Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19234 del 21/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 21/09/2011, (ud. 06/07/2011, dep. 21/09/2011), n.19234

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE

GORIZIA 14, (STUDIO LEGALE SINAGRA – SABATINI – SANCI) presso lo

studio dell’avvocato SABATINI FRANCO, che lo rappresenta e difende,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COOPSERVICE SOCIETA’ COOPERATIVA PER AZIONI, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

G.FERRARI 11, presso lo studio dell’avvocato VALENZA DINO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROSSI MARCELLA, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1908/2008 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 21/01/2009, r.g.n. 932/08;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/07/2011 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito l’Avvocato LUCISANO CLAUDIO per delega FRANCO SABATINI;

udito l’Avvocato VALENZA STEFANO per delega DINO VALENZA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per: in via principale

improcedibilità, in subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- La sentenza attualmente impugnata – riformando la sentenza del Tribunale di Pescara n. 1169 del 4 settembre 2008 – rigetta la domanda di A.A. volta ad ottenere la dichiarazione dell’inefficacia del licenziamento intimatogli il 6 ottobre 2006 dalla COOPSERVICE s.coop.p.a. e la condanna della datrice di lavoro alla reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro, con la corresponsione delle retribuzioni maturate medio tempore, gli accessori di legge e la conseguente regolarizzazione della relativa posizione previdenziale.

La Corte d’appello dell’Aquila precisa che:

1) è pacifica tra le parti l’applicazione, nella specie, del c.c.n.l. per i dipendenti degli Istituti di vigilanza privata, che prevede il diritto del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro per i seguenti periodi: a) fino a 240 giorni di malattia riferibile a più episodi morbosi, nell’arco dell’anno solare; b) fino a 300 giorni di malattia, anche non continuativi, riferibili allo stesso episodio morboso, nell’arco dell’anno solare, a condizione che l’imputabilità della malattia al medesimo episodio morboso sia certificata come tale prima della scadenza del suddetto periodo di 240 giorni, salva la possibilità per il datore di lavoro di procedere al licenziamento senza obbligo di preavviso, nel caso di superamento dei suddetti periodi di comporto;

2) diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, va sottolineato che la rado della suddetta norma, nella parte relativa all’operatività del termine lungo di comporto, è quella di rendere edotto il datore di lavoro della riferibilità della malattia al medesimo episodio morboso;

3) è documentalmente provato che l’ A., con lettera del 5 giugno 2006, ha chiesto la concessione dell’aspettativa per malattia fino a 300 giorni, a causa dello stesso episodio morboso (così informando la datrice di lavoro della propria intenzione di volere usufruire del correlato periodo lungo di comporto), ma anche che il lavoratore non ha inviato tempestivamente alcuna certificazione medica attestante l’unicità dell’episodio morboso;

4) a tale lettera la società ha dato pronto riscontro con nota dell’8 agosto (recte: giugno) 2006, richiamando la suddetta norma della contrattazione collettiva e il conseguente obbligo di invio della certificazione medica pertinente;

5) è pretestuosa la deduzione secondo cui, essendosi la società riferita alla “ordinaria” certificazione attestante la malattia, non era chiaro che intendesse avere riguardo alla certificazione sulla unicità dell’episodio morboso;

6) a fronte del suddetto sollecito, il lavoratore non ha ottemperato all’onere indefettibile di inviare idonea certificazione medica, nel senso precisato;

7) il lavoratore non ha neppure chiesto giudizialmente un accertamento peritale a conforto della fondatezza del proprio assunto;

8) in tal modo, l’ A. ha reso legittimo il recesso datoriale per superamento dell’ordinario periodo di comporto, non avendo il lavoratore diritto alla conservazione del posto di lavoro;

9) d’altra parte, la tempestività della comunicazione del licenziamento deve essere valutata in concreto, con riguardo al periodo interessato e all’organizzazione aziendale;

10) nella specie, lo spatium deliberandi di due mesi in capo al datore di lavoro appare congruo per consentire una adeguata valutazione della complessiva situazione del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità con gli interessi aziendali;

