Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19241 del 09/09/2010

Cassazione civile sez. I, 09/09/2010, (ud. 08/07/2010, dep. 09/09/2010), n.19241

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITRONE Ugo – Presidente –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.F. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA QUINTINO SELLA 41, presso l’avvocato BURRAGATO ROSALBA,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato DEFILIPPI

CLAUDIO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di CALTANISSETTA, depositato

il 20/04/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/07/2010 dal Consigliere Dott. MARIA CRISTINA GIANCOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nel 2006, D.F. adiva la Corte di appello di Caltanissetta chiedendo che il Ministero della Giustizia fosse condannato a corrisponderle l’equa riparazione prevista dalla L. n. 89 del 2001 per la violazione dell’art. 6, sul “Diritto ad un processo equo”, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali, ratificata e resa esecutiva con la L. 4 agosto 1955, n. 848.

Con decreto del 5 – 19.04.2007, l’adita Corte di appello, nel contraddittorio delle parti, respingeva il ricorso.

La Corte osservava e riteneva, tra l’altro:

che la D. aveva chiesto l’equa riparazione del danno non patrimoniale subito per effetto dell’irragionevole durata del processo penale svoltosi nei suoi confronti, processo del quale l’unico periodo valutabile al fine di stabilire se vi fosse stata la dedotta violazione del termine di ragionevole durata si rivelava quello compreso tra il momento della notifica del decreto penale di condanna ed il momento della emissione della sentenza a seguito dell’opposizione proposta avverso il suddetto decreto;

che in particolare la durata del periodo di indagini preliminari doveva ritenersi nella specie ininfluente atteso che durante tale periodo non risultava compiuto alcun atto d’indagine, anche eventualmente di natura cautelare, portato a conoscenza dell’interessata;

che considerato che l’opposizione al decreto penale di condanna risultava proposta dalla ricorrente il 3.07.200 e che la sentenza di primo grado risultava emessa in data 24.02.20063, il periodo trascorso, pari a due anni e sei mesi doveva ritenersi ragionevole.

Avverso questo decreto la D. ha proposto ricorso per Cassazione affidato ad un unico motivo. Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il ricorso la D. denunzia, conclusivamente formulando il quesito di diritto prescritto dall’art. 366 bis c.p.c., “Violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5) in relazione alla violazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 e art. 6, par. 1 CEDU, quanto alla durata complessiva del processo inteso quale indagini preliminari e processo penale ne suo insieme ai fini della valutazione del termine ragionevole del processo”.

La ricorrente si duole che dal computo della durata complessiva valutabile ai fini dell’equa riparazione sia stato espunto il periodo delle indagini preliminari, che precedono il vero e proprio esercizio dell’azione penale, dovendosi a suo parere individuare il dies a qua in quello del momento dell’acquisizione della notizia criminis e, quindi, dell’inizio dell’attivita’ procedimentale, e, pertanto, nella specie quello del 9 settembre 1998, giorno in cui venne effettuata l’iscrizione nel registro delle notizie di reato del Tribunale di Palermo.

Il motivo non ha pregio.

La decisione adottata dai giudici di merito appare, infatti, ineccepibile, rivelandosi aderente al dettato normativo ed al condiviso consolidato orientamento di questa Corte (cfr, tra le numerose altre, Cass. 200927239), secondo cui “In tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, nella valutazione della durata di un procedimento penale, il tempo occorso per le indagini preliminari puo’ essere computato solo a partire dal momento in cui l’indagato abbia avuto la concreta notizia della sua pendenza, solo da tale conoscenza sorgendo la fonte d’ansia e patema suscettibile di riparazione”, e piu’ specificamente secondo cui (cfr. Cass. 200301740) “In tema di equa riparazione per violazione della durata ragionevole di un processo penale, fino a quando l’apertura del procedimento e lo svolgimento delle indagini preliminari rimangano effettivamente segrete non puo’ parlarsi di pendenza del processo, trattandosi di fase assolutamente inidonea ad incidere sulla psiche o sul patrimonio dell’interessato; e’ pertanto da escludere che la semplice iscrizione della notitia criminis nell’apposito registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen., con il nome della persona alla quale il reato stesso e’ attribuito, valga a segnare, in difetto di conoscenza da parte dell’indagato, l’inizio del processo ai fini del computo della ragionevole durata di esso ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89. o ancora (cfr. Cass. 201010310) “In tema di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001, nella valutazione della durata del processo penale si deve tener conto della fase delle indagini preliminari solo dal momento in cui l’indagato abbia avuto concreta notizia della pendenza del procedimento nei suoi confronti: pertanto, nessuna rilevanza puo’ essere riconosciuta, a tal fine, ne’ all’identificazione di persona effettuata dalla polizia giudiziaria ex art 349 cod. proc. pen., trattandosi di attivita’ che puo’ riguardare indifferentemente soggetti nei cui confronti vengono svolte le indagini ovvero soltanto in grado di riferire circostanze rilevanti per la ricostruzione dei fatti, ne’ all’invito ad indicare l’indirizzo per ulteriori comunicazioni, il quale non attribuisce la qualifica di indagato, quando non vi sia stata la richiesta di una formale dichiarazione o elezione di domicilio per le notificazioni a norma dell’art. 161 cod. proc. pen.”.

Pertanto il ricorso deve essere respinto, con conseguente condanna della D. al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la D. al pagamento, in favore del Ministero della Giustizia, delle spese del giudizio di legittimita’, liquidate in Euro 500,00.

Cosi’ deciso in Roma, il 8 luglio 2010.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2010

 

 

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