Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19229 del 21/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 21/09/2011, (ud. 09/06/2011, dep. 21/09/2011), n.19229

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20352/2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’Avvocato CARRIERI Mario, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.S.;

– intimata –

e sul ricorso 21651/2007 proposto da:

P.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RENO 21,

presso lo studio dell’avvocato RIZZO ROBERTO, che la rappresenta e

difende, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’Avvocato CARRIERI MARIO, giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 4537/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 13/07/2006 R.G.N. 3437/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega CARRIERI MARIO;

udito l’Avvocato RIZZO ROBERTO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale, in subordine sospensione del giudizio in attesa decisione

Corte Costituzionale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 24/1/02 il giudice del lavoro del Tribunale di Roma, nell’accogliere la domanda proposta da P.S. nei confronti delle Poste Italiane s.p.a, dichiarò la nullità dei termini apposti ai contratti intercorsi tra le partì e, per l’effetto, accertò che il rapporto di lavoro era da intendersi a tempo indeterminato a decorrere dal 23/2/98, condannando la società convenuta a ripristinarlo e a corrispondere alla ricorrente le retribuzioni sin dalla messa in mora del 27/3/2000.

A seguito di impugnazione della società la Corte d’appello di Roma riformò parzialmente tale decisione con sentenza del 29/5 – 13/7/06, dichiarando che tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro a tempo indeterminato dal 20/10/98, anzichè dal 23/2/98, mentre la confermò nel resto, compensando tra le stesse anche le spese del grado.

La Corte territoriale pervenne a tale decisione dopo aver ritenuto che era legittima l’apposizione del termine ai primi due contratti, stipulati rispettivamente per la ricorrenza delle esigenze eccezionali di cui all’art. 8 del ccnl del 26/11/94 (periodo 23/2 – 30/4/98) e per l’espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie (periodo 1/7 – 30/9/98), mentre era illegittima solo l’apposizione del termine al terzo contratto stipulato in relazione al periodo 20/10/98 – 30/1/99 per la medesima causale di cui al primo contratto.

Avverso tale sentenza propone ricorso in cassazione la società Poste italiane s.p.a che affida l’impugnazione a due motivi di censura.

Resiste con controricorso la P., la quale propone, a sua volta, ricorso incidentale affidato ad un motivo di censura al cui accoglimento si oppone la società postale.

Entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente va disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

1. Col primo motivo del ricorso principale vengono denunziati i seguenti vizi della sentenza: “Violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 1362 c.c., e segg.; violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 425 c.p.c.;

insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) in ordine alla efficacia dell’accordo del 25/9/1997, integrativo dell’art. 8 ccnl 1994.

La ricorrente ritiene, in particolare, che la questione relativa alla sussistenza o meno di un limite temporale dell’accordo sindacale del 25/9/97, vale a dire la data del 30/4/1998, non abbia ancora trovato una uniforme soluzione, nè tantomeno nel senso prospettato, a suo parere erroneamente, dalla Corte territoriale.

Ciò premesso la società Poste Italiane s.p.a. chiede che questa Corte enunci i seguenti principi di diritto:

a) “L’accordo del 25 settembre 1997 non contiene, in sè, alcuna limitazione temporale, in quanto integrativo della disciplina del CCNL, per cui ha efficacia per l’intera durata di questo”.

b) ” Gli accordi ed i verbali intervenuti tra le parti successivamente al 25/9/1997 e sino al 18/1/2001, non avevano natura negoziale bensì meramente ricognitiva del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto e della necessità di stipulare o meno ulteriori contratti a termine”.

c) “I termini individuati negli accordi successivi a quello del 25/9/1997 non si riferiscono alla scadenza dell’autorizzazione a stipulare contratti a termine ma alla durata delle assunzioni, una volta accertata la persistenza delle esigenze riorganizzative di cui all’accordo”.

d) “La posizione giuridica attiva affermata in giudizio meritevole di tutela può definirsi “diritto quesito” e quindi indisponibile da parte degli agenti contrattuali anche qualora l’accertamento preliminare della sua esistenza non sia stata ancora oggetto di verifica giudiziale per il tramite di sentenza passata in giudicato”.

Il motivo è infondato.

Osserva, invero, il Collegio che la Corte di merito ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che l’ultimo dei tre contratti intercorsi tra le parti è stato stipulato, per “esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane” – ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30 aprile 1998, vale a dire il 19/10/98 per il periodo 20.10.98-30.1.99.

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto “de quo”.

Al riguardo, sulla scia della pronunzia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. SU. 2-3-2006 n. 4588), è stato precisato che “l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato” (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). “Ne risulta, quindi, una sorta di “delega in bianco” a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato” (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v.

fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, “in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del ccnl 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1” (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-11-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In base a tale orientamento consolidato ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr.. Cass. 29-7-2005 n. 15969, Cass. 21-3-2007 n. 6703), va, quindi, confermata la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto “de quo”, risultando superfluo l’esame di ogni altra censura al riguardo.

2. Col secondo motivo è lamentata la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione agli artt. 1217 e 1233 c.c..