11) va, infatti, considerato che la sede della società datrice di lavoro era in Reggio Emilia, dove si trovavano gli uffici di gestione di tutto il personale, e che il termine breve di comporto è scaduto il 12 agosto 2006, ossia a ridosso del Ferragosto, quando la maggior parte della dirigenza aziendale stava usufruendo del riposo estivo;

12) inoltre, non possono trarsi elementi univoci a favore della tesi del ritardo della comunicazione del licenziamento – e, quindi, della rinuncia del datore di lavoro a far valere il periodo ordinario di comporto – dalla comunicazione con la quale la cooperativa, in vista della ripresa in servizio dell’ A. al termine del periodo di aspettativa, ha raccomandato la necessità del rinnovo del titolo di nomina a guardia particolare giurata e del porto d’armi.

2.- Il ricorso di A.A. domanda la cassazione della sentenza per sette motivi; resiste, con controricorso, la COOPSERVICE s.coop.p.a.

Il ricorrente deposita anche memoria ex art. 378 cod. proc. civ.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Sintesi dei motivi.

1. Con il primo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3- violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., comma 1, e dell’art. 1363 cod. civ. Si osserva che la sentenza di primo grado ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento dell’ A. in quanto, dopo aver precisato sulla base delle risultanze processuali la riconducibilità di tutte le assenze per malattia del lavoratore al medesimo episodio morboso, ha ritenuto applicabile l’art. 11 del c.c.n.l. per i dipendenti degli istituti di vigilanza privata secondo il quale in questo caso l’interessato può avvalersi di un periodo di comporto pari a 330 giorni, sempre che offra idonea certificazione dell’unicità della malattia prima della scadenza del periodo di comporto ordinario, pari a 240 giorni annui.

Il Tribunale, pur avendo rilevato che l’ A. non ha provveduto ad inviare la suddetta certificazione medica, ha tuttavia affermato che, con la lettera tempestivamente inviata il 5 giugno 2006 alla datrice di lavoro per chiedere di poter usufruire del comporto più lungo, la società è stata posta in condizione di conoscere il protrarsi della malattia e, quindi, di richiedere la prescritta certificazione.

Il Tribunale ha anche sottolineato che la cooperativa lì per lì è rimasta del tutto inerte e si è attivata solo in prossimità dello spirare del comporto prolungato per irrogare il licenziamento riferendosi al termine di comporto ordinario, spirato nelle more.

La Corte d’appello, invece, violando le su richiamate regole ermeneutiche, ha costruito la vicenda in modo diverso in quanto ha valorizzato la lettera raccomandata inviata l’8 giugno 2006 dalla cooperativa al lavoratore – lettera che, pur essendo stata depositata all’atto di costituzione in giudizio della cooperativa, era fino a quel momento rimasta estranea rispetto alla linea difensiva adottata dalla stessa – e ha attribuito ad essa il significato di una richiesta di invio della certificazione attestante l’unicità dell’episodio morboso, cui il lavoratore non ha dato alcun riscontro.

Sulla base di questa – ad avviso del ricorrente – erronea lettura della suddetta raccomandata la Corte aquilana ha escluso la violazione delle regole di buona fede e correttezza da parte della cooperativa, che invece il Tribunale aveva affermato.

2.- Con il secondo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, – violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., comma 1, (per un ulteriore profilo).

Si ribadisce l’erroneità del significato attribuito dalla Corte d’appello alla suddetta lettera dell’8 giugno 2006, sostenendosi che il Giudice del merito si sarebbe discostato dall’indirizzo giurisprudenziale secondo cui la ricostruzione della volontà espressa in un atto unilaterale deve muovere dalle parole e dalle espressioni in esso adoperate, non essendo consentito all’interprete sovrapporre al dato letterale la propria soggettiva opinione.

3.- Con il terzo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia – in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 416 cod. proc. civ. Si contesta l’affermazione della Corte aquilana secondo cui il lavoratore non ha ottemperato all’onere indefettibile di provare l’invio della certificazione medica riguardante la riferibilità dell’assenza ad un unico episodio morboso, nè ha chiesto giudizialmente un accertamento peritale a conforto della fondatezza del proprio assunto.

