Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1925 del 29/01/2014


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Civile Sent. Sez. L Num. 1925 Anno 2014
Presidente: STILE PAOLO
Relatore: MAMMONE GIOVANNI

SENTENZA

sul ricorso 22715-2011 proposto da:
POMA GAETANO C.F. PMOGTN68M29C351H, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA CAIO MARIO 14/A, presso lo
studio dell’avvocato ALMA GIUSEPPE MARIA,
rappresentato e difeso dagli avvocati PETINO PLACIDO,
PIETRO FERLITO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

2013
3287

contro

CATANIA MULTISERVIZI S.P.A., in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 20, presso lo

Data pubblicazione: 29/01/2014

studio dell’avvocato ANTONINI MARIO, rappresentata e
difesa dall’avvocato ANDRONICO FRANCESCO, giusta
delega in atti;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 824/2010 della CORTE D’APPELLO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 19/11/2013 dal Consigliere Dott. GIOVANNI
MAMMONE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA, che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

di CATANIA, depositata il 27/10/2010 R.G.N. 789/2006;

Svolgimento del processo

1.- Con ricorso al Giudice del lavoro di Catania Poma Gaetano
impugnava il licenziamento per giusta causa irrogatogli, previa
sospensione cautelare, in data 14.05.02 da Catania Multiservizi s.p.a., di
cui era stato dipendente con mansioni di custode di un autoparco.
Assumendo che il primo e più grave dei due addebiti contestati — aver
consentito ad estranei l’accesso all’autoparco, da cui gli stessi avevano
asportato un natante sottoposto a sequestro giudiziario — non risultava
provato nella sua materialità, chiedeva la reintegrazione nel posto di
lavoro ed il risarcimento del danno.
2.- Accolta la domanda, ordinata la reintegra ed il risarcimento
del danno nella misura di 12 mensilità, proposto appello principale da
Poma per i profili risarcitori ed appello incidentale da Catania
Multiservizi per l’esistenza della giusta causa, la Corte d’appello di
Catania con sentenza del 27.10.10 accoglieva l’impugnazione del datore
di lavoro e rigettava la domanda.
La Corte, riaperta l’istruttoria, escuteva alcuni testimoni indicati
dal datore di lavoro ma non sentiti in primo grado e, scrutinando
preliminarmente l’appello incidentale, sulla base delle risultanze
istruttorie testimoniali e documentali riteneva sussistenti entrambi gli
addebiti, sia il primo più grave già indicato, sia il secondo consistente
nell’essere venuto a diverbio con un collega di lavoro (tale Corpace) e
di averlo colpito. Considerato che il comportamento del Poma si
poneva in radicale contrasto con i fondamentali obblighi deontologici
del lavoratore subordinato, riteneva sussistente la giusta causa e,
assorbito il ricorso principale, rigettava la domanda.
4.- Propone ricorso per cassazione Poma; risponde con
controricorso Catania Multiservizi s.p.a.
Motivi della decisione
5.- Il ricorrente premette che per i fatti oggetto di causa egli era
stato denunziato all’A.G. dall’Azienda e che di conseguenza era stato
tratto a giudizio con l’imputazione di avere: a) con minacce e violenza
obbligato il suo collega di lavoro, incaricato di pubblico servizio in
quanto anch’egli custode del bene sottoposto a sequestro, a non
denunziare all’Azienda il fatto che segue; b) in concorso con altri,
