Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19256 del 17/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 17/07/2019, (ud. 20/03/2019, dep. 17/07/2019), n.19256

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28171-2017 proposto da:

S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARCELLO

PRESTINARI 13, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO PALLINI, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO SAITTA;

– ricorrente –

contro

NALCO ITALIANA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA IN ARCIONE 71, presso

lo studio dell’avvocato LEONARDO DI BRINA, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato DOMENICO AIELLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2144/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 30/05/2017 R.G.N. 4079/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/03/2019 dal Consigliere Dott. GABRIELLA MARCHESE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO RITA, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato MASSIMO PALLINI;

udito l’Avvocato LEONARDO DI BRINA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 21236 del 2012, respingeva la domanda, proposta da S.G. nei confronti di Nalco Italiana srl, di accertamento dell’illegittimità del recesso e di condanna al pagamento dell’indennità di preavviso e di quella supplementare prevista dal CCNL, nella misura massima di 22 mesi, nonchè di condanna al risarcimento del danno, professionale (per Euro 534.000,00), biologico, esistenziale e morale, derivanti dalla condotta diffamatoria e dalla denuncia penale presentata a suo carico (per complessivi Euro 2.000.000,00); respingeva, altresì, la domanda di accertamento del diritto ad esercitare l’opzione di acquisto di 2214 azioni della società Nalco Company con condanna della Nalco Italiana srl alla consegna di tali azioni o al risarcimento del relativo danno economico; rigettava, infine, la domanda riconvenzionale di restituzione di somme indebitamente percepite e di risarcimento del danno.

2. La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 2144 del 2017, respingeva il gravame interposto dal lavoratore.

2.1. Per quanto ancora rileva in questa sede, la Corte di appello ha giudicato tempestiva la contestazione disciplinare, osservando come la parte datoriale iniziasse ad avere sospetti in ordine ad illecite attività aziendali solo nel dicembre del 2006; avviate le indagini interne, che vedevano come momenti cruciali le interviste con il ricorrente (il 4 aprile, il 1 giugno ed il 17 giugno 2007), la società consegnava la contestazione disciplinare il 1 giugno e, dunque, non tardivamente.

2.2. Quanto al merito del licenziamento, premesso il particolare vincolo di fiducia che caratterizza il rapporto tra il dirigente ed il suo datore di lavoro, la Corte di appello osservava come il recesso fosse sorretto da giustificatezza e ricorresse anche la giusta causa per avere il lavoratore fondato una società, all’insaputa del datore di lavoro, nel medesimo settore di competenza e, dunque, in palese concorrenza sleale, come peraltro ammesso dallo stesso S. in occasione delle interviste con i legali incaricati di far luce sulla questione.

2.3. La Corte di appello ha giudicato provato anche l’addebito relativo al prelievo di somme dal conto corrente della società Nalco Gulf, da parte di tale R.S., collaboratore del dirigente S. e da quest’ultimo autorizzato a tanto, in violazione delle disposizioni aziendali.

3. Per la cassazione della decisione, ha proposto ricorso S.G., affidato a quattro motivi.

4. Ha resistito, con controricorso, la società Nalco Italiana srl.

5. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, dell’art. 2119 c.c. nonchè dell’art. 2697 c.c. nonchè – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti; infine – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 – violazione dell’art. 132 c.p.c.

1.1. Si critica la statuizione con cui la Corte di appello, conformemente al Tribunale, ha giudicato tempestiva la contestazione disciplinare. Secondo la parte ricorrente, la Corte di appello non avrebbe considerato le circostanze dedotte nel giudizio di primo grado e poi riproposte in appello che dimostravano come le condotte contestate avessero avuto inizio nel (OMISSIS) e si fossero protratte per lungo tempo; in ogni caso, sarebbe del tutto tautologica la motivazione, al riguardo, adottata dalla Corte di appello che neppure si sarebbe pronunciata sulle richieste istruttorie.

2. Il motivo è, nel complesso, da respingere.

2.1. Le censure, sotto il profilo della violazione di norme di diritto, sono infondate.

2.2. Deve muoversi dal principio ripetutamente affermato da questa Corte – e qui condiviso – secondo cui la tempestività della contestazione deve essere valutata partendo dal momento dell’avvenuta conoscenza, da parte del datore di lavoro, della situazione contestata e non dell’astratta percettibilità o conoscibilità dei fatti stessi (Cass. n. 10356 del 2016; n. 26304 del 2014; n. 25070 del 2013; n. 23739 del 2008; n. 21546 del 2007).

