Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19231 del 07/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 07/07/2021, (ud. 14/05/2021, dep. 07/07/2021), n.19231

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 11370/2015 R.G. proposto da:

Z.E., rappresentato e difeso dall’avv. Giovanni Valtulini

ed elettivamente domiciliato, in Roma, Via Celimontana n. 38, presso

lo studio dell’avv. Paolo Panariti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante p.t.,

rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato,

domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, sezione staccata di Brescia, n. 6819/67/2014, pronunciata

il 21.7.2014 e depositata il 15.12.2014.

Udita la relazione svolta nell’adunanza camerale del 14 maggio 2021

dal consigliere Dott. Saieva Giuseppe.

 

Fatto

RILEVATO

che:

Z.E., titolare di una ditta di arredamenti, impugnava nove avvisi di accertamento, emessi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, dall’Agenzia delle entrate di Bergamo che aveva rideterminato in forma sintetica i redditi per l’anno 2006, in Euro 42.257,00, a fronte di Euro 7.948,00 dichiarati; per l’anno 2007, in Euro 68.680,00, a fronte di Euro 11.498,00 dichiarati; per l’anno 2008, in Euro 77.481,00, a fronte di Euro 15.769,00 dichiarati. A tal fine l’ufficio aveva accertato che il contribuente, negli anni anzidetti, era risultato in possesso di vari immobili (appartamenti e box in Azzano San Paolo e Gorle, nonchè di un negozio in Bergamo); di vari autoveicoli (tra cui una Porsche Carrera Cabrio, una BMW X5, una FIAT 500 ed altro); che lo stesso aveva poi pagato premi assicurativi per polizze danni e rate mensili di mutuo di Euro 960,26 ciascuna e che comunque la sua capacità contributiva era ben superiore a quella risultante dalle dichiarazioni.

La Commissione tributaria provinciale di Bergamo rigettava il ricorso del contribuente, il cui appello proposto dinanzi alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, sezione staccata di Brescia, veniva egualmente rigettato, con sentenza n. 6819/67/14 depositata il 21.7.2014, nella considerazione che gli anzidetti redditi dichiarati si scostavano di oltre il 25 % da quelli calcolati sulla base degli accertamenti svolti.

Avverso tale sentenza il contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Il ricorso è stato fissato nell’adunanza camerale del 14 maggio 2021, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c, e art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo il ricorrente, richiamando le statuizioni di cui alla sentenza n. 37 del 17 marzo 2015 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità del D.L. n. 16 del 2012, deduce ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 l’inesistenza e/o nullità degli avvisi di accertamento impugnati per difetto di potere del soggetto sottoscrittore, in quanto tutti gli avvisi impugnati non recavano la firma del direttore dell’ufficio, ma quella di altro funzionario privo di apposita delega.

La censura è inammissibile.

Invero, non potendosi dubitare della novità della questione (dedotta solo in grado di appello), oggi puntualmente contestata dall’Agenzia resistente, ma già disattesa dalla C.T.R. in quanto formulata per la prima volta nel secondo grado di giudizio, la censura si appalesa inammissibile del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 57, oltre che per violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., secondo cui, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale, è necessario che il ricorso riporti testualmente, a pena di inammissibilità, le censure formulate con l’atto di appello o, quanto meno, ne riassuma il contenuto al fine di consentire a questa Corte, esclusivamente in base al ricorso medesimo, la verifica necessaria per escludere (o meno) la novità della questione sollevata (Cass. Sez. 5, n. 2928 del 13/02/2015).

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, contestando l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata in ordine all’asserita inammissibilità dell’appello del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 57, in quanto “alcuna nuova eccezione e/o motivo di difesa risulta essere stato aggiunto rispetto a quanto già dedotto ed argomentato in I grado”.

Anche tale censura è inammissibile.

Invero, il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità (art. 366 c.p.c.), l’indicazione di motivi che abbiano i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata. Nella specie il ricorrente non indica, non riproduce e non localizza gli atti idonei a comprovare il proprio assunto, talchè, trattandosi di contestazione generica e priva dei caratteri di autosufficienza, la doglianza si appalesa assolutamente inammissibile (Cass. Sez. 5, n. 8691 del 24/04/2015).

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, ed erronea applicazione dello strumento redditometrico, ritenendo che, conformemente a quanto affermato da questa Corte (S.U. sentenza n. 26635 del 18/12/2009), “non è adeguatamente motivato l’avviso di accertamento che faccia esclusivo riferimento a criteri presuntivi”; che “l’onere tributario deve essere ragguagliato all’effettiva capacità contributiva (art. 53 Cost.)”… che “deve essere dimostrata dall’ente impositore”; che “il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici” e, infine, che “il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto”.

Il motivo è inammissibile, oltre che infondato.

Questa Corte ha già chiarito (Cass. Sez. 5, 26/11/2014, 25104) che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, prevede (al primo periodo) che gli uffici finanziari, in base ad elementi e circostanze di fatto certi, possano “determinare sinteticamente il reddito complessivo netto del contribuente in relazione al contenuto induttivo di tali elementi e circostanze quando il reddito complessivo netto accertabile si discosta per almeno un quarto da quello dichiarato”. In sostanza, il citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38 prevede che il controllo della congruità dei redditi dichiarati possa essere effettuato partendo da dati certi ed utilizzando gli stessi come indici di capacità di spesa, per dedurne, avvalendosi di specifici e predeterminati parametri di valorizzazione (c.d. redditometro), il reddito presuntivamente necessario a garantirla. Quando il reddito determinato in tal modo si discosta da quello dichiarato per almeno due annualità, l’ufficio può procedere all’accertamento con metodo sintetico, determinando il reddito induttivamente e quindi utilizzando i parametri indicati, a condizione che il reddito così determinato sia superiore di almeno un quarto a quello dichiarato.