sostituito il natante sequestrato ed assegnato alla sua custodia con la
carcassa di altro scafo simile, non intervenendo per impedire l’evento,
nonostante il fatto fosse avvenuto in sua presenza. Il processo si era
concluso con sentenza del Tribunale penale di Catania del 1°.10.04,
divenuta irrevocabile, con cui il Poma ai sensi dell’art. 530, c. 2, c.p.p.
era stato assolto perché il fatto non sussiste.
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6.- Tanto premesso, con il ricorso si deducono tre motivi.
6.1.- Con il primo motivo il ricorrente deduce che circa i fatti in
questione è intervenuto un giudicato ai sensi degli artt. 2909 c.c., 654
c.p.p. e 324 c.p.c., nel senso che nel processo penale non si è raggiunta
prova alcuna circa la colpevolezza del Poma e, dato che i fatti
contestati in sede penale sono identici a quello indicati nella lettera di
contestazione dell’addebito disciplinare, il giudice non avrebbe potuto
procedere a nuovo accertamento, così procedendo a diversa
ricostruzione dell’episodio. La Corte avrebbe dovuto, invece, dare atto
che il predetto non era stato autore dei fatti contestati e trarne le
dovute conseguenze sul piano della legittimità del licenziamento.
6.2.- Con il secondo ed il terzo motivo è contestata la mancanza
di prova circa la giusta causa di licenziamento sotto il duplice profilo
della violazione di legge (artt. 2697, c. 1, e 2702 c.c., degli artt. 1 e 5
della 1. 15.07.66 n. 604, degli artt. 115 e 116 c.p.c.) e della carenza di
motivazione. Sostiene il ricorrente che la Corte di merito avrebbe dato
credito alla testimonianze dei due testi escussi nel giudizio di appello in
forza delle dichiarazioni accusatorie rese dal Corpace in loro presenza,
mentre dette dichiarazioni — pur verbalizzate — non avevano reale
efficacia accusatoria, non avendo costui sottoscritto il relativo verbale.
7.- Deve premettersi che la sentenza assolutoria del Tribunale
penale di Catania sopra menzionata, pur conosciuta dalla Corte di
appello, non fu presa in adeguata considerazione in quanto ritenuta
non definitiva, atteso che la copia prodotta in atti non recava alcuna
attestazione al riguardo. La copia allegata al ricorso ex art. 369, c. 2, n.
4, c.p.c. reca, invece, la dichiarazione di esecutorietà e, pertanto, ai
sensi dell’art. 650 c.p.p. è da considerare irrevocabile.
In risposta al primo motivo di impugnazione, va, pertanto,
individuato il rilievo che la sentenza assume nel presente giudizio,
tenendo conto che i fatti per i quali il Poma era stato tratto a giudizio
dinanzi al Tribunale penale sono pressoché gli stessi per i quali è stato
irrogato il licenziamento e che la sentenza in questione reca
l’affermazione che a carico dell’odierno ricorrente e del coimputato
non esiste prova sufficiente, ma solo un indizio di reità che tuttavia
non consente la condanna. La conclusione cui giunge il giudicante è,
dunque, che “non è certa la sostituzione del bene affidato in custodia
al Poma, non essendo certo neppure che lo scontro verbale e fisico tra
il Poma ed il Corpace sia effettivamente conseguenza della volontà del
primo di impedire al secondo la denunzia del furto …”, per cui
l’assoluzione è pronunziata ai sensi dell’art. 530, c. 2, c.p.p.
8.- Tanto premesso e passando all’esame del già menzionato
primo motivo, deve rilevarsi che la disciplina introdotta dal codice di
procedura penale del 1988 privilegia l’autonomia di ciascun processo e