2.3. Invero, la tempestività della contestazione e, poi, del licenziamento, la cui “ratio” riflette l’esigenza di osservanza della regola di buona fede e correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, devono essere intesi in senso relativo, potendo essere compatibili, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, con un intervallo di tempo necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti contestati, così come per la valutazione delle giustificazioni fornite dal dipendente (ex plurimis, Cass. n. 20121 del 2015; n. 9903 del 2015; n. 1247 del 2015; n. 20823 del 2013; n. 20719 del 2013). In sostanza, il datore di lavoro deve procedere alla formale contestazione dei fatti addebitabili al lavoratore dipendente non appena ne venga a conoscenza e gli stessi appaiano ragionevolmente sussistenti.

2.4. La Corte di merito non si è discostata da tali principi; i giudici hanno considerato come il datore di lavoro fosse venuto a conoscenza dei fatti addebitati soltanto dopo il dicembre del (OMISSIS), a seguito di una indagine interna, nel corso della quale “momenti cruciali (erano state) le interviste con il ricorrente (4 aprile, 1 giugno e 15 giugno 2007”); ha, quindi, giudicato tempestiva la contestazione dell’1.6.2007, intervenuta contestualmente al progredire degli accertamenti stessi e, perciò, funzionale allo scopo suo proprio ovvero quello di contemperare, da un lato, la esigenza di una attenta ponderazione dei fatti, nell’interesse dello stesso lavoratore, dall’altro quella di consentire al medesimo lavoratore una adeguata difesa.

2.5.La verifica da parte del giudice del merito del momento storico in cui il datore di lavoro ha acquisito la conoscenza del fatto disciplinare costituisce, invece, un accertamento di fatto, sindacabile in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio della motivazione.

2.6. La relativa censura è, tuttavia, inammissibile.

2.7. Ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5, allorquando la sentenza d’appello conferma la decisione di primo grado, il ricorso per Cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4. In particolare, a tenore dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5, il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. “doppia conforme”, come nella fattispecie di causa. La disposizione è applicabile ratione temporis ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato dall’11 settembre 2012 (D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2); nel presente giudizio, l’appello risulta iscritto nel 2013.

2.8. In proposito, è stato anche precisato che il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 5528 del 2014; in motivazione Cass. n. 88 del 2019). Nel motivo di ricorso, non si rinvengono deduzioni in tal senso.

3. Devono, altresì, respingersi le censure che denunciano omissioni motivazionali.

3.1. Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez.un., n. 19881 del 2014; Cass., sez.un. 8053 del 2014), la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione; è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un “error in procedendo” che comporta la nullità della sentenza solo nel caso di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, non essendo invece più consentita la formulazione di censure per il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione (Cass., sez. un., n. 14477 del 2015; ex multis, tra le sezioni semplici, Cass. n. 31543 del 2018);

3.2. E’ stato, inoltre, precisato che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi laddove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perchè consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talchè essa non consenta alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” (Cass., sez. un., n. 22232 del 2016).

3.3. Nella fattispecie di causa, la motivazione resa in ordine alla tempestività della contestazione è adeguatamente espressa, avendo i giudici del merito osservato come, a seguito di sospetti ingenerati dalle dimissioni di un collaboratore del ricorrente (tale R.S.), la società avesse proceduto ad indagini interne che sfociavano in “interviste” al lavoratore, chiarificatrici dei fatti; ha, pertanto, ritenuto di fissare a tale momento (id est: quello delle “interviste” al lavoratore), l’epoca di conoscenza degli accadimenti, poi giudicati tempestivamente contestati; può, dunque, discutersi della plausibilità e condivisibilità della motivazione ma non della sua esistenza in fatto e/o della sua comprensibilità.

3.4. E’ da escludere, infine, che possa configurarsi un’anomalia motivazionale in merito alla mancata (pronuncia) sull’ammissione di mezzi istruttori, astrattamente denunciabile solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (in argomento, ex plurimis, Cass. n. 6715 del 2013) e qui, per le ragioni già espresse, impedito.

4. Con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione degli artt. 115 e 116 e 132 c.p.c.

4.1. La sentenza è censurata nella parte in cui ha ritenuto il licenziamento sorretto non solo da giustificatezza ma altresì da giusta causa, escludendo, così, il diritto anche all’indennità di preavviso; secondo il ricorrente, la Corte di Appello avrebbe errato nell’affermare che il lavoratore aveva fondato una società in concorrenza sleale con il datore di lavoro ed all’insaputa di quest’ultimo.

4.2. I giudici di merito non avrebbero ammesso le prove richieste, limitandosi a valutare una dichiarazione resa dal ricorrente senza neppure leggerla nella sua interezza.

