, con la conseguente persecuzione ad opera dell’imam del villaggio e dei parenti mussulmani, è stato esaminato dalla Corte d’appello (v. le pp. 3-4 della sentenza impugnata), che l’ha valutato alla luce del non essere il Senegal, ove l’art. 1 Cost., stabilisce una chiara separazione tra lo Stato e le organizzazioni religiose, uno stato confessionale.

b) Il secondo motivo contesta “nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per motivazione apparente (sola enunciazione dei motivi)”: il giudice d’appello, dopo avere dichiarato la credibilità delle dichiarazioni del ricorrente e affermato che è stato vittima di “persecuzioni” ad opera del fratello imam e di altri parenti musulmani, ha escluso che il timore di subire nuove persecuzioni in caso di rimpatrio sia fondato in quanto il “richiedente può trovare ampia tutela denunciando i fatti e rivolgendosi alle autorità statuali”, senza precisare gli elementi posti a base della valutazione se non la tolleranza tra le confessioni e senza, evidentemente, avere consultato fonti come il rapporto della commissione nazionale asilo sul Senegal dell’1 ottobre 2018, che evidenzia “le numerose difficoltà del sistema giudiziario senegalese”, con motivazione pertanto apparente.

Il motivo non può essere accolto. Come ammette lo stesso ricorrente a p. 12 del ricorso la vicenda in esame è una vicenda privata. Secondo l’orientamento di questa Corte, condiviso dal Collegio, le liti tra privati “non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, in presenza di atti di persecuzione (art. 2, lett. e, D.Lgs. cit.), e della protezione sussidiaria, in presenza di serio ed effettivo rischio di subire danno grave in caso di rimpatrio (art. 2, lett. g), D.Lgs. cit.)” (così Cass. 9043/2019). Nè vale il rilievo del ricorrente che la minaccia di danno grave può provenire anche da soggetti non statuali se lo Stato o i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o parte di esso non possono o non vogliono offrire protezione: il motivo non presenta specifici elementi al riguardo, se non il generico riferimento alle difficoltà del sistema giudiziario senegalese.

c) Il terzo motivo fa valere “nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, per error in procedendo, violazione dell’art. 112 c.p.c., per mancata pronuncia sulla domanda di protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b)”: se si ritiene che la sentenza impugnata abbia correttamente negato lo status di rifugiato, deve rilevarsi che il ricorrente in appello aveva allegato l’ulteriore fatto di essere stato “condannato con due fatawa e dunque di poter subire un grave danno consistente nella condanna a morte o in trattamenti inumani”; in particolare, il ricorrente aveva riferito che la sharia prevede la condanna a fustigazione pubblica come punizione per un rapporto fuori dal matrimonio e la pena di morte per l’apostasia, così che ricorrevano i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). La Corte d’appello, invece, si è limitata ad esaminare l’ipotesi della sola lettera c), così omettendo di pronunciare sulle ipotesi di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b).

Il motivo non può essere accolto. Il giudice d’appello, come si è visto sub b, con accertamento in fatto ha ricondotto la vicenda, ossia le minacce subite dal fratello imam e da altri parenti mussulmani, a una lite tra privati. Il ricorrente lamenta la mancata considerazione del fatto che il fratello avrebbe emesso due fatawa nei suoi confronti che comporterebbero la condanna a morte e la fustigazione pubblica, così che, rientrando in Senegal, rischierebbe di essere soggetto a un trattamento inumano se non all’esecuzione della pena captale. La doglianza, nel parlare di fatwa come accusa emessa dal fratello imam, è generica e non rilevante ai fini della concessione della protezione sussidiaria. Fatwa etimologicamente significa infatti chiarire, spiegare o rispondere ad una domanda sulla religione o la sua pratica; nella terminologia islamica, indica un un’opinione o un responso giuridico su questioni riguardanti il diritto islamico o pratiche di culto, emessi e resi pubblici da un’autorità riconosciuta, il Mufti (diverso l’uso restrittivo con cui la parola è divenuta nota in Italia, quando i media la riferirono alla condanna a morte in contumacia pronunciata nell’anno 1989 dallo ayatollah Khomeini, suprema guida politica e religiosa dell’Iran, contro lo scrittore S.R.). Correttamente, pertanto, la Corte d’appello non ha considerato le lett. a) e b), ma unicamente la lett. c) dell’art. 14 del citato D.Lgs..

d) Il quarto motivo fa valere “violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e precisamente del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in quanto la Corte non ha svolto una corretta e approfondita indagine sulla situazione del Paese di origine e perchè la situazione del Paese di origine è stata valutata sulla base di fonti non qualificate”. Il giudice di secondo grado non avrebbe effettuato un esame rigoroso della sussistenza di una situazione di violenza diffusa e non controllata o controllabile della zona di provenienza del ricorrente; in particolare, il sito “guerre nel mondo” non costituirebbe un’indicazione specifica ed idonea a specificare quale fonte, in concreto, è stata utilizzata dal giudice di merito e quindi non sufficiente ad assicurare il controllo sull’attendibilità della stessa.

Il motivo non può essere accolto. E’ vero che l’inserimento del Senegal nell’ambito dell’elenco dei cosiddetti “Paesi sicuri” di cui al D.M. affari esteri e della cooperazione internazionale del 4 ottobre 2019, art. 1 – in disparte ogni considerazione circa l’applicabilità di detta normativa sopravvenuta ai giudizi in corso e alle domande già presentate – non preclude la possibilità “per il ricorrente di dedurre la propria provenienza da una specifica area del Paese stesso interessata da fenomeni di violenza e insicurezza generalizzata che, ancorchè territorialmente circoscritti, possono essere rilevanti ai fini della concessione della protezione internazionale o umanitaria, nè esclude il dovere del giudice, in presenza di detta allegazione, di procedere all’accertamento in concreto sulla pericolosità di detta zona e sulla rilevanza dei predetti fenomeni” (così Cass. 29914/2019), ma tale allegazione il ricorrente non ha posto in essere, richiamando unicamente la situazione generale del Senagal e il conflitto sussistente in Casamance, regione da cui egli non proviene (v. p. 2 del ricorso, dove si indica la provenienza dalla regione di Thies).

2. Il ricorso va quindi rigettato.

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore del controricorrente che liquida in Euro 2.100, oltre spese prenotate a debito.

Sussistono, del D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale della Sezione Seconda Civile, il 21 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2020

 

 

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