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la piena cognizione da parte di ciascun giudice, civile o penale, delle
questioni giuridiche o di accertamento dei fatti rilevanti ai fini della
propria decisione, atteso che nel nuovo codice di procedura penale
non è riprodotta la disposizione dell’art. 3, c. 2, del codice abrogato,
che, per il caso fosse esercitata l’azione penale per reato la cui
cognizione era destinata ad influire sulla decisione della controversia
civile, disponeva la sospensione del processo civile (v. tra le tante Cass.
25.3.05 n. 6478 e 10.8.04 n. 15477). Ai sensi degli artt. 652 (nell’ambito
del giudizio civile di danni) e dell’art. 654 (nell’ambito di altri giudizi
civili) c.p.p. il giudicato penale di assoluzione è idoneo a produrre
effetti preclusivi nel giudizio civile — quanto all’accertamento che il
fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso ed a
condizione che vi sia coincidenza delle parti tra il giudizio penale e
quello civile, nel senso che non soltanto l’imputato ma anche il
responsabile civile e la parte danneggiata abbiano partecipato al
processo penale — solo quando contenga un effettivo, specifico e
concreto accertamento circa l’insussistenza del fatto o l’impossibilità di
attribuire questo all’imputato, e non anche quando l’assoluzione sia
determinata dall’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la
commissione del fatto o l’attribuibilità di esso all’imputato (v. Cass.
11.02.11 n. 3376, Cass. 09.03.10 n. 5676, Cass. 30.10.07 n. 22883, Cass.
20.9.06 n. 20325 e Cass. 9.06.05 n. 12134).
Il giudice civile, nel procedere in modo autonomo alla
rivalutazione del fatto e del materiale probatorio, non può tuttavia
ritenere del tutto ininfluente la sentenza penale, dovendo pur sempre
tener conto all’atto del giudizio dell’esito dell’attività istruttoria
ritualmente espletata nel corso del processo penale (Cass. 13.09.12 n.
15353 e Cass. 24.02.04 n. 3626).
9.- Nel caso di specie la Corte d’appello, pur senza avere la
consapevolezza dell’irrevocabilità della sentenza penale, dà luogo ad un
risultato valutativo della responsabilità lavoristica del Poma che non
contrasta con i principi appena indicati.
Il giudice penale era pervenuto alla formula i/fatto non sussiste ai
sensi dell’art. 530, c. 2, c.p.p., rilevando che i testi addotti dal pubblico
ministero (tali Monti e Pantellaro, rispettivamente amministratore
delegato e responsabile del servizio custodia della società datrice di
lavoro) erano inidonei a provare l’accusa in quanto chiamati a riferire
su circostanze di contenuto accusatorio conosciute non per scienza
diretta, ma per il racconto ricevutone di tale Corpace, collega di lavoro
dell’incolpato (a sua volta, secondo l’incolpazione, rimasto vittima del
comportamento minaccioso posto in essere dal Poma). Costui,
chiamato a sua volta a testimoniare, per un motivo strettamente
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processuale si era avvalso della facoltà di non rispondere e, pertanto,
aveva privato di riscontro fattuale le dichiarazioni degli altri due testi.
La Corte d’appello di Catania, nel procedere ad autonoma
valutazione del comportamento del Poma, ha sentito come testi i
responsabili della società (non solo il Pantellaro ed il Monti, ma anche
tale Di Blasi, direttore generale della società) che avevano ricevuto il
racconto del Corpace, per il quale il Poma aveva consentito l’accesso di
estranei nell’area dell’autoparco, consentendo loro di caricare il natante
su un camion e di portarlo via, così sottraendolo alla custodia. La
stessa Corte, inoltre, ha svolto autonome attività istruttorie, non
compiute dal giudice penale, quali l’acquisizione di copia del verbale
redatto e sottoscritto dai predetti alla presenza del Corpace (ma da
quest’ultimo non firmato), l’escussione a teste dell’ispettore della
polizia municipale Licari (che affidò al Poma il natante sotto sequestro)
e l’acquisizione di fotografie riproducenti il natante affidato in custodia
e quello (diverso) rinvenuto in un secondo momento. All’esito di
questa attività istruttoria la Corte è pervenuta alla convinzione che il
Poma avesse effettivamente posto in essere l’addebito contestato e che
il suo comportamento integrasse gli estremi della giusta causa.
Tale complessa attività è pienamente rispondente ai requisiti
evidenziati dalla sopra indicata giurisprudenza, in quanto, tenendo in
debito conto il contenuto della sentenza penale, ha superato le
considerazioni dubitative ivi effettuate dal giudice, essenzialmente
fondate su considerazioni di carattere procedurale, e, sulla base di
autonoma istruttoria, ha proceduto a valutazione del comportamento
del lavoratore licenziato.
Il primo motivo di ricorso deve essere, dunque, rigettato perché
infondato.
10.- Parimenti sono infondati i motivi secondo e terzo, da
trattare in unico contesto, con i quali si contesta il risultato valutativo
del giudice, assumendosi che la prova della responsabilità non sarebbe
stata raggiunta per l’inattendibilità dei testi escussi in secondo grado.
La Corte d’appello considera esplicitamente attendibili tutti i
testi, formulando al riguardo un giudizio di merito logicamente
articolato e come tale non censurabile in sede di legittimità.
L’accertamento è, inoltre, sostenuto da ulteriori considerazioni logiche
del tutto congrue nascenti dalla concatenazione degli elementi di fatto
acquisiti in istruttoria. Le censure mosse con i due mezzi di
impugnazione, peraltro dirette essenzialmente alla contestazione del
giudizio di fatto, sono pertanto infondate.
11.- In conclusione, infondati tutti i motivi, il ricorso deve essere
rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità, come di seguito liquidate,
seguono la soccombenza.
10.- I compensi professionali vanno liquidati in € 3.000 sulla
base del d.m. 20.07.12 n. 140, tab. A-Avvocati, con riferimento a due
delle fasi previste per il giudizio di cassazione (studio della causa e
introduzione del giudizio) ed allo scaglione del valore indeterminabile.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del
giudizio di legittimità, che liquida in € 100 (cento) per esborsi ed in €
3.000 (tremila) per compensi, oltre Iva e cpa.
Così deciso in Roma il 19 novembre 2013

m

dente

Per questi motivi

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