Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 19222 del 17/07/2019

Cassazione civile sez. trib., 17/07/2019, (ud. 31/05/2019, dep. 17/07/2019), n.19222

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9691/2013 R.G. proposto da:

Assemblaggio Stampaggio Meridionale s.r.l., in liquidazione, in

persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e

difesa dall’Avv. Luigi Manzi e dall’Avv. Cesare Glendi,

elettivamente domiciliata presso lo studio del primo in Roma, Via

Federico Confalonieri n. 5, in virtù di procura speciale

autenticata dal Notaio M.L. di Torino;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Campania, n. 75/18/2012, depositata il 22 febbraio 2012.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 31 maggio

2019 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle entrate, emetteva avviso di accertamento nei confronti della Assemblaggio Stampaggio Meridionale s.p.a. (ASM s.p.a.), per l’anno 2003, per quel che ancora qui rileva, con riferimento al riporto delle perdite emergenti nel periodo di imposta immediatamente precedente (anno 2002) ad una operazione di fusione con Stampitre s.p.a., ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 123, comma 5, nella formulazione all’epoca vigente. In particolare, secondo l’Agenzia delle entrate tali perdite, indicate al quadro RS dell’anno 2003 non potevano essere portate in deduzione del reddito per gli anni successivi, non essendo state rispettate le condizioni previste dalla norma.

2. La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, ritenendo fondata l’eccezione preliminare sollevata dalla contribuente in ordine al difetto di notifica dell’avviso di accertamento, perchè notificato dal messo comunale non abilitato a tale adempimento.

3. La Commissione tributaria regionale, in parziale accoglimento dell’appello articolato dall’Agenzia delle entrate, riteneva corretta la notifica dell’avviso di accertamento a mezzo messo comunale, nominato messo notificatore dal Sindaco il 24-1-1991 in attuazione di delibera della Giunta comunale del 1012-1990 e del decreto del Presidente del tribunale di Torino del 21-11-1992, con il quale il medesimo era stato autorizzato a svolgere funzioni di messo di conciliazione, essendo, peraltro, stato raggiunto lo scopo ai sensi dell’art. 156 c.p.c., con l’impugnazione tempestiva dell’avviso di accertamento da parte della contribuente. La Commissione regionale rigettava le doglianze della contribuente in ordine alla deducibilità delle perdite riportate in bilancio, dopo la fusione, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 123, comma 5.

4. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società, che deposita memoria scritta.

5. Resta intimata l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “Violazione dell’art. 112 c.p.c. nonchè in subordine violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 3 e in ulteriore subordine omessa o insufficiente motivazione sul fatto controverso e decisivo per il giudizio. Denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 e, in subordine, n. 5, richiamato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1”. La ricorrente deduce, infatti, che aveva eccepito dinanzi alla Commissione regionale l’inammissibilità dell’appello articolato dalla Agenzia delle entrate, in quanto quest’ultima, pur allegando di avere prodotto i documenti attestanti la sussistenza in capo al messo della qualifica di “messo notificatore” (nomina del Sindaco di Rivoli, in attuazione della delibera della Giunta comunale ed autorizzazione del Presidente del tribunale di Torino), non li aveva però prodotti in giudizio. Inoltre, la società rileva che, nelle controdeduzioni in appello, aveva dedotto la mancanza della attestazione di conformità tra l’esemplare dell’atto di appello notificato alla parte e gli esemplari che dovevano essere depositati presso la segreteria della Commissione tributaria provinciale e presso la segreteria della Commissione tributaria regionale nel termine di trenta giorni dalla spedizione dell’atto di appello. Tale eccezione non è stata in alcun modo esaminata dal giudice di appello che è incorso nel vizio di omessa pronuncia ai sensi dell’art. 112 c.p.c. Ove, poi, si voglia ritenere emesso un provvedimento di rigetto implicito della doglianza della società da parte della Commissione regionale vi è, comunque, una errata o mancata motivazione.

1.1. Tale motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

Invero, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 3, prevede che “in caso di consegna o spedizione a mezzo di servizio postale la conformità dell’atto depositato a quello consegnato o spedito è attestata conforme dallo stesso ricorrente. Se l’atto depositato nella segreteria della commissione non è conforme a quello consegnato o spedito alla parte nei cui confronti il ricorso proposto, il ricorso è inammissibile e si applica il comma precedente”.

Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 3, dispone, anche, che “l’inammissibilità del ricorso è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, anche se la parte resistente si costituisce a norma dell’articolo seguente”.

Per questa Corte la difformità tra l’atto di appello notificato e quello depositato, sanzionata con l’inammissibilità dell’impugnazione dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 3, (richiamato dal successivo art. 53, comma 2), è solo quella sostanziale idonea ad impedire effettivamente al destinatario della notifica la completa comprensione dell’atto e, quindi, a ledere il suo diritto di difesa, rendendo incerti sia “petitum” che “causa petendi”, e non quella che risulti irrilevante ai fini della comprensione del tenore dell’impugnazione ovvero tale che l’atto di costituzione dell’appellato contenga, comunque, una puntuale replica ai motivi di gravame contenuto nell’atto notificato (Cass., 24 maggio 2017, n. 13058; cass., 30 novembre 2011, n. 25504; Cass., 11 aprile 2011, n. 8138).

Pertanto, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 3, – richiamato, per il giudizio d’appello, dal successivo art. 53 – va interpretato nel senso che costituisce causa di inammissibilità del ricorso o dell’appello non la mancanza di attestazione, da parte del ricorrente, della conformità tra l’atto depositato e quello notificato ma solo la loro effettiva difformità, accertabile d’ufficio in caso di omissione dell’attestazione. Solo se la controparte è rimasta contumace, la mancata attestazione della conformità costituisce, di per sè, causa di inammissibilità, non essendo questa onerata dell’accesso presso la segreteria della commissione tributaria per verificare l’eventuale difformità tra l’atto a lei notificato e quello depositato, trattandosi di attività difensiva che presuppone, comunque, già sorto un interesse concreto a contraddire (Cass., 11 maggio 2017, n. 11637;Cass., 26 maggio 2014, n. 11760).

Nella fattispecie in esame, però, la ricorrente non ha indicato in alcun modo, per il principio di autosufficienza del ricorso, le eventuali difformità tra l’atto depositato presso la Commissione regionale e quello spedito alla parte, impedendo alla Corte ogni valutazione in ordine alla sussistenza delle difformità ed alla rilevanza delle stesse, tanto più che la società si è costituita nel giudizio di appello, con il deposito di analitiche controdeduzioni, dimostrando di avere ben compreso il tenore dell’atto di appello.

Peraltro, come detto, il motivo è anche infondato nel merito, in quanto la Commissione regionale, accogliendo in parte, nel merito, l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate, ha implicitamente rigettato l’eccezione di inammissibilità del gravame.

Infatti, per questa Corte non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo – nella specie, la S.C. ha ravvisato il rigetto implicito dell’eccezione di inammissibilità dell’appello nella sentenza che aveva valutato nel merito i motivi posti a fondamento del gravame – (Cass. Civ., 29191/2017).

Peraltro, l’inammissibilità del gravame non può mai derivare dalla asserita mancata produzione di documenti, che invece si allega essere stati ritualmente depositati.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. a), nonchè dell’art. 2697 c.c., della L. n. 142 del 1990, art. 64, comma 1, lett. c) e del D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 42, 50 e art. 274, comma 1, lett. a) e g) e della L. n. 16 del 1957, art. 1 e della L. n. 374 del 1992, art. 123, anche in relazione all’art. 156 e 160 c.p.c.. Denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, richiamato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1”, in quanto la notifica dell’avviso di accertamento effettuata dal messo comunale era inesistente, e quindi insuscettibile di sanatoria. In particolare, prima dell’entrata in vigore della L. n. 142 del 1990 la nomina di un soggetto a messo comunale richiedeva la delibera dell’organo collegiale dell’ente e la sua approvazione con decreto del Prefetto, con conseguente giuramento ai sensi dell’art. 273 del testo unico leggi comunali e provinciali di cui al R.D. 3 marzo 1934, n. 383. Con l’abrogazione di tale norma da parte della L. n. 142 del 1990, art. 64, comma 1, gli atti di nomina a messi comunali in base al Tulcp del 1934 errano divenuti inefficaci, essendo necessaria o la individuazione da parte del Sindaco, di volta in volta, scegliendo tra i funzionari di quarta qualifica, oppure un provvedimento del Consiglio comunale, in sede di approvazione dello statuto. Poi il D.Lgs. n. 267 del 2000 aveva confermato l’abrogazione del R.D. n. 383 del 1934 ed abrogato la L. n. 142 del 1990. Non essendo attribuita la nomina dei messi comunali nè al Sindaco (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 50), nè al Consiglio comunale, organo di indirizzo politico (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 42), tale competenza era stata trasferita, in via residuale, alla Giunta comunale (D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 48). I messi di conciliazione, poi, possono notificare solo determinati atti sostanziali, tra cui non sono ricompresi gli avvisi di accertamento. Inoltre, la Commissione regionale ha posto a carico della società la prova della inesistenza dell’atto di nomina del messo comunale, in violazione dell’art. 2697 c.c. Nè si può applicare il principio del raggiungimento dello scopo di cui all’art. 156 c.p.c., trattandosi di notifica, non nulla, ma inesistente.