Tale statuizione, secondo il ricorrente, dimostrerebbe che la Corte d’appello non ha tenuto conto del fatto che la cooperativa non aveva effettuato alcuna specifica contestazione, alla deduzione dell’unicità della malattia contenuta nel ricorso introduttivo, conseguentemente il ricorrente avrebbe dovuto essere considerato sollevato dal relativo onere probatorio e il giudice non avrebbe potuto effettuare alcun controllo probatorio al riguardo.

4.- Con il quarto motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia- in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, – violazione e falsa applicazione dell’art. 2617 (recte: 2697) cod. civ., in relazione all’art. 191 cod. proc. civ. Si ribadisce che la Corte d’appello, a proposito della prova dell’unicità della malattia, ha sottolineato che l’ A. neppure ha chiesto giudizialmente un accertamento peritale a conforto della fondatezza del proprio assunto.

Si rileva che, in tal modo, il Giudice del merito non ha considerato la consulenza tecnica è un mezzo istruttorio officioso, rispetto al quale l’eventuale istanza di parte rileva soltanto come semplice sollecitazione, non condizionante.

A fronte della deduzione dell’unicità dell’episodio morboso, supportata da idonea documentazione medica (che viene riprodotta nel corpo del presente ricorso), non può essere addebitata all’interessato la mancata richiesta dell’ammissione della consulenza medico-legale, finalizzata a comprovare la fondatezza del suddetto assunto.

5.- Con il quinto motivo di ricorso si denuncia – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, – omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si rileva che la Corte d’appello ha escluso la tardività della comunicazione del licenziamento (avvenuta con lettera raccomandata spedita il 6 ottobre 2006) per l’assenza della maggior parte del personale dirigenziale alla data di scadenza del periodo di comporto breve (12 agosto 2006), senza indicare la fonte da cui ha tratto il suddetto convincimento (di cui non vi è traccia neppure negli atti processuali).

6.- Con il sesto motivo di ricorso si denuncia in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, -omessa motivazione sul medesimo fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si sostiene che l’azienda era stata preavvertita, con un certificato medico del 19 luglio 2006, della scadenza del comporto ordinario (il 12 agosto 2006), sicchè era stata posta in condizione di provvedere tempestivamente all’invio della lettera di licenziamento. Pertanto, anche da questo punto di vista, l’apodittico riferimento alla assenza della maggior parte del personale dirigenziale, sarebbe non solo assolutamente inidoneo a giustificare il ritardo della cooperativa, ma anche fondato su un esame parziale delle risultanze probatorie.

7.- Con il settimo motivo di ricorso, illustrato da quesito di diritto, si denuncia – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., commi 1 e 2.

Si sottolinea che dal tenore del telegramma inviato il 6 ottobre 2006 al lavoratore dalla cooperativa l’ A., nel corso del giudizio, aveva sostenuto che la datrice di lavoro aveva rinunciato ad avvalersi del comporto ordinario (ormai scaduto da due mesi), desumendolo, in particolare, dall’ultima parte del telegramma stesso nella quale si faceva riferimento all’eventuale sospensione dal servizio e dalla retribuzione.

La Corte d’appello, invece, nell’escludere la possibilità di interpretare il telegramma nel suddetto modo, ha omesso di fare riferimento alla suindicata parte finale del testo, così snaturandone il significato complessivo.

2 – Esame dei motivi.

8. I motivi del ricorso – da esaminare congiuntamente, data la loro intima connessione – non sono da accogliere.

In linea generale, va detto che la maggior parte delle doglianze si risolve in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni del materiale probatorio e dei convincimenti del Giudice del merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione.

2-a – In particolare: il primo, il secondo e il settimo motivo.