5. Le censure, al di là della formale titolazione, investono la sentenza in relazione alla ricostruzione della fattispecie di causa, sicchè la deduzione della violazioni di legge contenuta nella rubrica del motivo scherma in realtà deduzione di vizi di motivazione.

5.1. Parte ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o ad ogni modo siano dimostrate dall’erronea valutazione del materiale probatorio.

5.2. Al contrario, una questione di violazione delle regole di formazione della prova (id est: degli artt. 115 e 116 c.p.c.) si pone solo nel caso sia allegata l’utilizzazione di prove non acquisite in atti o la valutazione, da parte dei giudici di merito, di prove legali secondo prudente apprezzamento o, al contrario, il recepimento, senza apprezzamento critico, di elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (Cass. n. 27000 del 2016). Ciò che non si rinviene nelle censure in esame.

5.3. Il motivo, seppure riqualificato in termini di vizio di motivazione, si arresta ad un rilievo di inammissibilità, per le ragioni espresse in relazione al primo motivo.

5.4. In conclusione, diviene definitivo l’accertamento di fatto compiuto dalla sentenza impugnata e, quindi, lo svolgimento, da parte del lavoratore, di un’attività imprenditoriale in concorrenza sleale con il datore di lavoro; condotta quest’ultima che costituisce giusta causa di licenziamento. Si è, infatti, in presenza di una gravissima violazione del dovere di fedeltà, sancito dall’art. 2105 c.c., che impone al lavoratore di tenere un comportamento leale verso il datore di lavoro e di tutelarne in ogni modo gli interessi (in argomento, con riferimento al divieto per il lavoratore di trattare affari per conto proprio o di terzi in concorrenza con l’imprenditore – datore di lavoro nel medesimo settore produttivo o commerciale, cfr. Cass. n. 9056 del 2006). E tanto più sussiste la giustificatezza del recesso, per la quale è sufficiente un qualsiasi motivo, purchè apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore. (ex plurimis, Cass. n. 15496 del 2008).

6. Con il terzo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta la violazione dell’art. 2909 c.c. nonchè dell’art. 115 c.p.c.

6.1. E’ censurato il passaggio motivazionale con cui la Corte di Appello ha affermato che “vi (era) prova documentale che una parte del denaro venisse trasferita sul conto della moglie dello S. in Italia (…)”.

6.2. Secondo il ricorrente, la Corte di Appello, con tale argomentazione, avrebbe violato il giudicato in quanto la questione delle somme, asseritamente versate sul conto del coniuge, oggetto di domanda riconvenzionale per la restituzione, era stata respinta in primo grado e dunque, sul punto, si era formato il giudicato.

6.3. E’ ribadita, inoltre, l’omessa valutazione delle prove documentali e di qualunque motivazione in ordine alla richiesta di prove testimoniali.

7. Il motivo è inammissibile.

7.1. Esso coglie un punto della sentenza privo di autonoma decisività. Il rigetto della domanda di illegittimità del licenziamento è fondata sul rilievo (assorbente) della sussistenza di un’attività in concorrenza con quella del datore di lavoro. Tale ratio costituisce la base della decisione mentre ulteriori considerazioni rese al riguardo dalla corte di appello appaiono meramente rafforzative e prive di autonoma rilevanza.

8. Con il quarto motivo è dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c.

8.1. Si censura l’omessa pronuncia in merito alle ulteriori domande volte ad ottenere il risarcimento dei danni cagionati alla professionalità e quelli derivanti dalla asserita infondata denuncia che lo aveva costretto a trattenersi a Dubai per tre anni.

9. Il motivo è infondato.

11.2. Le domande risarcitorie, in quanto aventi come presupposto l’illegittimità del licenziamento e la sussistenza di una condotta aziendale, diffamatoria e calunniosa (quest’ultima con riferimento alla falsa denuncia), risultano implicitamente respinte in ragione degli accertamenti contenuti in sentenza.

11.2. La Corte di appello ha ritenuto effettiva l’attività di concorrenza sleale del lavoratore ed, altresì, provato l’illecito prelievo di somme di denaro, sia pure per il tramite del collaboratore R.S. (condotta quest’ultima diversa ed ulteriore rispetto al trasferimento del denaro sul conto della moglie), cosicchè ha escluso, a monte, la responsabilità datoriale, presupposto dei danni prospettati.

12. Conclusivamente, il ricorso va respinto, con le spese liquidate in dispositivo secondo soccombenza.

13. Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 9.000,00, per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 20 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2019

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