2.1. Tale motivo è infondato.

Invero, costituisce principio giurisprudenziale consolidato quello per cui la notificazione di un atto tributario effettuato dal messo comunale, il cui provvedimento di nomina sia illegittimo, non è inesistente ma è affetta da nullità, sanabile non solo a seguito di costituzione in giudizio della parte, ma anche in ogni altro caso in cui sia raggiunta la prova dell’avvenuta comunicazione dell’atto notificato (Cass., 18 novembre 2008, n. 27375; Cass., 27 ottobre 1998, n. 10666; con riferimento alla irrilevanza della approvazione prefettizia dopo l’abrogazione del R.D. n. 383 del 1934, art. 273, vedi Cass. 22 febbraio 2002, n. 2536; anche Cass., 20 giugno 2008, n. 16819, per cui l’approvazione prefettizia va considerata un atto interno dell’iter procedimentale, avente funzione meramente ricognitiva e delibativa, in quanto la nomina del messo e la legittimazione ad eseguire la notificazione discende direttamente dalla legge ed in particolare dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, per gli atti impositivi, oppure dal L. n. 265 del 1999, art. 10, per tutti gli atti della pubblica amministrazione; in tal senso Cass., 30 agosto 2017, n. 20582). In motivazione, si è peraltro, ritenuto che grava su colui che propone eccezioni in senso tecnico l’onere di fornire la prova dei fatti su cui le stesse sono fondate (Cass., 27375/2008; anche Cass. 1620/2002; Cass., 2536/2002).

Tale orientamento non è smentito dalla decisione delle Sezioni Unite di questa Corte n. 14916/2016.

Pertanto, anche qualora si volesse ritenere tale notifica nulla (ma non se ne ravvisano i presupposti, non avendo fornito la relativa prova la contribuente a fronte delle affermazioni contenute nella sentenza della Commissione regionale), ma non certo inesistente, la contribuente ha proposto tempestiva impugnazione avverso l’avviso di accertamento, con conseguente sanatoria del l’asserito vizio ai sensi dell’art. 156 c.p.c..

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione dell’art. 36, comma 2, n. 4, richiamato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 61, nonchè dell’art. 132, n. 4 e dell’art. 156 c.p.c., comma 2 e dell’art. 118disp. att. c.p.c. e dell’art. 111 Cost. Denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, richiamato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1”, in quanto la motivazione della sentenza è risultata meramente apparente con specifico riferimento alla doglianza di cui al capo d) del rilievo della Agenzia delle entrate, relativo alla contestazione della deducibilità delle perdite per Euro 6.619.960,00, in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 123, comma 5, all’epoca vigente, per il mancato rispetto delle condizioni prevista da tale norma, a seguito della fusione. Tale censura, non affrontata dal giudice di prime cure che l’ha ritenuta assorbita, avendo accolto la questione pregiudiziale di inesistenza della notifica dell’avviso di accertamento, è stata ritualmente riproposta in sede di controdeduzioni in appello ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56. La Commissione regionale non ha in alcun modo chiarito le ragioni della infondatezza delle doglianze del contribuente.