9.- Neppure va omesso di considerare che la suddetta inammissibile richiesta nel primo, nel secondo e nel settimo motivo è altresì formulata attraverso la prospettazione di vizi di violazione di legge, pur consistendo sostanzialmente nella contestazione della valutazione delle risultanze processuali operata dalla Corte d’appello, con particolare riguardo, rispettivamente, alla interpretazione della lettera raccomandata dell’8 giugno 2006 e del telegramma del 6 ottobre 2006 inviati dalla società al lavoratore.

Ciò è in contrasto con il consolidato e condiviso orientamento di questa Corte secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. 11 discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. SU 5 maggio 2006, n. 10313; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698).

2-b – In particolare: il quinto e il sesto motivo.

10.- Ove, invece, vengono prospettati vizi di motivazione – nel quinto e nel sesto motivo la relativa denuncia appare in realtà diretta a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, si risolve nella prospettazione di un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti. Sicchè, anche nei suddetti casi le doglianze non sono accoglibili, atteso che i suddetti aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (vedi, per tutte: (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064).

Va, inoltre, considerato che mentre nel licenziamento disciplinare vi è l’esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa all’incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole spatium deliberandi che va riconosciuto al datore di lavoro perchè egli possa valutare convenientemente nel complesso la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di compatibilità della sua presenza in rapporto agli interessi aziendali, sicchè in questo caso la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all’intero contesto delle circostanze significative (Cass. 8 marzo 2011, n. 7037; Cass. 25 novembre 2010, n. 23920).

Ne consegue che le contestate statuizioni contenute nella sentenza impugnata in merito alla non tardività della comunicazione del licenziamento, risultano del tutto esenti da vizi.

La Corte aquilana, infatti, ha fornito una motivazione adeguata alla effettuata valutazione del materiale probatorio priva di vizi logici e giuridici, sicchè essa è insindacabile in sede di legittimità (Cass. SU 27 dicembre 1997 n. 13045; Cass. 5 ottobre 2006 n. 21412), tanto più che la motivazione stessa risulta plausibile e conforme al consolidato e condiviso principio secondo cui il giudice è tenuto ad avvalersi, come regola di giudizio destinata a governare sia la valutazione delle prove, che l’argomentazione di tipo presuntivo, delle massime d’esperienza (o nozioni di comune esperienza), da intendere come proposizioni di ordine generale tratte dalla reiterata osservazione dei fenomeni naturali o socioeconomici (vedi, per tutte:

Cass. 28 ottobre 2010, n. 22022).

2-c – In particolare: il terzo e il quarto motivo.

11.- Quanto, poi, al terzo e al quarto motivo del ricorso va precisato che, in linea generale, secondo un consolidato e condiviso indirizzo di questa Corte, in tema di prova spetta in via esclusiva al Giudice del merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonchè la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che egli non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (vedi per tutte: Cass. 15 luglio 2009, n. 16499).

La suddetta regola non subisce eccezioni nel rito del lavoro e vale, mutatis mutandis, anche con riguardo alla nomina del consulente tecnico d’ufficio.

Infatti, come sottolineato anche dalla Corte costituzionale, nell’ordinanza n. 124 del 1995, dichiarativa della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 201 cod. proc. civ., per la parte in cui autorizza la nomina dei consulenti tecnici di parte solo nel caso di nomina del consulente tecnico d’ufficio:

a) le consulenze tecniche (sia d’ufficio sia di parte) non costituiscono mezzi di prova perchè non sono preordinate ad accertare fatti rilevanti ai fini della decisione, bensì ad acquisire elementi di valutazione ovvero a ricostruire circostanze attraverso una specifica preparazione, a scopo di controllo sugli elementi di prova acquisiti al processo e (nel caso della c.t.u.) in funzione ausiliaria del giudice;

b) esse tuttavia ineriscono all’istruzione probatoria;

c) comunque, la norma dell’art. 201 cod. proc. civ. lascia sempre salva la possibilità per la parte di produrre in causa perizie stragiudiziali, integranti anch’esse semplici mezzi di difesa come le deduzioni e argomentazioni dell’avvocato, soggette al libero apprezzamento del giudice.