In particolare, ci si lamenta del fatto che la Corte di merito non avrebbe svolto alcuna verifica in ordine alla effettiva messa in mora del datore di lavoro e non avrebbe tenuto conto della possibilità che la lavoratrice abbia anche espletato attività lavorativa retribuita da terzi una volta cessato il rapporto di lavoro con la società resistente, disattendendo, peraltro, le richieste della società di ordine di esibizione dei modelli 101 e 740 del lavoratore.

La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: “Per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 cod. civ., e segg.”.

Tale quesito non riguarda il tema dell’aliunde perceptum e comunque, anche in ordine all’argomento della mora credendi risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v.

fra le altre Cass. 4-1-2001 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie” (v. Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Peraltro neppure può ignorarsi che nella fattispecie anche la illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente indichi se e in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) sia stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr. Cass. 15/2/2003 n. 2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336). Del pari, per quanto concerne l’aliunde perceptum (in relazione al quale manca del tutto il quesito) alcunchè di specifico viene poi indicato dalla ricorrente, laddove al riguardo era pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova (pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr.. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099).

Così risultato inammissibile il motivo riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo ius superveniens, rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore da 24 novembre 2010.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

Il ricorso principale va, pertanto, rigettato.

3. Con l’unico motivo del ricorso incidentale è dedotta la violazione dell’art. 8 del ccnl dei dipendenti dell’ente Poste Italiane del 26/11/1994 e dell’art. 1362 c.c., e segg., nonchè della L. n. 230 del 1962, artt. 1, 2 e 3 (art. 360 c.p.c., n. 3).

Si ritiene, in relazione al secondo contratto intercorso tra le parti nel periodo 1/7 – 30/9/98, che il solo dato del periodo temporale giugno-settembre era insufficiente a giustificare, in mancanza della prova della carenza di personale dovuta alla fruizione massiccia delle ferie da parte dei dipendenti in ruolo presso l’ufficio di destinazione della ricorrente, il ricorso alla tipologia del contratto a termine per la sostituzione di personale assente per ferie.

Tale censura è priva di fondamento atteso che non sussistono le violazioni denunciate con riferimento sia alla norma di legge che a quella contrattuale.

Questa Corte intende, infatti, ribadire la propria giurisprudenza, formatasi nel vigore dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3, nella sua originaria formulazione (cfr., fra le ultime, Cass. 2 marzo 2007 n. 4933), la quale, con riferimento ad una fattispecie simile a quella in esame, ha cassato la sentenza di merito che aveva affermato la necessità di uno specifico collegamento fra il singolo contratto e le esigenze aziendali; siffatta sentenza, ad avviso della S.C., era infatti viziata da violazione di norme di diritto e da un vizio di interpretazione della normativa collettiva.

La violazione di norme di diritto è stata individuata nella statuizione con la quale la sentenza di merito aveva negato che l’ipotesi di contratto a termine introdotta dalla contrattazione collettiva fosse del tutto autonoma rispetto alla previsione legale del termine apposto per sostituire dipendenti assenti per ferie; è stato rilevato in proposito che siffatta pronuncia del giudice del merito si poneva in contrasto col principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588; in base al suddetto principio, infatti, la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, che demanda alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge.

Per quanto concerne il vizio di interpretazione della normativa collettiva è stato osservato che la statuizione del giudice del merito, nell’escludere che l’autorizzazione conferita dal contratto collettivo possa contemplare, quale unico presupposto per la sua operatività, l’assunzione nel periodo in cui, di norma, i dipendenti fruiscono delle ferie, ha dimostrato una carenza di indagine sull’intenzione espressa dagli stipulanti; ed infatti il quadro legislativo di riferimento impone l’esame del significato delle espressioni usate dalle parti stipulanti, ed in particolare un’indagine sulle ragioni dell’uso di una formula diversa da quella della legge, priva di riferimenti alla sostituzione di dipendenti assenti, sostituiti dalla precisazione del periodo per il quale l’autorizzazione è concessa (pur potendo le ferie essere fruite in periodi diversi), onde verificare se la necessità di espletamento del servizio faccia riferimento a circostanze oggettive, o esprima solo le ragioni che hanno indotto a prevedere questa ipotesi di assunzione a termine, nell’intento di considerarla sempre sussistente nel periodo stabilito, in correlazione dell’uso dell’espressione in concomitanza; inoltre, altre decisioni di questa Suprema Corte (cfr.

ad esempio Cass. 6 dicembre 2005 n. 26678) hanno confermato la decisione di merito che, decidendo sulla stessa fattispecie, aveva ritenuto l’ipotesi di contratto a termine introdotta dalla contrattazione collettiva del tutto autonoma rispetto alla previsione legale del termine apposto per sostituire dipendenti assenti per ferie e interpretato l’autorizzazione conferita dal contratto collettivo nel senso che l’unico presupposto per la sua operatività fosse costituita dall’assunzione nel periodo in cui, di norma, i dipendenti fruiscono delle ferie.

Atteso che la sentenza impugnata ha interpretato correttamente la normativa in esame, avendo fatto corretta applicazione dei principi sopra richiamati, il ricorso incidentale deve essere rigettato.

La reciproca soccombenza delle parti induce la Corte a ritenere compensate tra le stesse le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Spese compensate.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2011

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