A tal fine questa Corte ha chiarito i confini della prova contraria a carico del contribuente, in tema di accertamento induttivo del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38, affermando (v. Sez. 5, 18/04/2014, n. 8995) che “l’accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenute alla fonte a titolo di imposta, ma la citata disposizione prevede anche che “l’entità di tali redditi e la durata del loro possesso devono risultare da idonea documentazione”. La norma richiede infatti qualcosa di più della mera prova della disponibilità di ulteriori redditi (esenti ovvero soggetti a ritenute alla fonte) e, pur non prevedendo esplicitamente la prova che detti ulteriori redditi siano stati utilizzati per coprire le spese contestate, esige espressamente una prova documentale su circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto (o sia potuto accadere). In tal senso va letto lo specifico riferimento alla prova (risultante da idonea documentazione) della entità di tali eventuali ulteriori redditi e della “durata” del relativo possesso, previsione che ha l’indubbia finalità di ancorare a fatti oggettivi (di tipo quantitativo e temporale) la disponibilità di detti redditi per consentire la riferibilità della maggiore capacità contributiva accertata con metodo sintetico in capo al contribuente proprio a tali ulteriori redditi, escludendo quindi che i suddetti siano stati utilizzati per finalità non considerate ai fini dell’accertamento sintetico, quali, ad esempio, un ulteriore investimento finanziario, perchè in tal caso essi non sarebbero ovviamente utili a giustificare le spese e/o il tenore di vita accertato, i quali dovrebbero pertanto ascriversi a redditi non dichiarati. Nè la prova documentale richiesta dalla norma in esame risulta particolarmente onerosa, potendo essere fornita, ad esempio, con l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo al contribuente, idonei a dimostrare la “durata” del possesso dei redditi in esame; quindi non il loro semplice “transito” nella disponibilità del contribuente”.

Nel caso in esame i giudici di appello hanno correttamente impostato il giudizio di merito sulla base di principi giurisprudenziali ormai consolidati, con specifico riguardo agli oneri probatori rispettivamente gravanti sulle parti, giungendo a conclusioni sfavorevoli al ricorrente sulla base di considerazioni di merito insindacabili in questa sede, ritenendo in particolare, che “il contribuente non aveva dimostrato che la maggiore capacità di spesa, con riferimento al reddito dichiarato, traeva origine dal possesso di disponibilità finanziarie derivanti da redditi esenti o soggetti ad imposta sostitutiva o da smobilizzi patrimoniali idonei a giustificare il più elevato tenore di vita”; mentre, “con i propri conteggi, l’Ufficio aveva dimostrato che i redditi dichiarati si scostavano di oltre il 25 % da quelli calcolati in base ai dati ed elementi certi accertati” e che “per ogni bene, il cui possesso era stato accertato in capo al contribuente, l’Ufficio effettuava correttamente i conteggi secondo i valori tabellari, i coefficienti, gli abbattimenti per vetustà, gli ulteriori abbattimenti di legge, tenuto conto anche delle spese per premi assicurativi e di quelle sostenute nel periodo in accertamento per incrementi patrimoniali”.

4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce “erronea valutazione delle prove fornite dal contribuente in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 per vizio di motivazione su fatto controverso e decisivo” non avendo la C.T.R. tenuto conto del fatto che i beni indice presi i considerazione dall’ufficio non erano di sua proprietà, avendone avuto solo la disponibilità temporanea o parziale.

Detta censura è inammissibile.

Come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte con sentenza 22/09/2014, n. 19881, “il nuovo testo del n. 5) dell’art. 360 c.p.c. introduce nell’ordinamento un vizio specifico, che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. La parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso”.

Nell’enunciare tale principio di diritto le Sezioni Unite hanno osservato che nella riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 è scomparso ogni riferimento letterale alla “motivazione” della sentenza impugnata e, accanto al vizio di omissione (seppur cambiato d’ambito e di spessore), non sono più menzionati i vizi di insufficienza e contraddittorietà.

In questa prospettiva, proseguono le Sezioni Unite, “la scelta operata dal legislatore è quella di limitare la rilevanza del vizio di motivazione, quale oggetto del sindacato di legittimità, alle fattispecie nelle quali esso si converte in violazione di legge: e ciò accade solo quando il vizio di motivazione sia così radicale da comportare, con riferimento a quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., la nullità della sentenza per “mancanza della motivazione”.

Invero, a seguito della riforma del 2012, è scomparso il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza ed è rimasto il mero controllo sull’esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione; controllo che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo.

Nel caso di specie, parte ricorrente non ha indicato alcun fatto storico, il cui esame sia stato omesso, nè il dato (testuale o extratestuale) idoneo a comprovare che tale fatto nel giudizio di merito abbia formato oggetto di discussione tra le parti.

Sulla base delle argomentazioni esposte, pertanto, si ritiene che i Giudici di secondo grado abbiano correttamente applicato le disposizioni normative poste alla base dell’accertamento sintetico.

Il ricorso va quindi rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso del contribuente e lo condanna al rimborso delle spese sostenute dall’Agenzia delle Entrate che liquida in 5.600,00 Euro, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 14 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2021

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