Alle suesposte considerazioni va aggiunto che, in base ad una consolidata giurisprudenza di questa Corte:

1) quando la nomina di un consulente tecnico non sia imposta dalla legge in considerazione della particolare natura della controversia, il giudice ha solo una facoltà di fare ricorso, anche di ufficio, al parere di un suo perito per le valutazioni che richiedono specifiche conoscenze tecniche. In assenza di istanza di parte il giudice non ha, dunque, alcun dovere di motivazione sulle ragioni che lo hanno indotto a non avvalersi di questa facoltà (Cass. 14 febbraio 2006, n. 3187);

2) in materia di procedimento civile, la consulenza tecnica d’ufficio non costituisce un mezzo di prova, ma è finalizzata all’acquisizione, da parte del giudice, di un parere tecnico necessario, o quanto meno utile, per la valutazione di elementi probatori già acquisiti o per la soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze. La nomina del consulente rientra quindi nel potere discrezionale del giudice, che può provvedervi anche senza alcuna richiesta delle parti, sicchè ove la parte ne faccia richiesta non si tratta di un’istanza istruttoria in senso tecnico ma di una mera sollecitazione rivolta al giudice affinchè questi, avvalendosi dei suoi poteri discrezionali, provveda al riguardo (Cass. 21 aprile 2010, n. 9461);

3) alla luce del valore informatore del contraddittorio (art. 111 Cost.), il giudice ha il potere-dovere di esaminare i documenti prodotti dalla parte solo nel caso in cui la parte interessata ne faccia specifica istanza, esponendo nei propri scritti difensivi gli scopi della relativa esibizione con riguardo alle sue pretese, derivandone altrimenti per la controparte l’impossibilità di controdedurre e risultando per lo stesso giudice impedita la valutazione delle risultanze probatorie e dei documenti ai fini della decisione (Cass. 24 dicembre 2004, n. 23976; Cass. 20 ottobre 2005, n. 20265).

Nè va pretermesso che, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, non esiste un dovere del datore di lavoro di avvertire il lavoratore, assente per lungo tempo per malattia, che il periodo di conservazione del posto sta per scadere. Infatti, il lavoratore è in grado, anche con l’assistenza del sindacato, di effettuare la somma del giorni di assenza per malattia e di verificare se il periodo di conservazione del posto stia per scadere (Cass. 22 aprile 2008, n. 10352).

Dall’insieme dei suddetti principi deriva che il punto della motivazione nel quale la Corte aquilana ha ritenuto che il lavoratore non abbia ottemperato all’onere di inviare idonea certificazione medica attestante la riferibilità delle assenze allo stesso episodio morboso appare del tutto conforme agli invocati artt. 2697 cod. civ., degli artt. 416 e 191 cod. proc. civ., senza che possa assumere alcun rilievo, in contrario, il riferimento alla mancata richiesta giudiziale da parte dell’ A. di un accertamento peritale a conforto della fondatezza del proprio assunto.

Si tratta, infatti, di un riferimento che non solo appare del tutto pleonastico nell’economia della decisione – nella quale la Corte territoriale ha comunque motivato in modo esuastivo e logico la statuizione di legittimità del licenziamento per superamento del periodo di comporto – ma che, comunque, denuncia una insufficienza di attività difensiva da parte del ricorrente, visto che essendo il thema decidendum del giudizio incentrato proprio sulla dimostrazione della riferibilità delle assenze per malattia del lavoratore al medesimo episodio morboso, per suffragare la propria tesi l’ A., in base ai principi dianzi riportati, avrebbe comunque potuto produrre in causa, nel rispetto del principio del contraddittorio, una perizia stragiudiziale, la quale – pur se integrante un semplice mezzo di difesa, al pari delle deduzioni e argomentazioni dell’avvocato, e quindi soggetta al libero apprezzamento del giudice – comunque avrebbe fatto sorgere il potere- dovere del giudice di esaminarla.

3 – Conclusioni.

12.- In sintesi il ricorso va rigettato.

La alterna sorte della causa nei gradi di merito, indice della complessità della vicenda in fatto, giustifica la compensazione delle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 6 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2011

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