3.1. Tale motivo è fondato.

Invero, la fusione è un fenomeno che interessa l’organizzazione patrimoniale e societaria dei soggetti di imposta, ma non la loro gestione, sicchè è un evento fiscalmente neutro ai fini reddituali. In tal modo, in base al principio di “neutralità” la fusione non costituisce realizzo nè distribuzione di plusvalenze o minusvalenze. Da questa operazione non può generare nè reddito imponibile nè perdita deducibile. Inoltre, nella determinazione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante non si tiene conto dell’avanzo o disavanzo iscritto in bilancio. Le plusvalenze “latenti”, invece, divengono tassabili con il loro realizzo mediante cessione a titolo oneroso. Pertanto, non rilevano le differenze tra valori reali e fiscalmente riconosciuti dei beni delle società che partecipano alla fusione. I beni ricevuti dalla incorporante assumono lo stesso valore fiscale che avevano presso l’incorporata, ma i divergenti valori contabili e fiscali devono essere annotati in un “prospetto” di riconciliazione da unire alla dichiarazione dei redditi. In caso di successiva cessione dei beni si assume corna valore di partenza, per il calcolo della plusvalenza, non il valore contabile del bene, ma il valore fiscalmente riconosciuto, indicato nel prospetto, con la tassazione della pluvalenza latente, non tassata in occasione della fusione.

La società incorporante, quindi, acquisisce il diritto alla utilizzazione delle perdite fiscali pregresse della società incorporata, ma la normativa, al fine di evitare la fusione sia realizzata solo al fine di consentire alla incorporante di “assorbire” le perdite della incorporata, ottenendo solo un beneficio fiscale, prevede dei limiti specifici alla deducibilità di tali perdite.

Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 123, comma 5, all’epoca vigente (ora art. 172, comma 7, nuovo Tuir), prevede che “le perdite delle società che partecipano alla fusione, compresa la società incorporante, possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante per la parte del loro ammontare che non eccede l’ammontare del rispettivo patrimonio netto quale risulta dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale di cui all’art. 2502 c.c., senza tenere conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi 24 mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione stessa, e sempre che dal conto dei profitti e delle perdite della società le cui perdite sono riportabili, relativo all’esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata, risulti un ammontare dei ricavi, di cui all’art. 2425 – bis c.c., parte prima, n. 1 e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, di cui, all’art. 2425 – bis c.c., parte seconda, n. 3, superiore al 40% di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori. Se le azioni o quote della società la cui perdita è riportabile erano possedute dalla società incorporante o da altra società partecipanti alla fusione, la perdita non è comunque ammessa in diminuzione fino a concorrenza dell’ammontare complessivo della svalutazione di tali azioni o quote effettuata ai fini della determinazione del reddito dalla società partecipante o dall’impresa che le ha ad essa cedute dopo l’esercizio al quale si riferisce la perdita e prima dell’atto di fusione, e delle plusvalenze di cui al comma 2 iscritte nel bilancio della società risultante dalla fusione o incorporante”.

Il requisito in ordine all’ammontare dei ricavi e delle spese per lavoro subordinato è volto ad evitare l’incorporazione di società inattive a fini elusivi (“vitalità” della società).

Il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 123, comma 5, (nel testo vigente “ratione temporis” ed applicabile fino al 31 dicembre del 2003) nel prevedere, quale uno dei criteri per beneficiare del riporto delle perdite in esito alla fusione, che nell’esercizio anteriore alla delibera di fusione risulti un ammontare di ricavi e proventi dell’attività caratteristica e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro dipendente e relativi contributi superiore al 40% rispetto alla media dei due periodi di imposta immediatamente precedenti, persegue l’obiettivo di evitare la fusione di “scatole vuote” o cariche solo di perdite da portare “in dote” all’incorporante, ma ormai svuotate di ogni concreta operatività, ed esige che la società abbia una residua efficienza, costituendo il limite predetto una presunzione di legge di operatività, rendendo irrilevanti, ai presenti fini, depotenziamenti dell’attività in esso contenuti, ma senza, nel contempo, esigere alcun depotenziamento (Cass., 20 ottobre 2011, n. 21782).

L’altro requisito concerne il quantum delle perdite riportabili, che non devono essere superiori al rispettivo patrimonio netto risultante dall’ultimo bilancio.

Invero, per questa Corte, il contenuto assolutamente chiaro del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 123, comma 5 (ora art. 172,comma 7), laddove prevede che le perdite conseguite dalle società partecipanti alla fusione sono riportabili nel limite del patrimonio netto delle stesse, senza tener conto dei versamenti effettuati dai soci nei ventiquattro mesi precedenti la situazione patrimoniale di riferimento, così perseguendo l’obiettivo di evitare la fusione di “scatole vuote”, cariche solo di perdite, ma di fatto non operative, non consente di ravvisare deroghe o condizioni di operatività diverse da quelle stabilite, non essendo, peraltro, la ricostituzione del capitale sociale un atto dovuto ai sensi dell’art. 2447 c.c. (Cass., 22 dicembre 2016, n. 26697).

Il terzo requisito concerne le fusioni con annullamento quando, prima della incorporazione, la società incorporante ha svalutato la partecipazione dell’incorporanda. In tal caso, si impedisce alla incorporante di dedurre, oltre alla svalutazione dei titoli, anche le perdite pregresse della società incorporata. E’ possibile, allora, dedurre le perdite anteriori della incorporata, ma fino a concorrenza dell’ammontare complessivo della svalutazione delle azioni o delle quote. Le perdite pregresse hanno, infatti, già trovato un riconoscimento fiscale con la suddetta svalutazione.

La Commissione regionale, a fronte della complessità della normativa citata, ha eluso ogni obbligo di motivazione, limitandosi a richiamare soltanto il contenuto della norma, senza aggiungere alcun elemento di fatto relativo alla fattispecie concreta in esame (cfr. motivazione della CTR “in seguito alla già citata operazione di fusione con Stampitre s.p.a., la appellata (incorporante) ha riportato nella società risultante dalla fusione le perdite emergenti nel periodo d’imposta immediatamente precedente la fusione (2002) sia del incorporante che dell’incorporata. Orbene ai sensi dell’art. 123, comma 5 Tuir le perdite indicate al quadro RS anno 2003 non possono essere riportate a deduzione dal reddito per gli anni successivi, in quanto non sono state rispettate le condizioni previste dalla stessa norma (come dettagliatamente illustrato ai fogli 62 ss. del PVC) la quale prevede che le perdite possono essere riportate in diminuzione dall’incorporata per la parte del loro ammontare che non eccede l’ammontare del rispettivo patrimonio netto quale risulta dall’ultimo bilancio o, se inferiore dalla situazione patrimoniale di cui all’art. 2502 c.c., senza tener conto dei conferimenti e versamenti fatti nei 24 mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione stessa. Pertanto le doglianze del contribuente sono infondate”).

Il riferimento alla illustrazione dettagliata di cui ai fogli 66 e seguenti del processo verbale di constatazione, in assenza della trascrizione dei passaggi salienti e più rilevanti, non contribuisce in alcun modo a fornire la motivazione della decisione.

La motivazione suddetta è, quindi, del tutto anapodittica e non spiega in alcun modo le ragioni della decisione e l’iter logico seguito dal giudice di appello, che si è limitato a riportare, peraltro, solo parzialmente il contenuto della norma invocata (art. 123, comma 5, vecchio tuir).

4. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce, in via subordinata, “Violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 156 c.p.c., comma 2, nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56. Denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, richiamato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1”, in quanto l’Ufficio aveva prefigurato una quota in diminuzione di Euro 840.885,00 da spalmare in cinque anni, ma non ne ha tenuto conto nel 2003. Su tale motivo il giudice di appello non si è pronunciato.

4.1. Tale motivo è assorbito, in quanto espressamente subordinato dalla ricorrente, al mancato accoglimento del motivo precedente.

5. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente su duole della “violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 156 c.p.c., comma 2, nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, con riferimento ad altro capo di domanda e di omessa decisione al riguardo. Denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, richiamato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1”, in quanto il giudice di appello ha omesso di esaminare il motivo di gravame in ordine alla sussistenza della incertezza oggettiva tale da determinare il venir meno delle sanzioni, oltre alla mancata applicazione della continuazione di cui al D.Lgs. n. 472 del 1992, art. 12, alle sanzioni.

5.1. Tale motivo è assorbito, in quanto il giudice del rinvio dovrà procedere ad una nuova valutazione delle risultanze probatorie, con decisione che non potrà non avere effetti sulle sanzioni.

6.La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il terzo motivo di ricorso; rigetta il primo ed il secondo motivo; dichiara assorbiti il quarto ed il quinto motivo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 31 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2019

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